Le voci delle nuvole e dei funghi
Gli scrittori di lingua catalana hanno rappresentato
a lungo una sorta di “segreto” chiuso nei confini di una lingua parlata da meno
di dieci milioni di persone, soggetta a significative varianti locali e, durante
il franchismo, espulsa dalle scuole e relegata all’oralità quotidiana. Da diversi
anni, però, con il formidabile sostegno dell’Institut Ramon Llull e dopo aver approfittato
della “vetrina” offertale nel 2007 dalla Fiera di Francoforte, la letteratura catalana
va sciorinando i suoi tesori in luoghi che praticamente ne ignoravano l’esistenza.
Quasi a recuperare il tempo perduto, accanto a classici come Mercè Rodoreda e ad
autori contemporanei già affermati, appaiono oggi nelle nostre librerie opere nuove
e nuovissime, come quelle di Irene Solà, nata nel 1990, artista visuale, poetessa
di talento – Pequod ha appena pubblicato Bestia
(pp. 73, e. 12), una raccolta di versi in cui si parla di genere, desiderio e identità
- e romanziera di immediato e meritato successo.
Dopo l’esordio in prosa nel 2018 con Els
dics, Solà – convinta che scrivere in catalano sia, ora più che mai, anche un
atto politico – pare aver raggiunto la piena maturità con Io canto e la montagna balla (ora tradotto da Stefania Maria Ciminelli
per Blackie Edizioni, pp. 208, e. 18,90), recente vincitore del Premio dell’Unione
Europea per la Letteratura, che va ad aggiungersi ai riconoscimenti già collezionati
in patria: un romanzo lontano dalle mode correnti, che sin dalle prime righe rivela
una qualità stilistica fuori dal comune.
Nata e cresciuta a Malla, un villaggio ai piedi
dei Pirenei, Solà ha studiato e lavorato all’estero, dall’Islanda all’Inghilterra,
ma il romanzo ha salde radici nella sua terra d’origine, oltre che nella produzione
artistica in cui l’autrice combina fotografia, scrittura, disegno, echi digitali,
video che indagano sul rapporto tra realtà e immaginazione e sui confini della comunicazione.
Prima di scrivere, si è concentrata su una zona rurale dei Pirenei (Camprodon e
Prats de Mollò, alla frontiera con la Francia), esplorando i luoghi, facendo mille
domande e indagando su fiabe, leggende e usanze ancora vive, per poi elaborare e
accostare storie di esistenze unite dalle tradizioni, dall’isolamento, da presenze
ultraterrene accettate con semplicità, dal confronto con una natura durissima, indifferente
ma a tratti materna.
Le nuvole, le piante, gli animali, le montagne,
le immortali “donne d’acqua”, le guaritrici, i fantasmi, la gente, tutti hanno qualcosa
da raccontare e lo fanno in prima persona, con un uso frequente di onomatopee: nella
voce delle nubi destinate a trafiggere con un fulmine il contadino-poeta Domènec,
si percepisce il peso dell’acqua che gonfia il ventre dei cumuli grigi; il sussurro
del capriolo in fuga è fatto di pause e fruscii; il giubilo delle “trombette dei
morti”, funghi-femmina che si chiamano l’un l’altro “sorella”, afferma la certezza
di una eterna rinascita e annuncia il piacere di chi se li ritroverà nel piatto.
E ciascuna delle voci che appartengono a uomini e donne di ogni età, vivi o morti,
ha una sonorità, un carattere e un’intonazione tutti suoi, che la definiscono all’istante.
È dalla morte di Domènec, narrata in una brevissima
scena iniziale (“L’uomo crollò sull’erba, il prato porse una guancia contro la
sua, e i nostri rivoli d’acqua, concitati e contenti, gli si infilarono nelle maniche
della camicia, sotto la cintura, nelle mutande e nei calzini, in cerca di pelle
ancora asciutta. Morì.”) che si dipana il romanzo, con capitoli simili a tasselli
di un puzzle pronto a ricomporsi da solo e pieno di figure situate in punti diversi
del tempo e della Storia, ma sempre collegate, sempre vicine. Una morte apre la
strada a un’altra (anche il figlio di Domènec muore per un assurdo incidente),
una vita chiama vite nuove, il passato non vuole andarsene (spettri quasi tangibili,
“streghe” tenacemente presenti benché impiccate secoli prima da uomini ottusi, una
scia di ruggine e scarpe rotte lasciata da chi percorse quei sentieri per rifugiarsi
in Francia, alla fine della Guerra Civile), ma in qualche modo feconda il presente.
Frammentario nella struttura, il testo è unificato
dal ritmo di una scrittura musicale e poetica, dai brillanti incastri fra le varie
vicende e dai mille dettagli e immagini che si rincorrono in pagine singolarmente
“visive”, per disegnare un ritratto della Catalogna rurale passata e presente, autentica
e al tempo stesso reinventata e fiabesca: un minuzioso diorama spazio-temporale
che coniuga la modernità con un’identità antica e con tutto ciò che “non si
vede”. Evitando le trappole di un realismo magico in versione catalana, dell’idillio
campestre o del fantastico più trito, Solà sembra rimandarci a una versione aggiornata
e caleidoscopica del “ruralismo” caro ai modernisti e in particolare a Victor Català
(alias Caterina Albert), l’autrice di Solitudine
(Elliot, 2015), un capolavoro datato 1905 che in Italia è passato quasi sotto silenzio.
Anche se l’estiu mascle – ossia lo stile
aspro e rude – di Solitudine e il suo
cupo senso della tragedia sono molto diversi dallo slancio gioioso di Io canto e la montagna balla, entrambe le
autrici condividono l’interesse per i miti autoctoni, per un’identità e una lingua
“originarie”, per la mutevole bellezza del paesaggio. E sono attentissime alla condizione
femminile: se Català denuncia la violenza subita dalla sua protagonista e ne rivendica
il diritto a una libertà conquistata a caro prezzo, Irene Solà lascia che nel suo
libro le donne impongano le loro storie, raccontandosi e rifiutando di “essere raccontate”.
Mia che vive col suo cane e il fantasma del fratello, Cristina e la sua compagna
Alicia, Carmeta con un braccio solo, Blanca, la encantada incinta di un uomo
venuto da lontano, Siò consumata dal lavoro, Neus che “vede” e scaccia le presenze
maligne… voci allegre, ironiche, disperate, sagge, beffarde, che parlano in proprio
nome e non negano il dolore, ma sanno che può diventare “memoria, sapere, vita”.
Questo articolo è apparso
sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2020