Un oscuro ritratto
Tra le grandi scrittrici argentine dimenticate
o sottovalutate, oggi finalmente al centro di studi critici, recuperi editoriali
e traduzioni, Norah Lange (nata a Buenos Aires nel 1905) non è del tutto ignota
ai lettori italiani, e non solo grazie a una bella versione nella nostra lingua
del suo libro più noto, Cuaderno de infancia (Infanzia, Pensa Multimedia 2015), ma anche in quanto oggetto del desiderio
di J.L. Borges (un’inclinazione amorosa smentita, però, da Maria Esther de Miguel,
biografa della scrittrice ) e moglie di un poeta della statura di Oliverio Girondo,
suoi compagni nella breve avventura avanguardista dell’ultraismo.
Unica presenza femminile in un gruppo deciso
a battersi per l’innovazione nell’arte e nella letteratura, ma convenzionalmente
fedele agli stereotipi di genere, Lange venne “angelicata” d’autorità nel prologo
di Borges al suo primo volume di versi – dove è descritta come una spirituale “fanciulla
di quindici anni”, anche se all’epoca ne aveva diciannove –, negli scritti di Leopoldo
Marechal (“una femminilità delicata pervade il suo libro come un profumo”), nonché
nella poesia del sulfureo marito, che la chiama angelnorahcustodio. Dall’anagramma
del cognome fino all’aspetto etereo, che ne denunciava l’ascendenza norvegese, tutto
sembrava favorire l’infantilizzazione cui la critica maschile era solita sottoporre
le autrici di estrazione “rispettabile”: un prezzo che Lange dovette pagare per
muovere i primi passi in campo letterario, pubblicando tre raccolte che, scrive
Beatriz Sarlo, contenevano soltanto “la poesia accettabile di una ragazza di buona
famiglia”.
Dalla crisalide semicelestiale, però, emergerà
a poco a poco una sorprendente creatura che, dopo aver tentato negli anni Trenta
l’ingresso nella prosa con due romanzi poco riusciti, ma provvisti di una carica
erotica che nulla aveva di angelico, finirà per lanciarsi in una nuova e più audace
sperimentazione, utilizzando con raffinata sottigliezza i codici del fantastico
e del gotico ed evitandone allo stesso tempo le convenzioni più abusate, per trarre
dal quotidiano, dall’ovvio, dall’anodino, note via via più inquietanti. Quanto inquietanti,
lo si può scoprire leggendo Figure nel salotto,
apparso in lingua originale nel 1950, e ora tradotto per la prima volta e con la
consueta perizia da Ilide Carmignani (Adelphi, pp. 150, e. 16), che sembra quasi
comporre una trilogia con i due romanzi successivi, il magistrale Los dos retratos
e El cuarto de vidrio, pubblicato postumo in seno alle Obras completas
nel 2006, trentaquattro anni dopo la morte dell’autrice.
Figure nel salotto è un testo enigmatico e cupo, claustrofobico
e di un’ambiguità destabilizzante, in cui quasi nulla accade e che tuttavia turba
e avvince, inducendo il lettore ad avventurarsi in interpretazioni pressoché inesauribili,
il cui arco include la giovanile esaltazione libresca, l’ansia adolescenziale di
sottrarsi alle regole familiari, le visioni generate da una possibile follia, la
magia degli specchi, l’illusione del doppio, i riferimenti mitici e letterari (parche
e streghe, automi hoffmaniani, storie di spettri e di case infestate, ritratti che
parlano, piangono, evadono dalla cornice, introducendo ad altri mondi).
Il tutto rimanda a una lettura attenta di Infanzia, memoir del 1937 giustamente celebrato,
pieno di ombre e dominato dallo sguardo fisso e divorante di una bambina che osserva,
spia, controlla, tenta di impadronirsi dei volti altrui fino a “inghiottirli”, quasi
ad annunciare l’estetica del mistero su cui si fonda la scrittura della maturità.
Ispirato, come rivela l’autrice, dal ritratto
che delle tre ragazze Brontë eseguì il fratello Branwell, il misuratissimo ed esemplarmente
breve Figure nel salotto è prima di tutto
un romanzo dello sguardo, il “racconto” di tre volti (la protagonista ne parla come
se li dipingesse, e come ritratti, più che come persone, li percepisce sino alla
fine), disposti sera dopo sera con identica simmetria in una medesima stanza, su
corpi vestiti a lutto, dai gesti rari e quasi meccanici. Le tre donne, che vivono
sole, compongono un quadro perpetuamente esposto allo sguardo altrui, non per esibizionismo,
ma perché convinte che nessuno lo guardi (o perché sanno, forse, che nessuno può
vederlo?). Qualcuno, tuttavia, le ha scoperte alla luce di un lampo, pallide e immobili
nel rettangolo della finestra che fa da cornice: qualcuno che da allora si dedicherà
a una sorveglianza continua e maniacale, deciso a scoprire chi siano, cosa facciano,
a cosa pensino: innocue zitelle, avventuriere, assassine, potenziali suicide, amanti
abbandonate?
Le loro giornate sempre uguali, la ragazza
ne è certa, nascondono un segreto, una biografia inaspettata che la sua immaginazione
va ricreando a proprio capriccio e all’infinito, anche quando riesce a intrufolarsi
nella casa così a lungo osservata e a stringere con le sorelle un rapporto infranto,
dopo una sua breve assenza, dall’improvvisa comparsa di un cartello che pone la
casa in affitto. Le tre sono svanite, e a chi le ha studiate con pazienza da entomologa
e occhio da narratrice (spiarle ha significato raccontarle a sé stessa, muoverle
come fantocci in una gigantesca casa di bambole, inventarle e inventarsi, aggiungere
la parti mancanti, insomma scriverne) non rimane che l’inutile tentativo di perpetuare
una specularità ormai infranta: perché anche l’osservatrice è sempre stata, a propria
volta, una “figura nel salotto”.
Questo articolo è apparso
sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2020