Josep Maria de Sagarra |
Ritratto di una città
Nomi come quelli di Mercé Rodoreda,
Eduardo Mendoza, Juan Marsé, Manuel Vázquez Montalbán,
scrittori di riconosciuta qualità letteraria, oppure di Alicia Giménez Bartlett
e Carlos Ruiz Zafón, abili
produttori di best-seller, sono da tempo familiari al pubblico italiano grazie
a un consistente numero di traduzioni che li hanno collocati nelle nicchie
frequentate dai lettori forti, o piazzati ai primi posti delle classifiche. Differentissimi
tra loro, tanto da offrire a chi legge un ampio ventaglio di temi, stili e
generi, hanno tuttavia qualcosa in comune: tutti hanno contribuito alla
costruzione di una Barcellona “scritta”, al punto che le loro opere vengono
spesso considerate tasselli di un ritratto collettivo della città, elaborato in
epoche diverse e secondo molteplici punti di vista.
A porre le fondamenta del cosiddetto
“romanzo di Barcellona”, però, era stato nel 1932 Josep Maria de Sagarra,
rutilante personaggio che in Italia è ancora uno sconosciuto, nonostante il suo
monumentale Vita privata sia un classico della letteratura non solo catalana,
ma europea, come fa notare il prologo di Marcos
Ordóñez all’edizione Anagrama del 2019, e come ci dimostra la prima versione italiana del romanzo,
finalmente pubblicata da Crocetti nella collana Mediterraneo (pp. 434, e. 22,
traduzione di Enrico Ianniello).
Testo avvincente quanto complesso, Vita
privata fu scritto in un catalano che integrava nella lingua letteraria
(ormai codificata dal lavoro di Pompeu Fabra e dell’Institut
de Estudis Catalans) quella colloquiale, dando risalto a modi
di dire, varianti dialettali e gergali, giochi di parole accompagnati da un
fuoco d’artificio di metafore. E proprio all’uso di una “lingua proibita” e al
dichiarato catalanismo dell’autore, oltre all’aura di scandalo del romanzo, si
deve la censura che lo inghiottì negli anni del franchismo (con il quale, dopo
un periodo di esilio e di gravi difficoltà economiche, Sagarra finì comunque per
venire a patti), tanto che il libro fu recuperato in versione integrale solo
negli anni ’80 e tradotto in spagnolo da Jose Agustín
Goytisolo e Manuel Vázquez Montalbán:
una riscoperta che ebbe il sapore di una consacrazione e garantì prestigio postumo
all’autore, scomparso nel 1961.
Quando apparve questo suo terzo e
ultimo romanzo (i due precedenti sono prove giovanili e non del tutto riuscite),
Sagarra era all’apice della popolarità: nato nel 1894 in una famiglia nobile, impoverita
ma estremamente colta, poeta che aveva cominciato a pubblicare sin dall’adolescenza,
collaboratore delle principali testate catalane, traduttore di Shakespeare e
della Divina Commedia e autore teatrale prolifico e di successo, era
anche protagonista della vita mondana e notturna di una Barcellona che, tra
palazzi e bordelli, club esclusivi e quartieri piccolo borghesi, feste
abbaglianti e vicoli, gli fornì abbondante
materia prima per un testo sovrabbondante e spietato, letto non a caso come un roman à clef.
Nonostante l’assegnazione quasi
immediata di un premio importante, non tutti i critici dell’epoca apprezzarono
il libro e molti sostennero che l’autore, pur di vendere, non aveva esitato a
mettere in piazza in modo insolitamente esplicito “i segreti più nascosti”, le perversioni
e le inconfessabili debolezze delle élites cittadine. Sagarra, però, nel
rappresentare con perfidia la decadenza di una classe, che era e restava la
sua, aveva soprattutto intenzione di mettere a nudo la fine di un’epoca e l’ampiezza
della crisi che stavano vivendo Barcellona e la Spagna, durante il passaggio dalla
dittatura corrotta e liberticida di Primo de Rivera al mondo nuovo annunciato
dalla Seconda Repubblica. Come filo conduttore del suo affollatissimo racconto
scelse le vicende dei Lloberola, esponenti di un’aristocrazia parassitaria, “debole
e vile”, che nega ostinatamente il proprio naufragio economico, sociale e
morale di fronte all’ascesa di una borghesia vorace e al crescente scontento di
chi è impegnato a sopravvivere in tuguri miserabili e nel fragore ininterrotto
delle fabbriche tessili.
