Un nemico in casa
Pubblicato da Galaxia Gutenberg nel 2016 e
mai tradotto in italiano, El eco de los disparos:
cultura y memoria de la violencia è un saggio esemplare in cui Edurne Portela,
nata nel 1974 in un’Euskadi annichilita dal terrorismo, analizza la convivenza quotidiana
con la violenza e l’immagine che ne hanno dato letteratura e cinema: un testo che
fonde rigore accademico e intenzione narrativa, e che sembra comporre un dittico
con il suo Meglio l’assenza (Lindau, 2019),
romanzo di formazione dalle tinte autobiografiche dedicato all’infanzia e all’adolescenza
di una protagonista cresciuta nel clima avvelenato di una società attraversata a
ogni livello da un conflitto insanabile.
Come altre scrittrici basche della sua generazione
o di poco più giovani, Portela ha conquistato la forza e il distacco necessari a
elaborare il punto di vista di bambine, ragazze, donne che hanno dovuto misurarsi
con la paura e il silenzio provocati da una violenza profondamente interiorizzata e ormai vissuta come “normale”.
Non c’è da stupirsi, quindi, se la presenza dell’ETA riaffiora anche in Forme di lontananza (pagg. 276, e. 19,50),
secondo romanzo dell’autrice appena pubblicato da Lindau nella bella traduzione
di Thais Siciliano: pur diluita dal tempo e dalla distanza, “l’eco degli spari”
fa ancora parte di Alicia, la protagonista, che per allontanarsene una volta per
tutte ha scelto di proseguire gli studi negli Stati Uniti.
Nell’economia della vicenda che la vede inserirsi
nel “sogno americano” (il matrimonio, un lavoro all’università, una bella casa),
quel passato doloroso appare marginale, ma rappresenta in un certo senso il preludio
a una violenza nuova, annunciata nel prologo in cui scopriamo Alicia barricata in
una casa gelida e deserta, mentre teme di sentire i passi e il respiro di Matty,
il marito dal quale sta divorziando: un nemico che lei ha rifiutato a lungo di riconoscere
come tale, giustificandone le pretese, le sfuriate, gli insulti, il disprezzo,
i divieti, i continui tentativi di costringerla nella rete di un possesso totale.
E subito dopo è la voce di Matty, silenziosamente appostato vicino all’edificio,
a fare da tormentato controcanto alla desolazione di lei, negando perfino a sé stesso
ogni somiglianza con un padre razzista e brutale (in fondo, si ripete, non ha mai
picchiato Alicia, anche se “avrebbe avuto tutte le ragioni” per farlo) e lamentando
furiosamente che la moglie gli sia sfuggita tramite il lavoro, i libri, gli amici
e soprattutto i pensieri, sempre inaccessibili.
A partire da qui la storia si dipana con frequenti
salti temporali, cambiamenti del punto di vista e passaggi dalla prima alla terza
persona, con raffiche di brevi capitoli che ricostruiscono la storia di un matrimonio
in cui l’abuso, proprio come il terrorismo dell’ETA, acquista un terribile carattere
di normalità. Se Alicia ha accettato tutto questo e per troppo tempo se ne è assunta
la colpa, è forse per la sua antica consuetudine con la violenza, ma soprattutto
per l’ingenua adesione all’ideale – definito da Portela “pericoloso e perverso”
– dell’amore romantico, che esige dalle donne sottomissione, sacrificio di sé, adeguamento
alle aspettative.
Il romanzo ruota dunque attorno a una violenza
psicologica logorante e feroce, svolge il filo di un rapporto malato che vede Alicia
arretrare di continuo eppure mantenersi ferma su quanto è per lei irrinunciabile
(l’insegnamento, lo studio, il rifiuto della maternità), e allo stesso tempo mette
in evidenza l’insicurezza e le ferite di Matty, pronto a spacciare il proprio bisogno
di controllo per ansia di proteggere la donna amata. Il libro, però, ci offre ben
più delle inquietanti “scene da un matrimonio” viste da un’autrice che non giudica
né giustifica, ma si limita a raccontare, quasi sostenesse uno specchio rivelatore
davanti agli occhi dei suoi personaggi. Portela, che come Alicia ha studiato e insegnato
per quasi vent’anni in alcune piccole università degli Stati Uniti, disegna infatti
un crudo ritratto dell’America profonda, fatta di cittadine diffidenti e chiuse
in sé stesse che contraddicono il mito dell’accoglienza e del melting pot e dove
tutto, perfino la neve, sembra destinato a stabilire una qualche “forma di lontananza”,
proprio come nella coppia formata da Alicia e Matty. Nella storia si inserisce così
una folla di personaggi secondari: immigrati latinoamericani ai quali la protagonista
scopre di venire assimilata, subendo spesso lo stesso trattamento vessatorio riservato
agli “ispanici”, e poi gli antiabortisti che assediano le cliniche, o i professori
e gli allievi dell’università che, pur sembrando ligi al più stretto politically
correct, si muovono in un ambiente di violenza silenziosa, dove si tende a sorvolare
sugli abusi sessuali commessi dalle confraternite e sul razzismo sempre negato ma
onnipresente.
Se lo stile e il linguaggio sono semplici e
spogli, quasi cronachistici, l’architettura del romanzo è quella ambiziosa e complessa
di un affresco realistico e con evidenti coloriture politiche, e se nel suo allineare
situazioni fin troppo emblematiche la narrazione rischia a volte di apparire didascalica,
Portela riesce sempre ad andare oltre la superficie e a porre al lettore infinite
domande, utilizzando mezzi toni, escludendo il bianco e nero a favore di una scala
di grigi che mette in evidenza le contraddizioni, e dandoci infine la sensazione
che tutto quanto ci racconta acquisti un carattere di inquietante familiarità.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il
manifesto nel maggio del 2020