La letteratura dei figli
Come
in Argentina, anche in Cile nell’ultimo decennio è apparsa una considerevole produzione
letteraria sui cosiddetti “figli della dittatura”, ovvero, dice Alejandra Costamagna,
“una narrativa prodotta da scrittori che non hanno vissuto quelle circostanze sulla
propria pelle, ma sono nati in quell’epoca e ne hanno sperimentato gli effetti attraverso
la vita degli adulti intorno a loro”. Coloro che un tempo i genitori cercavano di
proteggere tacendo, ora tentano di riempire i vuoti lasciati da quei silenzi, adottano
un approccio intimo e soggettivo e lasciano capire di non sentirsi a proprio agio
con il linguaggio e le narrazioni ereditati: più di ogni altra cosa, infatti, aspirano
a esercitare “in proprio” una memoria frammentaria e incerta, piena di lacune, che
però è parte ineludibile delle loro biografie e in quanto tale viene interrogata.
La sottrazione, romanzo d’esordio di Alia Trabucco Zerán,
pubblicato in lingua originale nel 2015 e ora in italiano da Sur nell’eccellente
traduzione di Gina Maneri (pp. 186, e. 16,50), si inserisce a pieno titolo in questo
filone, ma con significative differenze che ne sottolineano l’originalità. Nata
a Santiago nel 1983, cinque anni prima del plebiscito in cui Pinochet “arrivò secondo
pur essendo l’unico candidato”, l’autrice scarta infatti l’autofiction o l’autobiografia
ed evade dal realismo che con poche eccezioni (tra esse, la Nona Fernández di Fuenzalida o Mapocho)
accomuna la “letteratura dei figli”. Il romanzo sembra inoltre annunciare le sue
molte sfaccettature sin dal titolo, che indica sia l’operazione aritmetica – maniacale attività di uno dei protagonisti – sia i
tentativi dei personaggi di sottrarsi al danno e alla pesante eredità di un trauma
mai del tutto elaborato, e allude anche a tutto ciò che è stato sottratto: affetti,
vite, parole, diritti, corpi.
Trabucco
ci propone con grande abilità un contrasto di voci: quella delirante di Felipe,
incanalata in monologhi interiori vertiginosi e furenti, quasi faulkneriani, senza
punteggiatura e racchiusi in capitoli dalla numerazione decrescente che simula un
conto alla rovescia, e quella di Iquela, più “ragionevole”, il cui spazio è contrassegnato
da due segni di parentesi che non contengono nulla. Per Felipe, immerso nelle sue
visioni, Santiago è una morgue a cielo aperto (impossibile non pensare a Néstor
Perlongher e al suo terribile poemetto Cadaveres, su un’Argentina rigurgitante
di corpi morti e abbandonati) dove defunti spettrali e derelitti appaiono ovunque,
alter ego dei desaparecidos, oppure, dice Costamagna, “il loro prolungamento in
un paese smemorato, di fragile e dubbia democrazia”. Il ragazzo li registra sul
suo taccuino, ma senza sommarli: sottrae invece i cadaveri dalla cifra degli scomparsi,
tentando di arrivare a zero, per collocare virtualmente ogni corpo insepolto nella
tomba che gli spetta. Figlio di un “morto presunto”, una delle tante vittime della
dittatura, Felipe si trasforma così in una sorta di Antigone folle, mossa non dalla
pietas ma dall’ossessione e legata da nodi inestricabili a un’infanzia piena di
segreti, oscillante tra autolesionismo, crudeltà, giochi inquietanti che inseguono
la morte.
A fargli da contrappunto è il racconto di
Iquela, traduttrice sempre alla ricerca del termine esatto, figlia di ex militanti
che all’inizio ricorda il plebiscito del 1988 e la festa dei “grandi”, mentre lei
e la coetanea Paloma, appena tornata dall’esilio in Germania, azzardavano un ingenuo
tentativo di ribellione, fumando di nascosto. Orfana di padre, Iquela non sa troncare
il legame soffocante con la madre, che da anni rievoca il passato e glielo offre
come un dono, spingendo la figlia a trovare scampo nell’ironia, o a estraniarsi
contando le cose che la circondano e componendole in lunghi elenchi.
