Julián López |
Una madre diversa dalle altre
Un bambino con i
capelli rossi (unica eredità di un padre mai conosciuto, la cui assenza lascia
immaginare un precoce abbandono) e una giovane madre incantevole e misteriosa,
che condividono una solitudine a due nel loro modesto appartamento di Buenos
Aires, a metà degli anni ’70: ecco i protagonisti di Una ragazza molto bella,
primo romanzo del poeta Julián López ora tradotto da Sara Papini per Alessandro
Polidoro Editore (pp. 172, e. 16), che va presentando un’ottima e meditata
scelta di scrittori latinoamericani contemporanei.
Un libro
indimenticabile, l’ha definito la grande scrittrice e cronista argentina Maria
Moreno, e con ragione, perché López riesce non solo a evocare un’epoca con densa
brevità e attraverso la somma di innumerevoli dettagli, ma anche a innovare il
racconto di un tema già trattato infinite volte, e soprattutto a ricostruire il
rapporto tra una madre diversa dalle altre e un figlio che, divenuto adulto, si
affida allo sguardo dei suoi sette anni per riordinare i ricordi degli ultimi
mesi trascorsi con lei.
– Mia madre era
una ragazza molto bella, mia madre mi amava – ripete più e più volte il
narratore: una reiterazione che riafferma il vincolo d’amore, ma rinnova anche
l’ansia e l’incertezza. Rapito nella costante osservazione di una “ragazza” che
non si annulla in una maternità ciecamente servizievole, ma gli spiega che i
libri “fanno la differenza” e gli manda allegre cartoline per fantasticare su
viaggi mai avvenuti, il figlio intuisce che entrambi vivono in un tempo irreale
e sospeso, sa che la madre non esiste solo per lui, che nella sua vita c’è dell’altro,
un segreto in cui si nasconde un vago annuncio di catastrofe.
Tra l’azzurra
luminosità dell’Orto Botanico, il grigiore opalino della nebbia, la penombra delle
stanze, le rare visite dello zio e l’affettuosa presenza della vicina Elvira, matura
ex cantante di tango, non risuonano mai parole come guerriglia, repressione, politica, militanza. Il
bambino non le conosce, perciò il narratore le esclude, così come evita, grazie
a un uso frequente dell’ellissi, la rappresentazione diretta della violenza (l’irruzione
dei militari, la devastazione dell’appartamento, il sequestro della madre), ma
non tralascia di costellare il testo di tracce spesso nascoste in simboli e
metafore.
La foto del Che sulla parete, la picana distrattamente nominata dallo zio
durante una gita in campagna, il passaggio di un convoglio militare, il
terrore di non veder riapparire la madre quando si tuffa, gli animali crudelmente
uccisi, la scalinata sulla scogliera che porta al vuoto di un precipizio, certe
piccole frasi della “ragazza bella”, le sue lacrime quando la tv parla di Monte
Chingolo (luogo della sanguinosa sconfitta dell’Ejército Revolucionario del
Pueblo nel dicembre del 1975): nessuna immagine, nessun accenno è casuale. Il
vuoto tra la scomparsa della madre e l’età adulta è, invece, qualcosa che il
narratore non intende riempire, nemmeno adesso che ha deciso di scrivere per “respirare”,
per smettere di essere soltanto il figlio di una desaparecida, spezzato dall’enorme
peso di un’eredità che gli è stata imposta.
Il romanzo ha
molto in comune con un vasto corpus narrativo, consolidato e spesso pregevole,
i cui autori sono i figli di vittime della dittatura che rifiutano la letteratura
testimoniale e propongono altre forme di rappresentazione del trauma, come lo
humor nero, l’irriverenza, il fantastico, il collage di residui e frammenti
(foto, lettere, ricordi altrui), l’abbandono degli stereotipi eroici, uno
sguardo legato all’immaginario infantile e all’intimità. Una visione laterale e
“dal basso” che López
condivide, ma con alcune differenze; la più evidente sta nel fatto che, pur
avendo perso la madre da bambino e a pochi mesi dal golpe, l’autore non è
figlio di una desaparecida e innesta la propria esperienza dell’orfanezza in quello
che è ormai divenuto quasi un genere a sé e che si fonda abitualmente sul dato
autobiografico. Forse è anche per questo che, nota Moreno, il figlio non scrive
per evocare la vita di una vittima, ma “per far esistere la madre sotto la luce
del suo sguardo amoroso”.
Nel racconto non
c’è ombra di recriminazione o rancore per le scelte della “ragazza bella” e per
il suo definitivo e involontario abbandono, ed emerge piuttosto il desiderio di
restituirle la corporeità che le è stata violentemente sottratta. Da qui l’insistenza
sulla sua bellezza, sul colore e la densità della chioma, sul calore del
contatto, sull’odore, sulla grazia sensuale del corpo materno: un potere di
seduzione che il narratore sottolinea introducendo una citazione di La caricia perdida di
Alfonsina Storni (la poesia preferita dalla madre) in cui la donna appare come soggetto desiderante e
responsabile del proprio destino.
Tutto questo López l’ha travasato
in un realismo lirico così limpido da cancellare qualsiasi sospetto di banalità
o di retorica, e nel ritmo misurato e ipnotico di una prosa che, come Viktor B.
Šklovskij consigliava in un suo
libretto tradotto più da vent’anni fa da Pia Pera (Il mestiere dello
scrittore e la sua tecnica, 1999), richiede di essere letta “lentamente,
con calma, senza saltare, soffermandosi”. Perché, sottolinea Šklovskij, “Non ce ne sono poi troppi di
libri buoni, di libri che bisogna assolutamente leggere”. E Una ragazza
molto bella è senz’altro fra quelli.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2021