Natalia García Freire e Monica Ojeda |
Il cuore nero della famiglia
Intervistato
nel 2001 dal quotidiano di Quito El
Comercio, il pur coltissimo scrittore messicano Carlos Fuentes mostrò di
conoscere assai poco la narrativa ecuadoriana, citando solo tre autori attivi
fra gli anni ’30 e ’40 e confermando una volta di più l’immagine di una
letteratura congelata nel tempo e sostanzialmente invisibile, circondata da un
silenzio che solo da poco si è finalmente infranto. Il merito di questa recente
“chiamata alla ribalta” internazionale va soprattutto a un gruppo di autrici
fra i trenta e i quarant’anni, cosmopolite e audaci, le cui opere hanno saputo
imporsi a sufficienza perché oggi, sia pure in lieve ritardo rispetto ad altri
paesi, arrivino fino a noi i testi di due ecuadoriane vicinissime per età,
molto diverse per tematiche e scrittura, ma entrambe connotate da un’originalità
e una forza espressiva difficili da ignorare.
La più giovane,
Natalia García Freire, è nata nel 1991 a Cuenca, nella Sierra andina dov’è ambientato
Questo mondo non ci appartiene (pp. 147, e. 15), appena pubblicato da
Sur nella bella traduzione di Lara Dalla Vecchia: un primo romanzo sobrio e
ipnotico dal linguaggio ricco di chiaroscuri e iterazioni, che conferiscono
una cadenza musicale alla voce del protagonista e al racconto della distruzione
di una famiglia (la sua) a opera di due misteriosi stranieri. Ormai adulto, Lucas
fa ritorno alla casa da cui l’hanno scacciato Eloy e Felisberto – gli usurpatori
che hanno ucciso suo padre, vittima consenziente – e in un allucinato flusso di
coscienza si rivolge al genitore morto, alternando a squarci del presente la
rievocazione del passato, di un’infanzia tradita, del rapporto con la madre e con
le silenziose domestiche.
La casa è in
rovina, nel giardino un tempo splendido pascolano le mucche, ma sotto la
decomposizione e il declino freme un universo invincibile, che da sempre
affascina Lucas: quello degli insetti, osservati con reverente meraviglia,
ammirati ed amati al punto che la compagna fedele del protagonista è un ragno
femmina, enorme e velenoso. È attraverso una sorta di comunione con loro che Lucas
cerca di costruirsi un’identità da opporre a quella paterna, ed è da farfalle,
bruchi, larve, coleotteri, artropodi che nasce l’aspirazione a liberarsi della
propria pelle per approdare a un’altra forma di vita, scissa in corpi
infinitesimali destinati a una perpetua rinascita, veri padroni della terra.
L’autrice
concede al lettore ben poche informazioni: non sappiamo in che epoca si svolga
la vicenda (anche se tutto fa pensare all’inizio del ventesimo secolo), dove si
trovi esattamente la casa, chi siano in realtà gli stranieri e il perché della
sottomissione quasi entusiasta del padre. Le ombre dell’edificio fatiscente, il
brulichìo di creature minuscole, il rigoglio di un indifferente giardino dell’Eden
che sa di poter resistere a qualsiasi profanazione, riprendendo ogni volta il
sopravvento, sottolineano insieme ai sapienti vuoti della trama il carattere
metaforico e simbolico della narrazione, vicina a quel “gotico andino” in cui
si inscrivono le boliviane Liliana Colanzi e Giovanna Rivero, ma anche María Fernanda Ampuero, un’altra e celebrata ecuadoriana che presto verrà
presentata ai lettori italiani.
Al di là del puro e semplice piacere
della lettura, il romanzo si presta a molte e diverse interpretazioni ed evoca
una vasta ed eterogenea tradizione letteraria, da Poe a William H. Gass fino a
Juan Rulfo e a José Donoso, creatore di case labirintiche e cupe che
racchiudono il declino delle grandi famiglie borghesi. La figura più suggestiva
che si intravede dietro Questo mondo non ci appartiene è però quella di
Maria Sybille Merian, studiosa e magnifica pittrice della natura vissuta tra il
XVII e il XVIII secolo, cui García
Freire rende esplicitamente omaggio e che ha ispirato il personaggio della
madre di Lucas, assorta nei suoi studi di botanica ed entomologia, estranea
alla religiosità ipocrita del marito e così diversa dal modello femminile
imposto dal patriarcato da venire rinchiusa in manicomio.
