lunedì 28 gennaio 2019

Da leggere: Manuel Vilas


Manuel Vilas



Di padre in figlio, e viceversa

Fu nel 1977 che Serge Doubrovsky coniò il termine autofiction, in italiano autofinzione: “Autobiografia? No. (…). Se si vuole, autofiction, per aver affidato il linguaggio di un’avventura all’avventura del linguaggio”: così si legge nella quarta di copertina di Fils, il terzo dei romanzi in cui lo scrittore francese sciorinò ogni dettaglio della propria vita (uno di essi, Le livre brisé, era basato sulla relazione con la moglie Ilse, suicida dopo aver letto i primi capitoli). Il neologismo, che sembrava alludere a un gioco di specchi (uno scrittore che scrive la storia di uno scrittore che scrive la propria storia), versione sperimentale e postmoderna dell’autobiografia, ha avuto immediata fortuna e generato molteplici riflessioni sull’ambiguità che lo contraddistingue e che consente a critica e accademia di usarlo per indicare materiali narrativi diversi, non sempre recenti (l’autofinzione è, in effetti, meno nuova o innovativa di quanto pretende), comunque ancorati all’Io, velato o esibito, dello scrittore.

Qualsiasi significato si intenda attribuirle, non c’è dubbio che negli ultimi anni l’autofinzione sia diventata una moda, precipitata anzitutto in quel diluvio egoico, di implacabile minuzia notarile, che è La mia lotta del norvegese Karl Ove Knausgård, ma anche in opere singolari e riuscite, e infine in un certo numero di “prodotti industriali”, costruiti per il voyeurismo collettivo. Ora, pur avendo scritto un testo in cui ogni pagina, ogni riga, mettono a nudo la sua vita, Manuel Vilas, autore di In tutto c’è stata bellezza (titolo originale Ordesa, da mercoledì in libreria per Guanda, traduzione di Bruno Arpaia, pp. 416, e. 19) rifiuta categoricamente la sbrigativa etichetta autofinzionale che viene quasi spontaneo applicargli: preferisce parlare di una confessione, scritta seguendo i movimenti irregolari della memoria e rispettandone i vuoti.

Nato nel ’62, Vilas è uno dei più notevoli poeti spagnoli della sua generazione (la sua Poesía completa è raccolta in un volume di oltre 600 pagine edito da Visor), ma anche un solido prosatore, che in una trentina d’anni ha affrontato mirabilmente il romanzo, il racconto, la cronaca di viaggio, la saggistica, costruendo un’opera multiforme, eterodossa, connotata da ironia, propensione al grottesco, passioni da rockero, attenzione per la cultura pop. E, sempre, da posizioni politiche che rivendicano la coscienza di classe di una Spagna plebea, dimenticata, povera. Seguìto da una ristretta cerchia di lettori audaci quanto lui, “scrittore per scrittori” imprevedibile e misterioso, Vilas conosce oggi un successo inatteso; il suo Ordesa, pubblicato in Spagna un anno fa presso Alfaguara, è diventato un best seller con straordinaria rapidità, raggiungendo, con l’appoggio fin troppo entusiasta della critica, un vasto pubblico che quasi non lo conosceva, a conferma di quanto lo stesso Vilas ha sempre sostenuto, e cioè che il mercato non è necessariamente impermeabile a scritture “divergenti” e provocatorie.

Indagare sulla ragioni della fortuna di In tutto c’è stata bellezza ha poca importanza. Importa, invece, la singolarità di un libro complesso e inclassificabile, che, concepito come “lettera d’amore” ai propri genitori scomparsi, potrebbe correre il rischio di cadere nel luogo comune, e, al contrario, lo polverizza grazie alla forza del linguaggio, alla qualità della scrittura, alla suggestiva frammentarietà, in apparenza caotica ma ben regolata, imposta a materiali che, invece di trascinare il testo in una palude lamentosa e sentimentale, si trasformano in elegia, in rimpianto, in protesta e in riscatto, restando saldamente piantati nel territorio della letteratura.

Scritto dopo la morte dei genitori, un divorzio traumatico, la perigliosa traversata di un alcolismo impenetrabile e l’abbandono della ventennale professione di insegnante, il libro è un’autobiografia “laterale”, un tentativo di ricostruirsi e trovare conforto attraverso una storia di famiglia che è anche quella, sociale e politica, della Spagna fra gli anni ’60 e ’70; alle figure sbiadite e quasi ignote di nonne, bisnonni mai conosciuti, zii folli, si giustappongono quelle di un padre e di una madre descritti con lo stupore di chi li scopre indispensabili solo dopo averli perduti, e cerca, da un’estrema lontananza, di conoscerli e comprenderli. Il passato diventa oggetto di frustrazione davanti a segreti inconoscibili, di infinita e ansiosa curiosità, e anche di gioie, quasi lampi di luce: camminare per le strade di Barbastro, il paese natale, per mano al padre, “dandy proletario”, povero senza sembrarlo; l’auto paterna che si ferma in vista di Ordesa, il montuoso e scabro parco nazionale, dove Vilas bambino si sente avvolgere dal giallo intenso del paesaggio (un colore che per lui, un giorno, diventerà quello della sofferenza).

L’infanzia, la fantasmatica famiglia perduta, la Spagna di “classe medio-bassa” affacciata sull’illusione di un possibile benessere, gli odori, i suoni, le cose di allora (mobili, auto, abiti, canzoni, oggetti minimi, indizi e detriti di vite trascorse) vengono recuperati, come in una pesca miracolosa, per mescolarsi al presente, alla solitudine dell’unico appartamento abitato in un falansterio deserto, alle sbronze nei bar, a una Saragozza estiva e periferica, alla presenza dei figli che, come accadeva un tempo tra Vilas e i genitori, stentano a parlare con lui, ai discount dove i poveri fanno la spesa e si risparmia sugli spiccioli.

Tutto ci viene consegnato tramite un continuo alternarsi di tempi e luoghi, in una sorta di orchestrato disordine spaziale e temporale che occupa centocinquantasette brevi capitoli e sfocia in undici componimenti in versi, nello stile perturbante, denso di immagini e iterazioni, che Vilas travasa costantemente dalla poesia alla prosa (e viceversa) e che sembra, purtroppo, così difficile da restituire adeguatamente in italiano. Un corteo di morti occupa queste pagine, insieme alla consapevolezza che un giorno se ne farà parte, eppure In tutto c’è stata bellezza è un libro straordinariamente vitale, perfino consolante, che stabilisce una sorta di epica della quotidianità, si anima di sprazzi satirici e trasforma i personaggi in simboli, mentre assegna loro i nomi dei più grandi musicisti classici. Aspirando a raccontare la sua verità (non tutta, ma quasi, perché, a differenza di Knausgård e di Doubrovsky, Vilas ritiene che ci siano limiti anche a ciò che si può dire di se stessi e degli altri, e lo dimostrano certe assenze, certe figure che il racconto lascia “in bianco”), l’autore ci offre un testo ibrido in cui sembrano confluire tutti i suoi libri precedenti, pur così diversi l’uno dall’altro: di pagina in pagina, ritroviamo l’impronta di una voce che, evolvendosi e cercando strade nuove, ha conquistato una potente riconoscibilità.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel gennaio del 2019