![]() |
Amparo Davila |
Il corpo oscuro delle storie
Una donna misteriosa, di cui si sa
soltanto quel pochissimo che diceva di sé: un’infanzia borghese ricca di
fantasie e di letture, trascorsa in uno spettrale paesetto; il matrimonio
fallito con un famoso pittore; il lavoro come segretaria di un intellettuale
celebre, Alfonso Reyes; gli anni dedicati alla maternità e a impieghi di scarso
lustro… Una vita lunghissima e appartata, quella di Amparo Davila (nata a Pinos
nel 1928 e scomparsa nel 2020), connotata dal silenzio e dall’esercizio di una
scrittura che la rende quasi unica nel panorama letterario del suo paese, anche
se qualcosa la accomuna ad altre scrittrici messicane nate nella prima metà del
ventesimo secolo: pur differentissime tra loro, non sono poche quelle che, come
Davila, ci hanno lasciato un’opera di grande valore, ma sono uscite in fretta
dall’orizzonte editoriale.
A riscattarle e a dar loro un’ampia visibilità è stata una nuova e approfondita
rilettura critica, che oltre a indicarle all’attenzione del pubblico
contemporaneo le ha rese un punto di riferimento per altre e più recenti scritture:
nel caso di Davila, per esempio, il fascino che esercita sulle autrici messicane
di oggi si manifesta attraverso reinvenzioni (Veronica Gerber ha rielaborato
uno dei suoi racconti più famosi) o presenze fantasmatiche (Isabella Blum l’ha
inserita come personaggio in un suo romanzo, e lo stesso ha fatto Cristina
Rivera Garza), che recuperano e citano temi e figure caratteristici dei suoi
testi.
A partire del 2009, quando il Fondo
de Cultura Economica ha raccolto tutta la sua narrativa in Cuentos reunidos, i racconti di Davila hanno avuto più edizioni e sono
stati tradotti in molti paesi, compresa l’Italia, dove Safarà pubblica a giorni
Morte nel bosco (pp. 271, e. 19,50), tradotto come il precedente L’ospite
(2020) da Giulia Zavagna, che ha affrontato brillantemente il compito di
restituire in italiano, senza tradirlo né banalizzarlo, uno stile fondato su
atmosfere e immagini singolari.
I trentasette racconti dei due
volumi costituiscono l’intera opera in prosa di Davila (autrice anche di alcune
raccolte di poesie), scritta nell’arco di cinquant’anni: pochi titoli che però sono
bastati per creare attorno all’autrice un alone di leggenda e per metterla al
centro di analisi numerose quanto discordanti. C’è chi la paragona
sbrigativamente a Shirley Jackson, chi la collega a Borges e a Kafka, e quasi
tutti segnalano la sua appartenenza al territorio del fantastico o del «gotico
femminile», né manca chi parla di un’evidente parentela col surrealismo, mentre
si fa avanti un’interpretazione che lega le sue protagoniste – siano mogli
stanche o donne solitarie, prigioniere di matrimoni soffocanti e amori da poco –
alla sotterranea rivolta contro ruoli e norme che pretendono di modellarne i
corpi e le esistenze.
Davila, però, sembra sfuggire a
ogni tentativo di trafiggere con uno spillo il corpo oscuro delle sue storie, quasi
fossero insetti inquietanti o mostruosi; un dettaglio, una svolta spiazzante
finiscono sempre per sottrarla a classificazioni ed etichette, vanificando la
collocazione in un genere preciso. Quel che il lettore non potrà fare a meno di
notare è l’estrema coerenza dell’autrice, che ricorre invariabilmente ad ambientazioni
modeste e riconoscibili (interni domestici, uffici, giardini ben recitati) e
disegna una normalità fatta di eventi minimi per poi insinuarvi un elemento
inspiegabile e destabilizzante, così da introdurre a poco a poco il disagio, la
paura, lo scivolamento verso la follia o la morte.
Estranei inafferrabili invadono
tranquille abitazioni piccolo borghesi, si impadroniscono delle stanze, lanciano
richiami dagli specchi, impediscono il sonno, affiorano negli sguardi di una ragazza
timida rivelandone la nascosta ferocia, o costringono una madre di famiglia a scoprire
che il suo austero marito si è trasformato in un nuovo, piagnucoloso figlio
bambino. Ma il terrore, l’urlo finale, l’annichilimento, non sono
necessariamente di origine paranormale e ultraterrene: grazie all’abile reticenza
dell’autrice, non sappiamo mai se i personaggi non stiano in realtà affrontando
le proprie ombre interiori, o il senso di minaccia generato da un mondo sul
quale non hanno controllo e dove tutto viene tramato e deciso da poteri
sconosciuti, in un imprecisato “altrove”.
Forse la narrazione di Davila è, in
fondo, uno specchio paranoico che non si stanca di riflettere un orrore del
quale sospettiamo l’esistenza, ma che riusciamo a intravedere solo con la coda
dell’occhio. E non c’è dubbio che pochi autori riescano, come lei, a evocare un
terrore che lo scrittore e critico messicano Severino Salazar ha definito
postmoderno, in un’epoca in cui “ogni solida certezza è svanita nell’aria, e la
violenza interna ed esterna va libera
per le strade delle città e dei paesi”.
Questo articolo è apparso sul quotidiano il manifesto nel febbraio del 2023