Almudena Grandes |
L’arma della memoria
Poco più di un mese fa aveva
rivelato il motivo che la teneva lontana dai frequenti e affollati incontri con
i suoi lettori: un tumore diagnosticato un anno prima, che era sicura di poter
sconfiggere e che, invece, sabato l’ha portata via a sessantuno anni. Se n’è
andata così Almudena Grandes, amatissima da quell’ampia parte di pubblico spagnolo
estranea all’aggressività di una destra che, diceva la scrittrice madrilena, “reagisce
sempre come se il potere non l’avesse perso, ma gliel’avessero rubato”,
procreando per partenogenesi nuove leader quali Isabel Díaz Ayuso e Cayetana Álvarez de Toledo, “giovani, attraenti, brillanti e
soprattutto cattive, disposte a mentire, cospirare, influire e far danno”, ha segnalato Grandes in una delle sue ultime rubriche su El País.
Celebre per il grande successo
ottenuto nel 1989 con Le età di Lulù – romanzo d’esordio tradotto in
venti paesi e poi divenuto un film molto discusso –, l’autrice era infatti
tenacemente di sinistra, sempre impegnata in battaglie politiche e civili, e
non esitava a pronunciarsi contro i “mostri che il Ventunesimo secolo ci ha
restituito in imballaggi nuovi di zecca, che aspirano a depistare e ingannare
la gente e a convincerla di essere qualcosa di diverso. Ma non è vero, e il
miglior modo di scoprirlo, l’arma più efficace contro queste maschere, è la memoria”.
La certezza che qualsiasi reazione al
ritorno in forze dell’estrema destra deve basarsi su una memoria onesta e
profonda (“che non riguarda il passato, ma il presente e soprattutto il futuro,
perché se non sappiamo da dove veniamo non possiamo sapere cosa vogliamo essere”)
aveva spinto Grandes a cambiare completamente la prospettiva della sua opera
letteraria, inizialmente dedicata a esplorare con audacia gli anni Ottanta e
Novanta con romanzi quali Atlante di geografia umana del 1998 e Troppo
amore del 2004 (entrambi pubblicati da Guanda, editore italiano di tutte le
sue opere). Nel 2007 aveva compiuto una svolta decisa verso la narrativa a tema
sociale e storico con Cuore di ghiaccio, sulla storia di due famiglie
dalla Repubblica ai primi anni Duemila, per poi misurarsi con un progetto
intitolato Episodi di una guerra interminabile: sei romanzi sugli
sconfitti della guerra civile, i militanti anonimi, i guerriglieri sconosciuti,
gli uomini e le donne che misero in atto forme diverse di resistenza o
semplicemente riuscirono a sopravvivere e a mantenere intatti i propri valori
nella terribile solitudine di un paese dove si poteva essere “a piede libero,
però mai liberi”.
Per narrare la Spagna della guerra
civile e quella degli anni ’50, quando si fucilava meno, ma la paura era una
seconda pelle, Grandes ha fatto ricorso alla sua formazione di storica – che
emerge nelle note finali –, compiendo ricerche minuziose e ispirandosi
apertamente al suo nume tutelare Benito Pérez Galdós, l’autore degli Episodios Nacionales, quarantasei
romanzi sulla storia spagnola scritti tra il 1872 e il 1912 (dal suo esilio
messicano, il poeta Luis Cernuda scrisse che l’unica Spagna che riconosceva
come patria era quella creata da Galdós), al cui modello si rifanno anche i sei
titoli di Max Aub sulla fine della Repubblica raccolti nel ciclo El laberinto magico.
Come lui, Grandes ha mescolato
realtà e finzione, figure storiche e protagonisti inventati, mettendo una
rigorosa documentazione al servizio di trame densissime, popolate da una folla
di personaggi (I pazienti del dottor García ne conta 207) e dispiegate
in volumi che a volte superano le mille pagine. E come Galdós anche lei ha
scelto di raccontare la storia spagnola dal basso, componendo un enorme
affresco in cui la gente comune appare in primo piano, con la sua difficile
quotidianità, la sua solitudine, le sue rinunce e le sue piccole storie d’amore,
così da illuminare la vita e la storia dei dimenticati.
