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Cristina Rivera Garza |
Viviana e la sua breve estate
Alla vigilia dell’otto marzo 2021, intorno al Palacio Nacional di Città del Messico venne eretto una sorta di recinto metallico alto più di tre metri, simbolo tangibile del difficilissimo rapporto tra i movimenti femministi e il Presidente Andrés Manuel López Obrador, che parlò di un «muro della pace» destinato a prevenire gli eccessi di «donne violente» e strumentalizzate dalla destra. La presunta violenza (ovvero un immenso corteo, molte scritte sui muri, un diluvio di slogan e qualche scaramuccia tra la polizia e le incappucciate del Bloque Negro) era in realtà la legittima esasperazione di chi vive in un paese dove ogni giorno vengono assassinate dieci donne – nel 2020 le vittime furono 3.752 –, e dove il tasso di impunità per chi le stupra e le massacra resta impressionante.
Qualunque cosa
ne dica il Presidente, però, le messicane non hanno intenzione di stare zitte,
ed è anche il clamore delle loro voci ad aver incoraggiato Cristina Rivera
Garza (autrice ormai famosa e accademica di vaglia nata a Matamoros nel 1964) a
intraprendere un’impresa rimandata per trent’anni: scrivere della vita e della
morte di sua sorella Liliana, ventenne studentessa di architettura uccisa nel
1990 dall’ex fidanzato Ángel González Ramos. Una coincidenza casuale ma significativa
ha voluto che la pubblicazione del libro avvenisse proprio nell’aprile del 2021,
a pochissima distanza dalla costruzione del «muro», e sempre in aprile, ma due
anni dopo, arriva nelle nostre librerie (L’invincibile estate di Liliana,
Sur, pp. 324 e. 19), tradotto con grande bravura da Giulia Zavagna e illuminato
da una bella copertina che si adegua al titolo tratto da una frase di Albert
Camus, annotata dalla ragazza uccisa e scelta come epigrafe dalla sorella
Cristina: «Nel cuore dell’inverno imparai finalmente che in me c’era un’invincibile
estate».
L’incubazione
del testo è stata così lunga, ha spiegato Rivera Garza in più di una
intervista, non solo per la difficoltà di elaborare un simile lutto, ma anche per
l’assenza di un linguaggio adeguato: per troppo tempo il «senso comune» e la sostanziale
tolleranza di polizia e tribunali hanno rivittimizzato le donne, mentre una
definizione come «delitto passionale» contribuiva a sfumare la responsabilità
del colpevole e perfino ad aggiungere un tocco romantico. Sono state la
mobilitazione e la voce delle donne, sottolinea Rivera Garza, a spingere verso
il cambiamento e a consentire al linguaggio di articolare il dolore ed
enunciare/denunciare le dimensioni della tragedia.
L’intero
percorso di scrittura e di riflessione dispiegato in un’opera assai ricca, composta
da romanzi, racconti, poesia e saggi, sembra culminare nella tensione fra contenuto
e forma che, in L’invincibile estate di Liliana, scaturisce dalle
proposte estetiche e teoriche di un’autrice mai stanca di sperimentare. A
partire da Nessuno mi vedrà piangere (Voland 2008), definito da Carlos
Fuentes «una rivelazione, un romanzo tra i più belli e dirompenti mai scritti
in Messico», Rivera Garza ha prodotto testi sempre diversi ma legati da una
ricerca costante e audace, approdata negli ultimi anni a quello che si potrebbe
definire un progetto di co-scrittura fondato sulla rinuncia a una figura
autoriale unica, da lei teorizzato in Los muertos indóciles. Necroescrituras
y desapropiación (Tusquets, 2013).
«Scriviamo
sempre in compagnia. (...). Tutto è stato già detto in precedenza, se posso
pensarlo è perché qualcun’ altro lo ha pensato. Per questo devo fare una mappa
di quel che è stato detto, di chi e perché lo ha detto. La mia grande sfida è
come mettere insieme materiali e idee, trovare gli accostamenti che mi
permetteranno di formulare conclusioni complesse»» sostiene l’autrice a
proposito di una decisa «svolta documentale», inagurata con Dolerse. Textos
desde un pais herido (2011), e proseguita con Autobiografía del algodón
(2020), che collega la storia della sua famiglia di lavoratori agricoli migranti
a quella economica della frontiera tra Messico e USA. Testi dall’evidente
carattere ibrido, nati dal continuo movimento fra materiali e generi diversi: documenti,
autobiografia, testimonianze, crónica, reportage, teoria letteraria, finzione, diario.
