Un narratore senza eguali
“Mi dichiaro anticlericale militante, come
lo era mio padre; a questo paese la Chiesa ha fatto tanto danno, e continua a farlo…
Perché devo pagare di tasca mia questa banda di spudorati, di imbroglioni, i vescovi
della Chiesa?”. Da una simile invettiva, che prima o poi tornava ad affiorare nelle
rare interviste concesse da Juan Marsé - scomparso a ottantasette anni nella notte
di sabato e ultimo narratore della generazione del ‘50, nonché uno dei più grandi
del ventesimo secolo - è facile immaginare che ai suoi laicissimi funerali, questo
martedì, non ci saranno simboli religiosi. E, probabilmente, neppure bandiere catalane
o spagnole, perché Marsé non esitava, specie negli ultimi anni, a dichiarare: “Non
sono nazionalista né indipendentista, e di un’identità nazionale sballottata da
una parte all’altra non me ne importa un fico secco. Per me fa lo stesso sentirmi
spagnolo o catalano, nessuna delle due cose mi riempie di entusiasmo e tanto meno
di fervore patriottico”. Una presa di posizione netta (e non diversa da quella di
Vázquez Montalbán rispetto al pujolismo), lontana sia dalle
esasperazioni identitarie sia dal nazionalismo españolista, ma che nel 2017 gli fruttò l’epiteto di botifler, ossia
traditore, da parte di fanatici che mutilarono i suoi libri nelle biblioteche pubbliche.
Libri in spagnolo, perché, nonostante il catalano fosse la sua lingua madre, Marsé
scriveva in quella che aveva formato il suo immaginario, tra fumetti, cinema e libri:
un affronto che i catalanisti non gli hanno mai perdonato.
Mangiapreti e antinazionalista irriducibile,
dunque, nonché antifranchista di ferro (ricordava ancora le lacrime sue e del padre
Pep, mentre assistevano all’entrata delle truppe “nere” a Barcellona), Marsé non
era solo un grande scrittore, ma un uomo di immacolata coerenza, alieno dai compromessi
e capace tanto di sottrarsi agli entusiasmi di un “realismo sociale” che un tempo
avrebbe potuto trasformarlo nel proprio elefante bianco (un autentico proletario
diventato scrittore!), quanto di evitare il circo mediatico nella cui pista si esibisce
oggi la letteratura.
Sarebbe inutile, tuttavia, cercare di inchiodarlo
allo stereotipo dell’uomo tutto d’un pezzo, pugnace e di sinistra (per cinque anni
fu iscritto al partito comunista, che lasciò, dicono, per l’ostracismo decretato
nei confronti del suo amico Gil De Biedma, poeta sublime col “difetto” dell’omosessualità),
o dell’orgoglioso autodidatta pronto a rifiutare omaggi ufficiali e un seggio all’Accademia
di Spagna. Marsé era molto più complicato e sfuggente di quanto le apparenze lasciassero
supporre, e la sua intuizione che la realtà esiste solo se la sogniamo o la raccontiamo
sembra nascere insieme a lui, con una sorta di fiaba raccontata dalla madre adottiva
Alberta Marsé per rendergli meno amaro l’abbandono del padre, scapestrato chauffeur
che, morta la moglie, l’aveva dato via appena nato (Juan conosceva benissimo la
vera storia della sua adozione, però preferiva l’altra, diceva, perché sembrava
una pagina di Dickens).
Si può avere un’infanzia felice in una città
“spaventata,
schiacciata e grigia”, dove
la propria lingua non viene insegnata a scuola ma è relegata alla strada e all’ambito
domestico, e la povertà è tale che a tredici anni bisogna lavorare come operaio?
Felice, Juanito Marsé lo era; gran lettore di fumetti, giocatore scatenato di pallone
e appassionato spettatore di film americani che ritroveremo in quel “raccontare
per immagini” che è una delle caratteristiche della sua prosa. Ma era anche attento
a ciò che gli accadeva intorno, con quella straordinaria capacità di osservazione
che secondo Enrique Vila-Matas è sempre stata una delle sue qualità più evidenti,
e disegnava mentalmente una Barcellona fatta dei “suoi” quartieri (Gracia, Horta-Guinardó,
Carmel), segnata dal freddo, dalla fame e dalla sconfitta, eppure fonte di storie
che sarebbero diventate romanzi irrinunciabili.
