Quasi morto e resuscitato
Quando, dopo aver pubblicato quattro romanzi,
ha deciso di scrivere di sé e della sua vita, José Luis Cancho avrebbe potuto imboccare
strade consuete: la classica autobiografia, la diaristica, il memoir o la sin troppo
praticata autofiction, della quale il prolisso narcisismo alla Knausgård rappresenta
la versione più estrema. Con I rifugi della
memoria (Arkadia, pp. 76, e. 13, ben tradotto da Marino Magliani) lo scrittore
spagnolo ha scelto tuttavia un altro percorso, nota Andrés Barba nella prefazione,
accostando il libro all’Autoportrait di Edouard Levé e al Mi ricordo di Joe Brainard (Lindau, 2014).
Come loro, infatti, anche Cancho azzarda un modo eterodosso di raccontarsi e, anche
se a differenza di Levé e Brainard (fotografo il primo e pittore il secondo) non
si è mai dedicato alle arti visive, la sua scrittura è così evocativa e ricca di
immagini da far assomigliare I rifugi della
memoria a un album di schizzi o di istantanee. La prima in cui ci imbattiamo
è quella di un corpo che, il 18 gennaio del 1974, precipita dal terzo piano del
commissariato di Valladolid: il corpo di José Luis Cancho, studente di ventidue
anni, arrestato per l’ennesima volta in quanto militante del Partido del Trabajo
de España e membro della Joven Guardia Roja.
Torturato per un giorno e una notte da quattro
membri della Brigada Político-Social – la polizia
segreta franchista –, Cancho venne creduto morto e gettato dalla finestra per simulare
un suicidio, com’era accaduto nel gennaio del 1969 a un altro studente, Enrique
Ruano, giusto un mese dopo la defenestrazione di Giuseppe Pinelli (una terribile
coincidenza che esprime il clima di un’epoca, un sinistro trait d’union tra una
dittatura morente e una democrazia in preda alle convulsioni). A differenza
di Ruano e Pinelli, però, Cancho sopravvisse, e, dopo una settimana di coma, sei
mesi di immobilità e due anni di galera durante i quali imparò di nuovo a camminare,
tornò libero grazie all’amnistia elargita dalla Transizione.
Tratteggiato con frasi prodigiosamente concise
che, secondo Barba, ricordano uno di quei misteriosi personaggi di Bernhard capaci
di “comprimere in tre parole le osservazioni di tre anni senza spettinarsi”, il
frammentato autoritratto di Cancho non può cominciare che da qui, dalla scena capitale
della sua quasi-morte, descritta con spassionata oggettività e inevitabilmente legata
al carcere e alla militanza, che nel corso della narrazione diventano una sorta
di leit-motiv quasi inavvertibile: la quiete necessaria alla stesura di un romanzo
ricorda quella dei mesi trascorsi in isolamento, le trame da mettere sulla carta
hanno un precedente nelle storie inventate per rispondere agli interrogatori, le
identità assunte da clandestino fanno pensare al bisogno di crearsi ciclicamente
vite nuove che segnerà il futuro dell’autore…
Esausto, l’ex prigioniero finirà per abbandonare
una militanza così totalizzante (ma senza rinnegarla o ridicolizzarla come farà
il suo ex compagno Andrés Trapiello, oggi famoso scrittore vagamente revisionista),
diventando un maestro di scuola senza vocazione e poi un nomade perso nelle città
e nei deserti dell’America latina, per tornare infine a casa e approdare alla letteratura.
E solo da scrittore ormai consacrato avrà voglia di ripercorrere le orme confuse
che si è lasciato alle spalle, prima che gli scivolino via dalla memoria. Così,
scrivendo “senza filtri, senza artifici, senza travestimenti, senza retorica”, in
una prosa talmente essenziale da avvicinarsi alla poesia, José Luis Cancho ha condensato
il racconto di una vita straordinariamente intensa in meno di ottanta pagine, concludendo
ogni capitolo con una costellazione di fulminei episodi e incontri, gusti personali,
stati d’animo, tratti del carattere, rapidissime confessioni, quasi delle note a
piè di pagina sostanzialmente slegate dal testo, secondo una scelta formale spiazzante
e suggestiva.
Nell’epilogo, lo scrittore esprime il dubbio
di non essersi davvero ricongiunto, nonostante tutto, con il proprio “io reale”,
ombra che cerca ostinatamente di trasformarsi in personaggio da romanzo, interrogandoci
una volta di più sul rapporto tra finzione e realtà. Quale che sia la risposta,
accade raramente di imbattersi in un testo capace di ritrarre con altrettanta acutezza
e originalità non solo chi lo ha scritto, ma una generazione di militanti e, insieme,
un momento storico (gli ultimi colpi di coda del franchismo, una transizione densa
di compromessi, le speranze, le illusioni e le delusioni) narrato attraverso la
“morte”, le rinascite, la lunga ricerca e la solitudine di qualcuno che, come dice
Tomas Tranströmer nell’epigrafe scelta da Cancho,
si porta dentro i suoi volti precedenti “come un albero/contiene i suoi anelli”.
Questo articolo è apparso
sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2020