Pensati per affrontare, attraverso storie
capaci di avvincere, commuovere, emozionare, eventi e temi della storia
nazionale troppo a lungo ignorati e rimossi, e soprattutto per dare a chi legge
alcuni strumenti per capire meglio il presente, gli Episodi si
ricollegano non solo a Galdós e al realismo classico, ma a certa fluviale
narrativa popolare ottocentesca: un linguaggio semplice e comprensibile a
tutti, lunghe frasi, infiniti dettagli, rinuncia a qualsiasi sperimentazione
stilistica, frequente ricorso a risorse narrative tipiche del feuilleton
o del melodramma sentimentale. Il tutto funzionale non solo al recupero della
memoria in quanto radice ineludibile del presente, in un paese dove, diceva
Grandes, “si è incentivato l’oblio come infallibile ricetta di progresso”, ma
anche alla denuncia di problemi e ingiustizie vecchi e nuovi, perché “scrivere
è prendere posizione sul mondo. La scrittura in sé stessa è un atto ideologico”.
Inaugurato nel 2010 da Inés e l’allegria,
su una giovane comunista arrestata nel 1939 e sulla sua fuga per raggiungere i
guerriglieri che dalla Francia entravano clandestinamente in Spagna per
combattere il franchismo, il ciclo procede lungo un arco temporale che arriva
fino agli anni ’50 con La figlia ideale (il titolo spagnolo, più
suggestivo, è La madre de Frankenstein),
apparso nel 2020, che prende spunto dalla storia vera di Aurora Rodríguez Carballeira, ricca signora femminista, repubblicana, coltissima e folle
che seguendo un suo personale piano eugenetico mise al mondo una “figlia
perfetta” dall’intelligenza prodigiosa, destinata a salvare l’umanità e uccisa dalla
madre quando volle sfuggire al suo controllo e rendersi indipendente.
Forse il più riuscito tra gli Episodi – e certamente il più
disseminato di citazioni galdosiane, ma anche di rimandi a Victor Hugo, letto
con passione da una delle protagoniste femminili – La figlia ideale
mette in scena una Spagna immersa in un silenzio cimiteriale, dove la complicità
tra Chiesa e dittatura crea un mercato di bambini sottratti alle madri “rosse”
o povere, gestisce manicomi lager, cura l’omosessualità
con la lobotomia… Tre storie si intrecciano: quella di Aurora, quella di uno
psichiatra ex fuoruscito e osteggiato dal regime e quella della sfortunata
infermiera María, così da inserire destini individuali in un panorama
collettivo, rappresentato con una ricchezza di notizie e testimonianze tanto ampie
precise da assumere quasi una coloritura didattica.
Aurora, rinchiusa fino alla morte nel manicomio
femminile di Ciempozuelos, dove passava il tempo confezionando inquietanti
bambole di stoffa provviste di vello pubico, fu giudicata pazza non solo per il
suo gesto, ma in quanto donna evoluta e intellettuale di sconfinate letture (“Una
donna che legge senza controllo? Ecco il risultato”, proclamò l’accusa). Ma la
sua follia non trovava forse riscontro nel mondo esterno cupo e annichilito, in
cui tutto ciò che era peccato era anche un crimine (e i peccati erano infiniti
e infinitamente vari), mentre le donne, sottoposte a un giogo pesantissimo, avevano solo il diritto di
scegliere il colore dei propri vestiti?
Gli Episodi avrebbero dovuto concludersi con il
romanzo Mariano en el Bidasoa, sesto
e ultimo della serie, ma Grandes non ha potuto lasciare che tracce e appunti
relativi a una storia ambientata negli anni ’60, quelli del miracolo economico.
Ai suoi lettori, che in questi giorni hanno inondato la rete di messaggi
addolorati e commossi, la Editorial Tusquets ha però qualcosa da proporre: un Episodio
del futuro, una trama distopica che l’autrice ha scritto di getto durante il
lockdown e che parla di una Spagna dove si è installata una dittatura
ultracapitalista, un’immensa industria privata appartenente ai padroni delle
grandi imprese, e dove c’è, tuttavia, chi resiste. Perché, diceva Almudena Grandes,
“nei miei romanzi c’è sempre chi si oppone a una dittatura”.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto
nel novembre del 2021