Il
romanzo è diviso in due parti: la prima gira in cerchi concentrici intorno al
grosso debito di Frederic de Lloberola (l’hereu
cui andranno il titolo e gli ultimi avanzi di un latifondo ormai saccheggiato),
che sta per scadere e non può essere onorato. Sarà il fratello minore Guillem,
avviato a una carriera di gigolò e avventuriero, a salvarlo dalla catastrofe,
grazie a un ricatto consumato gelidamente e quasi per gioco. La seconda parte ha
inizio cinque anni dopo e apre numerose linee di trama in forma di storie individuali (comprese
quelle di una nuova generazione dei Lloberola, i figli di Frederic, turbati da tentazioni
incestuose) intrecciate a grandi eventi, come l’Esposizione Universale del 1929
e la proclamazione della Repubblica, quando le classi dominanti, pur di non
perdere status e patrimonio, si affrettano a compiere un clamoroso cambio di
casacca che si sarebbe ripetuto (ma il Sagarra del 1932 non poteva ancora
saperlo) dopo la vittoria di Franco.
Il romanzo segue un modello
ottocentesco – e non ha torto chi individua in Vita privata l’ombra di
Balzac –, alternando magnifiche sequenze descrittive a dialoghi in cui si sente
l’eco dell’esperienza di drammaturgo; l’autore, tuttavia, non esita a usare
anche tecniche già familiari alla nuova letteratura europea, come il flusso di
coscienza, e osserva i suoi personaggi con una lente di ingrandimento che ne dilata
ogni gesto e movimento, ogni tratto fisico e morale, ogni piega degli abiti. Con
un gusto quasi proustiano per il dettaglio, Sagarra disseziona chiunque entri
nel suo campo visivo, inclusi comprimari e comparse, avventandosi con ironia
corrosiva su antenati, coniugi,
amanti e amici, passanti e camerieri, clienti di caffè o di bordelli, puttane
stagionate e procuratrici di aborti, preti abietti e patetici cani impagliati.
È attraverso questo sguardo minuzioso che il romanzo
guadagna voce e forza ed emerge il genio satirico dell’autore, in scene
esilaranti e amare come quella in cui Primo
de Rivera, panciuto e ripugnante, interviene a una matinée ed è subito circondato
da una folla di adulatori, dame trepidanti e squali senza scrupoli, che hanno
fatto fortuna grazie al suo regime. E memorabile è il brano in cui alcuni ricchi borghesi si avventurano nei locali del Barrio
Chino, di giorno quartiere operaio e di notte palcoscenico dei travestiti, di
coloro che il linguaggio medico del tempo chiamava “invertiti di professione” e
che si esibivano o prostituivano in abiti femminili, come la misera Lolita che scatena
tra i componenti maschi del gruppo un vero “panico omosessuale” e tra le donne
un affascinato orrore, scaturiti non tanto da un giudizio morale, quanto dal
tangibile manifestarsi di un’alterità estrema e delle enormi differenze sociali
che abitano la città.
Ed è proprio la città, ormai divorata dall’interno
come un frutto guasto, l’unico “personaggio” cui Sagarra, intuendo che la sua Barcellona
si avvia a una catastrofe sconosciuta e non misurabile, sembra guardare con
affetto, con nostalgia, con compassione, evocando nelle ultime pagine il profumo
delle rose vendute nei chioschi della Rambla, misto a quello “di nottambuli e
di democrazia”, mentre i taxi gialli trasportano “gocce di tristezza e di
prostituzione” e le rondini volano indifferenti nel cielo dell’alba.