Un procedimento che
si realizza compiutamente in L’invincibile estate di Liliana, dove i
capitoli iniziali ci mostrano l’ infruttuosa ricerca del fascicolo giudiziario
sul delitto (rimasto impunito, perché Ángel González scomparve e non venne mai
arrestato né giudicato), perso nei labirinti della macchina statale e inseguito
di ufficio in ufficio da una Rivera Garza che nel raccontare minuziosamente i
suoi spostamenti disegna una piantina tridimensionale di Città del Messico,
fatta di strade, edifici, presenze, esterni e interni, in cui sono questi
ultimi a risultare più inquietanti e minacciosi. E se il fascicolo non si
trova, sarà l’autrice (storica di formazione e abituata alla ricerca dall’attività
accademica) a crearne uno, conducendo una minuziosa indagine che muove dall’affetto,
dal desiderio di giustizia e da un ritrovamento eccezionale: le carte di
Liliana, conservate dai genitori in alcune scatole mai aperte.
È così che
Rivera Garza scopre un vero e proprio archivio, composto dalla sorella minore
che negli anni della sua breve vita aveva conservato lettere, appunti,
quaderni, cartoline, fotografie, biglietti, diari, scarabocchi, liste di
canzoni, pagine scritte e piegate come origami, decorate a colori vivaci, o con
polverine luccicanti e fiori secchi, di cui ci vengono offerti i contenuti e
descritta la materialità, la calligrafia, il tipo e la consistenza della carta.
Nel libro,
Liliana si racconta con la propria voce e alla sua narrazione si aggiunge quella
degli amici rintracciati a uno a uno, che si fanno avanti con i loro nomi e
ricordi, fedelmente riportati. Seguono gli articoli che all’epoca parlarono del
delitto, e, alla fine, la parola passa ai genitori e alla loro memoria: un’autentica
polifonia magnificamente orchestrata per dar forma a una struttura che, pur
affondando le radici nella realtà, ricorre a volte all’’immaginazione, indispensabile
per riempire vuoti, per interpretare passaggi fondati solo su parole altrui,
per dare corpo a supposizioni e ipotesi. L’indagine, i documenti, non esitano
dunque a costeggiare il racconto, non solo per ritrarre e celebrare una sorella
amata e perduta, ma per rappresentare una realtà collettiva, per poterla «dire»
in un altro modo, per condividere degnamente il lutto, ma anche per indirizzarlo
verso la protesta e l’azione, conferendo al libro una spiccata qualità
politica.
Dell’assassino,
di quell’Ángel González Ramos del quale troviamo una sbiadita fotografia nelle
ultime pagine, poco viene detto, anche se gli scritti di Liliana rivelano che
ne è stata innamorata, danno conto delle tappe di un rapporto tossico e la mostrano
infine consapevole della necessità di dire basta. Quella di Ángel resta però una
figura sfocata, tanto che, durante la consegna all’autrice del premio
Villaurrutia 2022, un noto intellettuale messicano ha fatto presente la sua
delusione di lettore nel veder trascurati «i motivi, il modo di agire, le
giustificazioni» del colpevole, personaggio intrigante che meriterebbe di
essere osservato a dovere e in profondità, come hanno fatto Borges, Sabato e
Valadés in alcune celebri opere. Mettendo da parte il suo discorso di
accettazione, Rivera Garza ha risposto che lo sguardo e l’attenzione dovrebbero
essere rivolti alle vittime, non a quelli che le hanno uccise, di cui si è
parlato e si parla fin troppo: «A me importava che la protagonista fosse
Liliana, che la sua vita fosse la protagonista del libro, non volevo che il suo
assassino le rubasse spazio, se non per segnarlo a dito, per dire che c’è un
femminicida impunito e in libertà».
Questo
articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di aprile 2023