Scoprire la bellezza in ciò che è sinistro
Una prosa densa, a volte lirica e a volte brutale, di certo temeraria e costruita tenendo conto di un’oralità elaborata e musicale (una musica variabile, seduttiva anche nelle frequenti asprezze, segnata da localismi, altre lingue, vocaboli aymara, gergo urbano, luoghi comuni spietatamente sminuzzati), che usa e decostruisce generi diversi, dal gotico alla fantascienza, dal realismo alla fiaba classica sino ai miti precolombiani, innestati sulle pieghe delle quotidianità, o su scenari apertamente distopici. Di questo sono fatti i quindici racconti della boliviana Giovanna Rivero, scelti da Matteo Lefevre – coordinatore del laboratorio di traduzione impegnato nella non facile impresa di restituire i testi nella nostra lingua – per l’antologia Ricomporre amorevoli scheletri (gran vía, pp. 283, e. 16), che rappresenta il debutto italiano di un’autrice la cui indiscussa originalità si nutre anche di rimandi ad altre scritture: per esempio a quella di Maria Virginia Estenssoro, che a metà degli anni trenta scandalizzò la società letteraria di La Paz con un romanzo avanguardista dai contenuti “indicibili”, oppure di Amparo Davila, maestra messicana del racconto di recente scomparsa, che ha racchiuso incubi inesplicabili in ambienti fin troppo domestici.
Le più riconoscibili e
presenti fra le compagne di strade di Giovanna Rivero (nata nel 1972 vicino a Santa
Cruz de la Sierra, nella parte orientale e sontuosamente tropicale della Bolivia,
ha scritto quattro romanzi e vari volumi di racconti) sono tuttavia le molte scrittrici
latinoamericane che oggi stanno dando vita a una letteratura squisitamente insolita
nei contenuti e negli esiti formali, che va da un minimalismo lavoratissimo a un
tumulto quasi esplosivo, passando per la satira, la parodia, l’esercizio della crudeltà
e uno sguardo attento sulla vita, i pensieri, la voce delle donne.
Pur segnalando le molte
differenze di stile e di approccio a temi spesso simili, vanno almeno sottolineate
certe affinità con Liliana Colanzi (anche lei santacruzana) che come Rivero si è
avventurata nel territorio di una fantascienza sui generis, e, soprattutto, con
l’argentina Mariana Enríquez, la cui obra maestra, l’imponente Nuestra
parte de noche (ora in traduzione presso Marsilio), sancisce l’esistenza di
un gotico latinoamericano e contemporaneo di rara potenza. Anche quelle di Rivero,
perfino quando si nascondono sotto il realismo e la memoria, sono fiabe nere in
cui bisogna “scoprire la bellezza in ciò che è sinistro, il destino nella tragedia”
– come dice la protagonista di L’Uomo della
Gamba, racconto che apre l’antologia – e si legano alle contraddizioni del presente,
alla devastazioni compiute dal neoliberismo, ai traumi dell’emigrazione (residente
da anni negli Stati Uniti, dove insegna all’università, l’autrice li ha vissuti
in prima persona), alla costante presenza dell’infanzia, della famiglia e della
maternità come fulcro fatale e ferale, alla follia, ai rifiuti e alle rovine di
un mondo fluido e permeabile, trascinato da correnti instabili.
Ambientati in un continente
americano concepito, da sud a nord, come un colossale corpo malato che divora gli
altri e sé stesso, “un intestino infinito e vorace”, i racconti espongono una collezione
di pezzi anatomici repulsiva e insieme stranamente sensuale, dalla quale è impossibile
distogliere lo sguardo: i seni di una vecchia gonfiati dalla disperazione, in Margarita, dove un interno spocchiosamente
borghese conserva la memoria dello stupro e dell’incesto; gli occhi impazziti di
un giovane recluso in manicomio, in I due
nomi di Saulo; il canino luminoso e affilato di una bambina in Yucu (splendida storia tropicale di vampiri);
la gamba putrefatta di un fiero mendicante e un ventre di donna torturato dalle
iniezioni di ormoni della fecondità, in L’Uomo
della Gamba; le unghie strappate dai soldatini torturatori durante la dittatura
di Banzer, in Yerka. E le ossa, naturalmente:
ossa nascoste nei corpi vivi di cui sono il sostegno o nella terra che le ha accolte.
Accanto alla qualità ammaliatrice
e ipnotica della scrittura e alla considerevole abilità con cui l’autrice ha ricomposto
gli “amorevoli scheletri” delle strutture narrative, i racconti svelano, uno dopo
l’altro, la capacità di maneggiare con estrema precisione metafore e allegorie,
evocando trame volutamente piene di allusioni, di lacune che dovranno essere colmate
dall’altrui immaginazione, di finali aperti a letture diverse, strati sottili da
sfogliare con delicatezza, in cerca di continue sorprese. Al di là della ricchezza
interpretativa favorita dall’uso calcolato e inquietante dell’omissione, il frequente
ricorso al gotico, al fantastico, al soprannaturale o semplicemente al “perturbante”
è, per Rivero, quasi un pretesto, un modo per collegare impercettibilmente la fabula
a concrete realtà individuali e collettive, mescolando con naturalezza le tracce
di un passato ancora vivo a un presente scosso da implosioni continue, per poi lanciarsi
nella rappresentazione del futuro in due racconti collegati, Passò come uno spirito e Ritorno, che ipotizzano l’esistenza di un
impero andino alla conquista dello spazio e di un Evo dal corpo putrescente ma immortale,
i cui seguaci vogliono colonizzare Marte.
Un’allegoria politica,
certo, ma anche un esperimento che rimanda ad alcuni racconti di Colanzi, al fantasmagorico
romanzo De cuando en cuando Saturnina di Alison Spedding, che narra le avventure
nella galassia di un’india aymara, o all’antologia fantascientifica messicana Una realidad más amplia,
compilata da Libia Brenda, e soprattutto all’afrofuturismo e alla “decolonizzazione”
della fantascienza statunitense effettuata da Octavia Butler e Samuel R. Delany,
ripresa da Rivero in chiave spiccatamente andina.
Proprio la presenza, nei
racconti di Ricomporre amorevoli scheletri,
di riferimenti alle culture dei popoli originari, alle loro mitologie, alla labilità
del confine che in esse separa la vita dalla morte, ci ricorda che la più recente
letteratura latinoamericana (e in particolare quella scritta da donne) si va allontanando
dal rifiuto di tutto quanto veniva inteso come locale, folklorico, indigenista,
e che poteva apparire "esotico" agli occhi del lettore di altri paesi;
un rifiuto espresso già negli anni ‘90 da una corrente effimera come McOndo e motivato
dalla massiccia dose di realismo magico richiesta dall’editoria internazionale.
Senza cedere di un millimetro all’esotismo o al costumbrismo più convenzionale,
scrittrici come Rivero hanno imboccato una strada nuova e vanno effettuando un recupero
anche linguistico di un’identità antica e tenace, ma contaminata in profondità da
tutti gli aspetti della globalizzazione, dalla tecnologia, dai media, da un immaginario
definitivamente meticcio: un’ibridazione inevitabile, forse conflittuale ma fecondissima,
espressione ultima dell’impossibilità di mettere a tacere tutto ciò che di “altro”
c’è in noi e intorno a noi, e che vuole essere riconosciuto.
Questo articolo è apparso
sul quotidiano Il manifesto nel luglio del 2020.