Mariana Enríquez |
Un maelström narrativo
Algo está pasando (Sta succedendo qualcosa) è
il titolo di un articolo apparso nel mese di giugno sulla rivista Lengua, così felicemente
approfondito da richiedere la pubblicazione in tre puntate. Leila Guerriero,
notissima autrice di crónicas ma anche editor sperimentato, si è
servita di questo spazio per esaminare “una costellazione di autrici dalle voci
potenti, che provengono dalla stessa zona” – ovvero l’America latina – e della
loro crescente fortuna editoriale in patria e all’estero, accompagnata da “un’alluvione
di premi internazionali e una tempesta di recensioni elogiative”, e talvolta da
un discreto successo di vendite, come quello che ha premiato, per esempio, l’indubbia
qualità degli ultimi romanzi di Valeria Luiselli e Guadalupe Nettel, entrambe
messicane.
Tra i nomi che ricorrono più spesso
tra i molti citati nella minuziosa indagine di Guerriero c’è, inevitabilmente, quello
dell’argentina Mariana Enríquez, scrittrice
singolarissima (ma anche giornalista culturale, crónista, biografa di
Silvina Ocampo) il cui ultimo romanzo, oltre a fare incetta di premi e a venire
tradotto in venti paesi, sembra lanciare con fiduciosa noncuranza una sfida a
lettori e critici, ammaliati e sopraffatti da un racconto monstre che sfugge a ogni definizione e
sembra riassumere e dilatare tutta la produzione precedente dell’autrice,
finora nota ai lettori italiani per la magnifica antologia di racconti Le
cose che abbiamo perso nel fuoco, pubblicata da Marsilio nel 2017.
Apparso nel 2019 presso Alfaguara, il
romanzo in questione arriva adesso in libreria nell’eccellente traduzione di
Fabio Cremonesi (Marsilio, pp. 720, e. 22) esibendo un titolo tratto da un
verso di Emily Dickinson, La nostra parte di notte, e una trama di
solida architettura suddivisa in sei parti che, senza attenersi all’ordine
cronologico, si dipana durante la dittatura militare e la presidenza Menem, con
ampie incursioni nel XIX secolo, nell’orgiastica swinging London degli anni ’60
e nell’Africa coloniale. Ciascuna parte rimanda alle altre ma possiede
caratteristiche proprie, articolata com’è intorno a punti di vista differenti,
espressi quasi sempre da una nitida terza persona che a volte cede il passo
alla prima (è il caso, per esempio, del ben orchestrato reportage di una giornalista
o dei ricordi di Rosario, compagna del protagonista) e connotati da uno stile
preciso, da una diversa “coloritura” del terrore e dall’aggancio alla realtà,
testimoniato dal richiamo a vicende effettivamente accadute, ma anche dal
rapporto stabilito tra il fantastico più estremo e la banalità quotidiana.
La storia dell’Ordine, una setta composta
da famiglie dell’oligarchia che perseguono la vita eterna attraverso il culto di
un dio oscuro e vorace, procede in parallelo a quella dell’Argentina e se ne
nutre, nascondendosi dietro i crimini della dittatura e generando al pari di
essa fantasmi senza pace, sparizioni, segreti: fondato sul dolore e la
mutilazione, L’Ordine pratica il rapimento di bambini, la tortura di corpi
offerti in sacrificio, la semi-schiavitù dei medium che, per chiamare il dio, bruciano
in fretta la propria vita. La dittatura e la sua capacità di produrre una
memoria atroce quanto inesauribile si infiltrano dunque nel romanzo e sembrano
fare da collante alle mille storie e agli innumerevoli personaggi di La
nostra parte di notte, a cominciare dai protagonisti Juan (eroe byroniano
sospeso tra il Bene e il Male) e suo figlio Gaspar, oppressi da un terribile
dono ereditario e incalzati dall’Ordine.
Una lettura del romanzo in chiave
politica nasce spontanea, e a rafforzarla affiorano le allusioni a una
condizione infantile disperata o all’emarginazione di intere classi sociali
imposta dal modello neoliberista. Eppure sarebbe riduttivo decifrare La nostra parte di notte solo in
base alla sua capacità di esplorare in modo eterodosso le ferite di una società,
anche se la sotterranea presenza del discorso politico risulta in qualche modo naturale,
quasi ovvia, nell’opera di chi come Enríquez è nato alla vigilia di un
colpo di Stato e ha trascorso l’infanzia alla sua ombra (non è la stessa cosa, sottolinea
l’autrice, trovare delle ossa in un’abbazia medioevale o nell’Argentina di
oggi). Il romanzo, infatti, è anche un viaggio alla ricerca dell’identità, una
saga familiare, una rappresentazione del rapporto padre-figlio, un discorso su
tutte le forme del desiderio e su corpi ridotti a scarto e rifiuto, sfruttati, usati,
violati, corpi mostruosi e temibili, corpi esausti e malati, metamorfici e in
rivolta.
Non va dimenticato, infine, che il romanzo manifesta orgogliosamente la sua
appartenenza al genere e
che del genere sfrutta con abilità ogni meccanismo, convenzione e sfumatura, mescolando
infiniti ed eterogenei riferimenti letterari (da Stephen King a Shirley
Jackson, da Henry James a Ballard, da Clive Barker fino a Rimbaud, William
Blake, Alejandra Pizarnik ed Ernesto Sabato, per citarne soltanto alcuni) con i
rimandi alla pittura romantica o surrealista, la poesia, il rock, i comics, il
cinema, la religiosità popolare dei santitos, la magia, la fiaba. Un testo in
cui Enríquez ha convogliato gli esiti di un percorso profondamente personale, costruito
a partire da una ricerca costante e da sconfinate letture, ma che prescinde da
una semplice ars combinatoria: La nostra parte di notte, autentico maelström pronto a
inghiottire il lettore, prende da tutti e non ruba a nessuno, perché ogni
suggestione, ogni immagine, ogni materiale viene restituito in forma ancora
riconoscibile eppure del tutto originale, fino a farci sospettare che quanto ci
viene proposto non sia il rinnovamento, ma piuttosto la rifondazione di un
genere.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2021