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Sara Gallardo |
I levrieri di Julián
Non sono in molti, neppure nell’Argentina
dove furono popolarissime, a ricordare Beatriz Guido, Silvina Bullrich e Marta
Lynch, scrittrici che a metà del secolo scorso vennero chiamate las bestselleristas per l’eccezionale
successo dei loro romanzi. La biografa Cristina Mucci le definisce “le
dimenticate” (Las Olvidadas,
Sudamericana 2022), e Leopoldo Brizuela sottolinea che il tempo non solo le ha
cancellate, ma ha finito per premiare un altro terzetto letterario attivo negli
stessi anni, quasi segreto e composto da Silvina
Ocampo, Elvira Orphée e Sara Gallardo, autrici così singolari da risultare
provocatorie e allora situate ai margini dello scenario culturale argentino. Orphée
è l’unica, tra loro, ad attendere ancora una piena rivalutazione, mentre il
riscatto di Ocampo è così largamente consolidato da averne fatto un
indiscutibile punto di riferimento; quanto a Gallardo (scomparsa nel 1988, a
cinquantasette anni), il recupero della sua opera è davvero iniziato solo 2004,
con l’edizione della Narrativa breve completa curata proprio da Brizuela,
che insieme a Ricardo Piglia ha attirato l’attenzione su una scrittura
imprevedibile ed elegante, travasata in romanzi o in racconti brevi e
affiancata da una vasta e brillante produzione giornalistica.
Sara Gallardo Drago Mitre (nata a Buenos Aires nel 1931 in
una delle più illustri famiglie argentine e scomparsa prematuramente nel 1988) era finora nota ai lettori italiani solo grazie a Gennaio,
romanzo d’esordio pubblicato da Solferino nel 2021 e apparso in lingua
originale nel 1958, che con la sua ambientazione rurale sembrava rifarsi a un
immaginario ormai considerato
residuale e scartato dal sistema letterario. Nello stesso momento in cui Guido, Bullrich e Lynch si insediavano in un collaudato
“canone femminile” fatto
di sensibilità e intimismo, e
mentre in Argentina si affacciavano
le sperimentazioni di un’audace avanguardia o divampavano polemiche sul ruolo
politico e sociale della letteratura, Gallardo tornava quindi a una tradizione
narrativa ormai archiviata, e se ne serviva spavaldamente per comporre una
sorta di trilogia.
A Gennaio, infatti,
seguirono nel 1963 Pantalones azules e nel 1968 Los galgos, los galgos, che mettono in
scena gli abitanti e i paesaggi delle grandi proprietà terriere, disarticolando però gli stereotipi e le convenzioni
di un genere da sempre percepito come maschile e sovvertendolo per mezzo della
parodia, dell’iperbole, di vistose deviazioni dalla via tracciata in passato da
scrittori come Eugenio Cambaceres, Benito Lynch, Enrique Larreta o Ricardo Güiraldes, autore di quel Don Segundo Sombra che, pubblicato nel
1926, racconta un duro e trionfale apprendistato da proprietario terriero: una
storia traboccante di colore locale che Gallardo capovolge simmetricamente nel
suo terzo romanzo, come per mettere a nudo, reinterpretare e forse disintegrare
le fondamenta della letteratura argentina.
Los galgos,
los galgos, tradotto benissimo
da Sara Papini, ci viene ora presentato da gran vía (I levrieri, i levrieri, pp. 504, e. 20), rispettandone
il titolo, che testimonia il gusto dell’autrice per l’iterazione e per la
presenza di animali veri o fantastici: un bestiario singolarmente autentico
(tori mostruosi, greggi simili a un’onda lenta, lepri, formiche rosse,
pipistrelli, cavalli) popola il romanzo, evocato con attenzione quasi amorosa e
dotato di un’accentuata valenza lirica e simbolica. Il posto d’onore spetta ovviamente
alla coppia di levrieri Corsario e Chispa che Julián, avvocato senza ambizioni, porta con sé nella tenuta ereditata
dal padre, dove spera di trasformarsi in un autentico estanciero e trovare così un senso e uno scopo; da elegante
accessorio del suo nuovo status, i cani si trasformano presto in compagni indispensabili
e in una versione più stabile e felice della coppia formata da Julián e dalla pittrice Lisa, il cui abbandono coincide con il
fallimento dell’impresa: lo spazio
rurale si è rivelato un enigma di cui Julián non riesce a decifrare i codici e le regole, affrontati a partire
da moventi puramente estetici o da nozioni libresche.
Finalmente consapevole della propria estraneità a un mondo cui dovrebbe appartenere per «diritto
di nascita», il protagonista parte per Parigi, dove, più indolente che mai e
più che mai pieno di rimpianti per l’amore perduto, finirà per attirarsi una
falsa accusa di pedofilia e per decidersi al ritorno, ma solo per scoprire che
Lisa è definitivamente perduta: ad attenderlo non c’è che la sopravvissuta
Chispa, l’ultimo levriero destinato a morire di lì a poco, come Argo ai piedi
di un desolato Odisseo.
Suddiviso in quattro parti che rappresentano
altrettante tappe del percorso di Julián (l’ultima lo vedrà scivolare nel
matrimonio con una donna che gli è indifferente, ma che ne sopporta con
pazienza i capricci e la depressione), il romanzo ha quindi un andamento
circolare e rimanda il suo eroe al punto di partenza, abbandonandolo con un
breve e spiazzante brano in terza persona che proietta l’autrice verso nuove
scommesse formali, condensate tre anni dopo nel suo capolavoro, lo stupefacente
Eisejuaz. Attraverso il flusso sincopato
dei dialoghi, la progressiva trasfigurazione del quotidiano, la spirale di
descrizioni mai inutili e sempre funzionali al procedere del racconto, il
romanzo annuncia nitidamente una svolta che allontana l’autrice dall’iniziale
naturalismo, spingendola verso una riflessione profonda su temi quali l’identità
latinoamericana, la tensione verso l’alterità, la necessità di scrivere oltre e
contro i confini della propria classe sociale. Vicino alla perfezione e frutto
di una raggiunta maturità, I levrieri, i levrieri si offre come un
presentimento dell’imminente inoltrarsi di Gallardo in territori narrativi inesplorati
e privi di filiazioni visibili.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto
nel mese di aprile del 2023