giovedì 24 gennaio 2019

Da leggere: Juan Octavio Prenz


Juan Octavio Prenz



Il silenzio del Signor Kreck

Non è un caso che nello stemma di Ensenada, tra La Plata e Buenos Aires, ci sia un “tre alberi” con le vele ammainate, fermo a poca distanza dalla costa: l’insenatura del Rio della Plata, dalla quale la cittadina prende il nome, è stata per secoli approdo di imbarcazioni d’ogni tipo, dai vascelli inglesi durante la tentata invasione del 1806, fino alle navi schiaviste. In vista di quel porto è nato nel 1932 Juan Octavio Prenz, uno dei più appartati e segreti fra gli scrittori di lingua spagnola, professore universitario, saggista e traduttore, poeta e romanziere al quale, il ventiquattro gennaio, Claudio Magris ha consegnato il Premio Nonino Internazionale.

A Prenz, figlio di immigrati istriani di lingua croata, che dal 1979 vive e insegna a Trieste dopo lunghi soggiorni a Belgrado e Lubiana, Magris è unito da un sodalizio che traspare dal prologo a Solo gli alberi hanno radici (La Nave di Teseo, 2017), romanzo in cui Ensenada diventa un turbinoso punto di incrocio tra storie, lingue, culture. Perché l’identità, suggerisce Prenz, non è questione di radici, quanto di ali, “in funzione di un futuro da condividere, piuttosto che di un passato da contemplare”.

Dopo aver compiuto all’inverso, per sfuggire a colpi di stato e dittature, il viaggio dei suoi genitori, e aver scritto e insegnato nelle lingue di paesi diversi, Prenz sembra dunque incarnare un umanesimo che respinge l’idea di purezza etnica, culturale e linguistica, e rivendica piuttosto un’idea di cittadinanza libera e cosmopolita, mentre il concetto di patria sfuma fino a diventare inafferrabile. A meno che, naturalmente, come per altri grandi scrittori anche per Prenz l’unica patria possibile sia la lingua in cui scrive.

La sua poesia (tradotta in più paesi) e la sua narrativa nascono in spagnolo, e spesso fanno ritorno a Ensenada, come nel suo romanzo più importante, Il signor Kreck – pubblicato nel 2006 dalla Editorial Losada, e per la prima volta in italiano da Diabasis nel 2014 –, o in Figure di prua, raccolta di poesie che rimanda alle antiche polene abbandonate, un tempo, in un angolo del porticciolo (entrambi i titoli escono presso La Nave di Teseo, nella traduzione di Betina Lilián Prenz, aggiungendosi al bizzarro e poetico La favola di Innocenzo Onesto, il decapitato, apparso da Marsilio nel 2001).

Nella storia del signor Kreck, narrata da voci diverse e abilmente alternate, Ensenada è il buen retiro (una casa confortevole, una buona moglie, vicini cordiali) di un tranquillo sessantenne emigrato dall’Istria, che ogni giorno, secondo una routine immutabile, raggiunge Buenos Aires, dove lavora nelle assicurazioni: un uomo come tanti, non fosse per un suo bisogno, difficile da esprimere come da intuire, di riflessione e di silenzio, nascosto dietro la loquace cordialità professionale. Nel suo paese d’adozione c’è appena stato un golpe militare (siamo nel ’77, Videla è al potere), l’ennesimo cui Kreck ha assistito nei quarant’anni trascorsi in Argentina, e che non lo turba in modo particolare. Stavolta, però, il mite assicuratore scoprirà a sue spese che chiunque può restare impigliato nell’appiccicosa ragnatela di paranoie poliziesche e burocratica crudeltà del Proceso de Reorganización Nacional. E poiché lui, all’insaputa di tutti e senza motivo apparente, ha affittato un appartamento dove soggiorna in solitudine ogni volta che può, viene subito incluso nell’esercito dei sospetti, incarcerato e interrogato per mesi, fino a un ambiguo rilascio che lo dichiara esente da “ogni responsabilità e colpa”, e che tuttavia lo trasforma ben presto in un desaparecido, sia pure diverso dagli altri.

Perché Kreck, che non ha mai voluto spiegare agli inquisitori il motivo dell’unico gesto insolito compiuto in vita sua, non intende svelarlo neppure alla moglie, quando infine torna a casa. Basta quella domanda per indurlo ad andarsene senza una parola: nessuno saprà più nulla di lui, neppure i lettori, che non conosceranno mai la risposta (anche se qualcuno penserà, forse, a una possibile sindrome da “stanza tutta per sé”).

Chiunque abbia letto Kafka, oppure le poche straordinarie pagine del Wakefield di Hawthorne (autori che vengono subito alla mente, senza che l’assoluta originalità del testo ne risulti intaccata), apprezzerà questo magistrale esempio di capacità narrativa, basata sulla lenta, efficacissima e a volte ironica minuzia di una scrittura che indaga sui misteri di personaggi perfettamente disegnati, e che, soprattutto, ci mostra sotto un inedito punto di vista la geografia del terrore, del sospetto e della complicità collettiva.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel gennaio del 2019