Il romanzo si regge sul rapporto speculare
tra i due protagonisti, cresciuti insieme, legati da un debito di sangue – un cedimento
del padre di lei, durante un interrogatorio, ha provocato la morte di quello del
ragazzo – e, durante l’infanzia vissuta in comune, dai passatempi inventati da Felipe:
scomparire, “impiccare” le dita mutate in pupazzetti, collezionare croste, procurarsi
ferite. Tra i due, però si inserisce la sensuale ed esotica Paloma, che deve riportare
in Cile il corpo di sua madre, morta in Europa e finita a Mendoza, in Argentina,
perché su Santiago piovono ceneri che impediscono agli aerei di atterrare. E Iquela
e Felipe non ci mettono molto a decidere di accompagnarla in un viaggio macabro,
assurdo ed eroico: varcheranno le Ande su un vecchio carro funebre preso in affitto,
per poter “rimpatriare” la bara.
La vicenda si trasforma così in un percorso
iniziatico il cui premio consiste nelle spoglie di un morto, mentre l’eroe, scisso
in tre, cerca non di chiudere una storia, ma di inaugurarne una propria. Un cammino
tenebroso e allucinato, il loro, che si conclude con l’immagine stupefacente di
un hangar dove si ammucchiano le bare dimenticate di cileni mai tornati a casa.
Mentre Felipe fugge verso una follia dilatata da chissà quale droga, che gli offre
una visione fiammeggiante, il terzetto si scioglie, non senza porre al lettore più
di una domanda: come innestare i propri ricordi su quelli altrui? Come partecipare
legittimamente, da un margine nebuloso, a una memoria collettiva composta da fatti,
ma anche da costruzioni soggettive? E come servirsi di questa “nuova” memoria per
scardinare il presente, in cui vive intatta la violenza di ieri?
Trabucco Zerán caratterizza magnificamente
i due narratori (Paloma, figlia dell’esilio, non ha una voce propria) attraverso
l’uso del linguaggio, che nel romanzo assume un ruolo da co-protagonista. Come l’autrice,
Iquela è ossessionata dalle parole, e, attenta agli errori di Paloma, fa per lei
e per se stessa il doppio sforzo di tradurre dal cileno allo spagnolo e dallo spagnolo
di un’altra epoca a quello di oggi, quasi a far presente la necessità di inventarsi
un nuovo dizionario, ora che il lessico dei genitori (per i quali una cellula non
aveva mitocondri e nuclei, e anche spezzarsi o parlare significavano qualcos’altro)
è stato svuotato e disinnescato dal presente. Ogni cosa nel romanzo va decifrata
e interpretata, tutto è simbolo o metafora: le ceneri, che arrivano da un vulcano
in eruzione (o forse dal delirio dei figli, o dalla vendetta dei morti senza tomba),
potrebbero rappresentare l’ombra che la dittatura continua ad allungare sul Cile
di oggi, incapace di affrontare il disagio e lo scontento che lo attraversano e
ancora tenacemente “figlio” delle riforme neoliberiste e di una Costituzione dai
numerosi risvolti autoritari, che proprio il 25 di ottobre di quest’anno un nuovo
plebiscito dovrebbe sospingere verso una profonda revisione. E il viaggio dei tre
non sembra forse invertire l’immagine dei bambini silenziosi sui sedili posteriori
dell’auto paterna, presente in tanti “racconti cileni di filiazione”, come ci ricorda
Lorena Amaro? Qui, invece, la parte posteriore è riservata ai genitori, al loro
corpo morto, e al posto di guida ci sono i figli, diretti verso un futuro del quale,
tra cenere e fuoco, non si intravede ancora l’inizio.
Questo articolo è apparso sul quotidiano
Il manifesto nell’ottobre del 2020