Brenda Lozano |
Feliciana e i suoi “santi bambini”
Zoé
è una giornalista di Città del Messico, cresciuta in una famiglia borghese: un
padre morto troppo presto che l’ha incoraggiata a seguire le proprie passioni,
una madre anticonformista dalle intuizioni inspiegabili quanto provvidenziali,
una sorella turbolenta e creativa, perenne fonte di guai. Feliciana è una
vecchia india nata e vissuta nella sierra, che ha sempre lavorato duramente e a
quattordici anni ha sposato uno sconosciuto scelto dalla famiglia, mettendo al
mondo tre figli e sopportando botte e miseria, finché ha scoperto di possedere una
capacità considerata fino ad allora soltanto maschile, quella di guarire le anime
e i corpi.
È
a partire dall’incontro tra queste donne che la scrittrice messicana Brenda
Lozano costruisce il suo terzo romanzo (Streghe, Alter ego, pp. 252, e. 17),
fin troppo denso di temi a volte soltanto sfiorati, ma interessante per più di
un motivo. Da una parte, infatti, il testo gioca abilmente sull’alternarsi di
due voci ben caratterizzate (va segnalato l’eccellente lavoro della traduttrice
Giulia Zavagna, che ne ha restituito ogni sfumatura) per raccontare facce
diverse della condizione femminile in Messico, contrastanti eppure meno lontane
di quanto appaiano e sempre accomunate da un’endemica violenza contro le donne;
dall’altra segnala il riaffacciarsi, nell’attuale letteratura latinoamericana, di
elementi delle culture autoctone trattati in modo nuovo e spesso audace, senza
nostalgie del realismo magico o residui di colore locale.
Le
protagoniste, circondate da una schiera di comprimari efficacemente disegnati,
hanno in comune il peso che assegnano al linguaggio: Feliciana lo indica
con una reverente maiuscola e lo identifica con il potere risanatore del Libro
immateriale che lei, analfabeta, “legge” dopo aver ingerito i funghi sacri; per
Zoé rappresenta lo strumento per tradurre il mondo in parole e raccontarlo
attraverso la scrittura. Ed è per questo che tutte e due sono, in un certo
senso, “streghe” capaci di evocare la realtà, di decifrarla e di contribuire a cambiarla.
Feliciana
narra di sé e del suo mondo, dove le donne sono poco più che cose, con il ritmo
incantatorio di un’oralità da cui emerge via via la figura di Paloma, nota un
tempo come Gaspar,
amato cugino che l’ha aiutata a superare i pregiudizi maschili e le ha
insegnato la curandería, da
lui esercitata prima di diventare muxe,
cioè parte di una comunità di uomini in vesti e ruoli femminili che non si
riconoscono nelle categorie occidentali di travestito, transessuale o gay, ma rivendicano
un’identità altra, definita da una cultura antica e provvista di un ruolo
sociale riconosciuto. Benché amata e rispettata, la scintillante Paloma è stata
uccisa da uno dei tanti uomini che ha frequentato (il muxe si autodefinisce come poligamo), ed è del suo assassinio che
Zoé intendeva occuparsi prima di venire avviluppata dal racconto di Feliciana,
che la spinge ad analizzare specularmente il proprio passato e il rapporto con
la madre e la sorella, aiutandola a conoscere sé stessa attraverso l’esperienza,
il sostegno e l’aiuto di altre donne.
L’ultimo
pezzo del polifonico puzzle composto dall’autrice, infine, è una presenza che si
intravede dietro quella di Feliciana: María Sabina García, l’autentica sciamana mazateca
cui Lozano si è ampiamente ispirata, resa celebre da Robert Gordon Wasson (vicepresidente
della J.P. Morgan e appassionato di quella che lui stesso chiamò etnomicologia),
ovvero il “banchiere americano” che nel romanzo raggiunge la curandera per partecipare ai suoi
rituali con i funghi teonanacatl,
attirando su di lei l’attenzione di studiosi, documentaristi, star del rock, e procurandole
una gloria vissuta con serena indifferenza.
Nella realtà, però,
gli articoli, i libri e le registrazioni di Wasson diedero il via a una valanga
che travolse María Sabina e la trasformò in una sorta di
attrazione turistica per europei e nordamericani in cerca di svaghi allucinogeni
e pseudomistici, e lei, che aveva chiesto di non rivelare il suo nome e quello
del luogo in cui viveva, ne fu profondamente amareggiata e dovette assistere al
saccheggio dei funghi che chiamava “santi bambini”. Morì nel 1985, povera com’era
vissuta, lamentando il tradimento e il caos che ne era derivato, e chissà che
Lozano, a più di trent’anni dalla sua scomparsa, non abbia voluto vendicarla facendone
una figura potente e vittoriosa, e assicurandole così un simbolico trionfo.
Questo articolo è apparso sul
quotidiano Il manifesto nel luglio del 2021