Sara Mesa |
Ossessioni amorose nella “Spagna vuota”
Nata a Madrid nel 1946 e cresciuta
a Siviglia, Sara Mesa è una delle più interessanti e apprezzate autrici
spagnole di oggi, da collocarsi tra le “scrittrici eccentriche” – così le
definisce il quotidiano El País – che vivono e lavorano lontano dai grandi poli culturali
ed editoriali di Madrid e Barcellona, rivendicando la voce e la differenza di
spazi considerati a torto periferici. Non a caso Un
amore (La Nuova Frontiera, traduzione di Elisa Tramontin, pp. 192, e.16,50),
sesto romanzo di Mesa che arriva in Italia accompagnato dagli elogi incondizionati della
critica spagnola, si svolge nella fittizia e sperduta località di La Escapa: poche case, un negozietto, rari abitanti,
un segmento minimo della España vacía spopolata
dall’abbandono e dall’emigrazione (Sergio Del Molino le ha dedicato un saggio, La
Spagna vuota, pubblicato da Sellerio nel 2019), dove la giovane protagonista
Nat si trasferisce per affrontare in solitudine la sua prima traduzione
letteraria.
Sin dalle prime righe appare chiaro
che Mesa non intende alimentare mitologie neorurali: le interessa piuttosto l’interazione
tra i membri di una società chiusa, così minuscola da non offrire spazio all’anonimato,
e la nuova arrivata che tenta di lasciarsi alle spalle un’inguaribile
scontentezza, fallimenti e ferite. Di Nat e del suo passato non sappiamo molto (scopriremo
quasi di sfuggita che ha subito abusi nell’infanzia e lasciato il lavoro dopo
un piccolo furto), ma non tardiamo a renderci conto della resistenza che il presente
le oppone: un padrone di casa il cui disprezzo per una “femmina” di città (di
per sé un’anomalia, in un luogo “dove non si vedono mai donne sole”) sfiora la
violenza, e una comunità all’inizio amichevole ma subito pronta al controllo,
al giudizio, perfino al linciaggio morale dell’estranea (il rimando al Dogville di Lars Von Trier quasi si impone).
Tra gli eterogenei vicini c’è
Andreas detto il Tedesco, silenzioso e non più giovane, del quale Nat accoglie
la proposta di barattare le costose riparazioni del tetto con incontri sessuali
che prescindano dal sentimento; un accordo accettato non tanto per necessità quanto
per un impulso incomprensibile, lo stesso che l’ha spinta a rubare un oggetto inutile
e poi a respingere il perdono con diffidenza. È proprio la relazione con Andreas,
impassibile e insondabilmente mediocre, a rivelarci quanto il titolo del
romanzo sia provocatorio: Nat, infatti, si lascia in breve travolgere da un’ossessione
che si nutre del bisogno di conforto, ma soprattutto del timore di perdere la
propria attrattiva erotica, unica forma di potere che crede le sia concessa.
Ogni passo, ogni gesto,
sottolineano il disagio e il perpetuo interrogarsi della protagonista, mentre
si scopre incapace di tradurre non solo il testo su cui lavora, ma anche la “lingua”
del ristretto universo in cui è penetrata. La Escapa, intanto, reclama la sua
vittima sacrificale e la trova in Fiele, il cane maltrattato e selvatico che
Nat ha adottato, quasi un alter ego, una proiezione del furore segreto cui lei
non può abbandonarsi, intenta com’è ad accettare passivamente l’inaccettabile
(per limitare il danno? Perché educata a compiacere, come tutte le donne? O per
negare di sentirsi sempre e comunque “inadatta”?).
Dopo romanzi quali Cara de pan
(Anagrama 2018) e Cicatrice (Bompiani 2019), imperniati su relazioni
eccessive e disuguali, Mesa sembra chiudere un’involontaria trilogia con questo
racconto duro e algido, realistico ma incline a scivolare in atmosfere oniriche
e inquietanti, vestito di un minimalismo in terza persona avaro di informazioni
e denso di rapide immagini, che a partire da pochi e modesti accadimenti ci trascina
in un territorio minaccioso e incerto, governato da gerarchie di potere non
necessariamente legate al genere, anche se Nat è sovrastata da presenze
maschili brutali o paternaliste. Mesa cancella il superfluo e lima le frasi
fino all’esasperazione, costruendo un testo la cui innegabile qualità sta nello
stile, nell’architettura perfetta, nelle frequenti ellissi che spingono a individuare
i punti di incastro delle diverse, levigatissime parti. L’autrice non commenta,
non spiega, non favorisce interpretazioni di alcun genere: osserva, mostra,
dirige su luoghi e personaggi uno sguardo attento e spassionato, e proprio per
questo interpella il lettore, lo inquieta, lo induce a porsi domande, a inseguire
ipotesi, a scavare non solo nel romanzo, ma in sé stesso.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di settembre del 2021