Fu la letteratura a strapparlo a una vita che
appariva già modellata su quella dei suoi genitori e dei tanti che vivevano nei
quartieri operai e nelle baracche affollate di charnegos (cioè di non catalani)
arrivati negli anni ‘60 per costruire le fortune industriali della regione, in una
Spagna ormai meta di investimenti stranieri e di un turismo playa y sol sempre
più intrusivo. E fu l’incoraggiamento di nuovi amici (Paulina Crusat, Carlos Barral,
Gil de Biedma) che, nel 1960, lo spinse ad andare a Parigi, lasciando lo stanzone
dove lavorava con altri trenta operai, e la casa materna dove la notte scriveva
i suoi primi racconti e poi un romanzo, Encerrados con un solo juguete, dallo
sguardo più “interno”, più oggettivo e freddo di quello del realismo sociale propugnato
dai chicos bien, scrittori e intellettuali che, tornato in Spagna, Marsé aveva ripreso
a frequentare.
Di alcuni era amico, di altri un po’ meno,
ma sapeva di non appartenere alla loro cerchia e di non volerne essere fagocitato:
molti li ritrasse con ironia spietata e un umorismo incapace di sconti già nella
sua terza opera, Ultime sere con Teresa
(1966). Dopo quel romanzo, oggi un classico, Marsé ne scrisse altri dodici, alcuni
dei quali sono indiscutibili capolavori, come Si te dicen que caí (1973), Il
mistero di Shangai, 1993), Coda di lucertola,
Ronda del Guinardò (1984), e molti mirabili
racconti, raccolti dal 2002 in Cuentos completos
(benché i suoi libri migliori siano stati tradotti in italiano, molti mancano ancora
all’appello, e uno dei suoi testi chiave – per l’appunto Ultime sere con Teresa – è apparso per la prima volta presso Bompiani
solo due anni fa).
Fondato su un linguaggio ricco e prezioso,
pieno di minuzie, corretto e rivisto all’infinito, e intriso, oltre che di una disillusione costante, di un’ironia e di un senso
dell’umorismo assai rari nel panorama letterario spagnolo, il realismo di Marsé
si rivela mutevole e pieno di sorprese, teso com’è verso la continua ansia di rinnovarsi,
di tentare nuove strade, di azzardare nuove tecniche, pronte a sostenerlo nel suo
compito di fabulatore d’eccezione che non ha mai voluto rinnegare il lato “artigianale”
del mestiere (“il miglior narratore che la letteratura spagnola ci abbia dato in
parecchi decenni”, dice il critico Ignacio Echevarría), cesellatore di trame complesse
e creatore di personaggi che hanno segnato un’epoca, quali il Pijoaparte, protagonista
di Ultime sere con Teresa, o Kim, l’eroe
imprendibile e sconfitto di Il Mistero di
Shangai, romanzo pieno di suggestioni hollywoodiane e di personaggi esilaranti
che si sovrappongono alla tragedia.
Marsé ha finito per costruire un universo letterario
circoscritto – come lo era quello di Onetti, l’autore che più ha influito su di
lui – a un territorio ben preciso, una Barcellona quasi scomparsa, quella della
guerra civile, della posguerra, del franchismo
e del suo sordido grigiore, del miracolo economico, del destape, ma della quale non ha mai smesso di seguire e individuare i
mutamenti sociali, la violenza, l’ipocrisia (nessuno come lui ha saputo “denudare”
la borghesia catalana), le tracce della memoria, rivissuta alla luce dell’immaginazione.
Una città segreta che ancora oggi continua a vivere sotto la patina irreale di un
marchio di successo, invisibile perché nessuno vuole vederla, e che solo scrittori
come Marsé e quelli che, come lui, hanno scritto e continuano a scrivere il Grande
Romanzo di Barcellona (Vázquez Montalbán, Mendoza, Casavella e altri ancora) possono
portare alla luce.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel luglio del 2020