Alberto Laiseca |
Indubbiamente, ferocemente, orribilmente
“Mi sto aprendo molto lentamente il
passo con la mia letteratura, amplio il circolo di lettori a poco a poco. Ora
ho sessantacinque anni. Secondo i miei calcoli, sarò ricco e famoso quando ne avrò
più o meno duecentonove. Non manca tanto”.
Una dichiarazione provocatoria e
ironica, quella fatta da Alberto Laiseca in un’intervista del 2006, ma fondata
su un dato di fatto: in Argentina restava uno scrittore quasi segreto, tanto
per la critica quanto per il grande pubblico, che lo conosceva solo per il
programma televisivo Cuentos de terror,
in onda dal 2002 al 2005, durante il quale lo scrittore raccontava a modo suo celebri
storie gotiche. In contrasto con una sostanziale indifferenza che gli faceva prevedere
un triste futuro per la propria opera (tredici romanzi, quattro libri di
racconti, due saggi e un libro di poesie), Laiseca era comunque circondato da
un’aura di leggenda, dovuta solo in parte alla sua figura di gigante con enormi
baffi ingialliti dai quali usciva una voce cavernosa, e a una complicata storia
personale.
Cresciuto in un remoto paesetto dell’interno,
dopo un’infanzia difficile e un ancor più difficile rapporto con un padre
dispotico, il giovanissimo Alberto aveva abbandonato l’università per lavorare
nei campi e, una volta a Buenos Aires, si era guadagnato la vita come spazzino,
operaio dei telefoni e correttore di bozze: un autore plebeo e autodidatta, dunque,
che nonostante l’estrema precarietà non aveva mai smesso di scrivere “voltando olimpicamente le spalle agli usi e costumi
del circuito locale” e attingendo
al canone di altri paesi (Poe e Joyce, per cominciare), ad autori argentini
marginali come Marcelo Fox, al cinema di serie B, a generi quali l’horror, la
fantascienza, il poliziesco, alle fiabe, alla pornografia, ai fumetti e alla
divulgazione scientifica a dispense, cara anche a Roberto Arlt, cui viene a
volte accostato.
La necessità di “uccidere Borges” aveva
fatto sì, inoltre, che certi critici e scrittori, spesso riuniti intorno a
riviste effimere ma significative, inserissero Laiseca in una rosa di nomi
nuovi e audaci, da Copi a César Aira, da Osvaldo Lamborghini a Héctor
Libertella, che prescindevano del tutto dalla lezione borgesiana, e così non ci
era voluto molto perché attorno al Mostro (uno dei suo tanti soprannomi)
nascesse una sorta di culto riservato a pochi, scelti lettori, alcuni dei quali
sarebbero diventati allievi del suo ventennale laboratorio di scrittura.
Uno dei grandi
crucci di Laiseca era quello di non venire tradotto all’estero, ma nel 2013, due anni prima di morire, fece in tempo
a vedere l’edizione francese di Avventura di un romanziere atonale, che
l’anno dopo apparve in italiano presso Arcoiris. E proprio l’Italia è il paese
in cui Laiseca è oggi più tradotto, perché nel 2017 il medesimo editore ha
pubblicato È il tuo turno (romanzo d’esordio del 1976, raccomandato da
Osvaldo Soriano alla Editorial Corregidor) e l’antologia Uccidendo nani a
bastonate, mentre proprio in questi giorni arriva in libreria, corredata dalla postfazione di Lucio
Mignola, la raccolta di racconti Grazie Chanchúbelo (Wojtek Edizioni, pp. 150, e. 16) nella
eccellente versione di Loris Tassi, che qui ha saputo restituire con efficacia
perfino un testo di grande complessità linguistica come Indubbiamente, ferocemente,
orribilmente (il cui turbine di gerundi, assonanze, avverbi, rime, virgole fuori
posto, che sembra dinamitare l’idea stessa di “bella scrittura”, è l’esilarante
risposta a una presunta frase di Borges su Uccidendo mani a bastonate,
ovvero: “Non leggerei mai un libro con un gerundio nel titolo”).