Se García
Freire allude a un passato andino e arcaizzante, Monica Ojeda, che come lei –
ma in termini assai differenti – parla dell’infanzia inascoltata e dell’esistenza
del male, ambienta il suo Nefando (Alessandro Polidoro Editore, pp. 200,
e. 17) in una Barcellona contemporanea popolata di turisti senza vergogna, di
borseggiatori e di truci indépes
catalani, dove cinque studenti latinoamericani e un hacker sivigliano vivono da
estranei nello stesso appartamento. Tranne Irene, Emilio e Cecilia Terán, che vengono
dall’Ecuador e hanno condiviso un padre violentatore, una madre indifferente e un’infanzia
spaventosa all’insegna degli abusi più orrendi, documentati in una serie di
video, gli altri non hanno niente in comune, o quasi: Kiki è impegnata nella
stesura di un romanzo pornografico, Cuco partecipa a traffici loschi e Iván frequenta
un inutile corso di scrittura creativa e vive con tormento la propria incerta
identità sessuale.
In realtà,
però, i Terán
non sono gli unici ad aver affrontato situazioni conflittuali o violente, come
scopriremo a poco a poco attraverso capitoli brevi, legati fra loro ma così
compatti da sembrare quasi racconti conclusi e indipendenti. Accostati l’uno
all’altro, i frammenti ci forniscono non solo ritratti efficacissimi, benché
incompleti, dei personaggi e del loro passato, ma anche la storia di un
videogioco chiamato “Nefando” e nascosto nel deep web. È un narratore di cui non sappiamo nulla, se non che è
ecuadoriano come i Terán, a collegare testimonianze e ricordi, interpellando
gli abitanti dell’appartamento a proposito di Nefando e dei suoi ideatori. Che
sono i Terán, naturalmente: loro è stata l’idea, poi realizzata da Cuco, e
sempre loro hanno fornito i video porno da inserire nel gioco, che li
ritraggono durante le sevizie paterne. Un modo per affrontare il danno subìto e
per “creare” a partire da esso.
Crudo ed
esplicito, tagliente eppure intensamente poetico, mirabilmente scritto, Nefando
è il secondo romanzo di Ojeda, una delle più interessanti tra le autrici
latinoamericane della sua generazione e certo tra le più abili e mature, la cui
opera è già considerevole nonostante la giovane età (è nata nel 1988), visto
che in pochi anni ha prodotto due libri di racconti, due raccolte di versi e
altri due romanzi, l’ultimo dei quali, Mandibula, pubblicato in Italia l’anno
scorso sempre da Alessandro Polidoro. Come e più che altrove, Ojeda conferma
qui la sua considerevole capacità di orchestrare in modo impeccabile una
polifonia di voci che si incrociano (il traduttore Massimiliano Bonatto ne ha
reso assai bene le peculiarità), si contraddicono e chiedono al lettore un’attenzione
costante, mettendolo a confronto con un segreto e insinuando che toccherà a lui
scioglierlo e stabilirne il senso, in continuo dialogo con un testo ibrido fatto
di interviste, flashback, incursioni nel web, scene di videogiochi, capitoli
del romanzo di Kiki, scarabocchi, flussi di coscienza, in un’alternanza tra prima,
terza e seconda persona.
L’esercizio
stilistico, vertiginoso e ben riuscito, sostiene la complessità dei contenuti e
la rispecchia; il romanzo, infatti, non si limita ad affrontare senza remore
temi come la pornografia infantile, la ricerca del piacere attraverso la
violenza, la riduzione dell’altro a oggetto da usare, il cuore nero della
famiglia, l’incesto, ma riflette costantemente sulla possibilità di trasformare
qualunque esperienza in linguaggio estetico per esporla allo sguardo di tutti,
compreso chi non vuole o non sa vedere. Il che significa, prima di ogni altra
cosa, parlare di letteratura, ripensarla, intraprendere un’indagine metaletteraria
sulla rappresentazione del male e, infine, rimandare a un’ampia «biblioteca»
che si discosta dal canone e non esita a frequentare anche territori marginali
o disprezzati. Un romanzo-saggio, dunque? Sì, anche questo. O forse, al di là
delle emozioni che suscita, soprattutto questo.
Questo articolo sul quotidiano Il manifesto nel marzo del 2022