La relativa
abbondanza di titoli di Laiseca nel nostro paese si deve, probabilmente, al
fatto che anche qui esiste da anni un piccolo gruppo di suoi estimatori,
entusiasti almeno quanto Ricardo Piglia, Rodolfo Fogwill e César Aira, i cui
elogi incondizionati a un collega così bizzarro aprirono una breccia nella
critica accademica, come dimostra un dossier dedicato a Laiseca nel 2019 dalla
rivista online Crapula Club. La lunga marcia del Mostro sembra dunque
proseguire, con la lentezza che, scriveva Piglia, “è
il ritmo della letteratura, il contrario della fugacità dei bestseller che
entrano ed escono di scena una volta alla settimana”, e l’edizione italiana di
questi racconti (apparsi in Argentina nel 2000) non può che confermare il
giudizio espresso negli anni ’80 da Aira: siamo davanti a uno di quegli
autori «unici e imprevedibili, con i
quali tutto finisce e comincia di nuovo”.
Le tredici storie di
Grazie Chanchúbelo sono un perfetto esempio della
poetica di Laiseca, da lui stesso definita “realismo delirante”, che anteponeva
alla verosimiglianza l’eccesso deliberato, la parodia, l’accumulazione di saperi stravaganti, la burla, l’iperbole,
i frutti di una immaginazione inesauribile che attraverso il delirio intendeva
portare alla luce parti poco visibili della realtà. Chi legge si imbatterà, con il debito stupore, in un carro armato grande quanto una
nazione, in manufatti colossali ed enigmatici come il Gran Legno, in
città abitate esclusivamente da santi finanziati dallo stato per dedicarsi alle
loro sacre manie, in un re di Francia chiamato Luigi 11,50 che, in un
raccontino intitolato La petomanzia non è una musica minore, dai solidi “passò
ai gas”, e in un criminale seriale, Jack il Dimenticatore, che annienta le
donne con l’indifferenza invece che con un’arma bianca. Sfilano, una dopo l’altra,
le costanti della narrativa di Laiseca: dittatori che concepiscono grandiosi progetti
destinati a fallire; il denaro, indispensabile maledizione riflessa nella Favola
del povero e della borsa; il trionfo di un politeismo più pratico che
mistico; la tecnica e la scienza, che figliano macchine folli; un esotismo già
dispiegato in romanzi come La mujer en la
muralla o nei Poemas chinos,
attribuiti a immaginari poeti cinesi; un uso demenziale e distopico della Storia;
la parodia dei generi praticata sin dall’esordio.
Affiorano anche le ossessioni dell’autore,
in primo luogo le sorti di scrittori mediocri e affamati, che riescono a
scrivere un’opera immortale solo a patto che nessuno la possa mai leggere, e sopra
ogni cosa la guerra, che nel saggio El país de la guerra Martin Kohan individua
come elemento fondamentale nella costruzione dell’identità argentina. Laiseca lo
smentisce, evitando sempre e dovunque ogni accenno all’argentinità, ma fa della
guerra l’asse portante della propria narrativa, un modo di vita, una figura
letteraria che condensa tutte le crudeltà, il furore, gli sforzi inutili e irrazionali di
despoti e nazioni mortalmente affascinati dall’esercizio del potere. Attorno
alla guerra, inclusa anche nei racconti di Grazie Chanchúbelo,
Laiseca ha costruito il ricchissimo, tumultuoso romanzo che più di ogni altro
ha contribuito alla sua leggenda: Los
sorias, sull’epico e inutile scontro fra tre dittature che invadono
territori e devastano nazioni, concluso in modo inatteso e geniale e narrato in
oltre mille e trecento pagine elaborate nel corso di dieci anni e pubblicate
per la prima volta nel 1998, dopo sedici anni di attesa e di vagabondaggi (il
manoscritto, racchiuso in un sacchetto del supermercato, seguiva l’autore ovunque
andasse).
Un
vero e proprio monumento letterario, che Laiseca non volle abbreviare per
renderlo più “vendibile” e che è il fulcro della sua intera opera, da
considerare un unicum senza termini di paragone in Argentina, ma non America
Latina (l’unico luogo, forse, dove ancora prosperano simili inventori di mondi).
Come non accostare Los sorias alle
cinquemila pagine di Umbral, romanzo
alla cui stesura il grande scrittore cileno Juan
Emar dedicò ventiquattro anni e che fu pubblicato solo
nel 1996, trentadue anni dopo la sua morte? Molto diverso da Emar per storia,
stile e scrittura, Laiseca aveva indubbiamente qualcosa in comune con lui, e cioè
una cieca fiducia nel proprio destino, espressa da Emar in una breve annotazione:
“Sono uno scrittore e come tale mi realizzerò”.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di aprile del 2022