Jorge Ibargüengoitia |
Come uccidere un tiranno
Una piccola isola nel Mar dei
Caraibi a forma di cerchio, con duecentocinquantamila abitanti connotati da
grandi differenze etniche, sociali ed economiche (poveri e poverissimi i
discendenti degli autoctoni e degli ex schiavi africani, favolosamente ricchi
quelli degli antichi colonizzatori spagnoli), concentrati soprattutto nella
capitale Puerto Alegre. Questa è Arepa, luogo non solo immaginario ma
impossibile (“perché la società che lo abita presuppone una ricchezza che non
potrebbe esistere in un’isola così piccola, il maresciallo di campo è un
tiranno costituzionale, i personaggi di classe media parlano come nel
Guanajuato e il popolo va per le strade ballando la conga”) in cui lo scrittore
messicano Jorge Ibargüengoitia ha ambientato il secondo dei suoi sei romanzi,
ovvero Ammazzate il leone, pubblicato nel 1969 e ora riproposto da La
Nuova Frontiera (pp. 192, e. 16) nella ormai storica traduzione di Angelo
Morino, già apparsa in anni lontani per Feltrinelli e Sellerio.
Sin dal brevissimo prologo in cui l’autore
presenta l’isoletta, è evidente che il romanzo si inserisce in un consolidato
filone noto come “novela del dictador” e caratteristico della letteratura latinoamericana,
in cui a partire dal diciannovesimo secolo ha trovato inevitabilmente posto una
vasta galleria di caudillos, dittatori, “uomini forti” e satrapi
assortiti. A governare Arepa, che per ottantotto anni ha
lottato contro la dominazione spagnola, è proprio uno di loro: il maresciallo Manuel Belaunzarán, “l’Eroe giovinetto delle guerre
di indipendenza”, che nel 1926 è giunto alla fine del suo quarto periodo alla
guida del paese e intende modificare la costituzione per aggiungerne un quinto
e diventare presidente a vita.
La sua decisione, che comporterà l’assassinio
dello sfidante e una vittoria trionfale in elezioni prive di votanti, agita il partito
moderato (rivale, ma in realtà sottomesso) e mette in moto una buffonesca, delirante
cospirazione costellata di goffi attentati che approderanno a un colpo di scena
casuale quanto sorprendente, come sorprendente è tutto il romanzo, sostenuto dal
micidiale sarcasmo che ha fatto di Ibargüengoitia (scomparso nel 1983 in un
incidente aereo, a cinquantacinque anni), uno dei più singolari scrittori di
lingua spagnola del novecento e ha reso la sua opera quasi un unicum nel panorama letterario messicano.
Ammazzate il leone è innanzitutto una satira sfrenata
dai tempi teatrali perfetti, e la cosa non stupisce se si pensa che l’autore scrisse
a lungo per il teatro, da lui abbandonato dopo che la censura aveva messo al
bando la sua ultima commedia, El atentado,
a causa dello scarso rispetto verso la figura di Álvaro Obregón (1880-1928), generale
rivoluzionario e poi presidente della Repubblica deciso a farsi rieleggere in
deroga alla Costituzione. Deluso e risentito, Ibargüengoitia approdò così alla
narrativa, da lui definita
“il mezzo di comunicazione più adatto a un asociale come me: […] nel commercio
librario non esiste nulla di paragonabile a quelli che russano la sera della
prima”, e il suo fortunatissimo primo romanzo lo connotò immediatamente come
autore capace di una spietata riflessione sulla Storia patria, imbalsamata dal
discorso ufficiale e trasferita in testi scolastici magniloquenti o in romanzi
carichi di eroici stereotipi nazionalisti.
La critica dell’ambizione, dei tradimenti, dell’avidità e dell’opportunismo di “eroi” veri o presunti, reali o immaginari, condotta con gli strumenti di un perfido e
intelligentissimo humor nero (che era poi un modo di essere e di vedere la
realtà, senza per questo banalizzarla o sminuirla) è infatti uno degli assi
portanti di almeno tre dei testi di Ibargüengoitia:
quello del debutto (I lampi di agosto del 1965, edito in italiano da Sellerio),
ispirato alle memorie spesso cialtronesche dei generali rivoluzionari, lo
straordinario Los pasos de Lopez del
1981, che ammicca alla commedia
e all’opera buffa, e Ammazzate il leone, in cui riprende il tema dell’assassinio
di Obregón,
avvenuto proprio alla vigilia della nascita di Ibargüengoitia, in piena guerra cristera.
Chi conosce la storia del Messico
non potrà fare a meno di individuare in quest’ultimo romanzo precisi
riferimenti agli attentati subiti da Obregón
tra il 1927 e il 1928, in un clima di feroce contrapposizione tra il governo e la
Chiesa con il suo braccio armato, la Lega per la Difesa della Libertà Religiosa.
I tre falliti tentativi di uccidere il crudele e astuto Belaunzarán (“una volta bello, ma invecchiato dagli
anni, dai grattacapi dello statista, dalle donne e dai litri di cognac Martell
scolati in vent’anni di potere”) da
parte di una borghesia stolida, incapace e attenta solo ai propri privilegi,
corrispondono quasi esattamente a contro il presidente messicano, ma vengono qui
trasformati in una sorta di esilarante “comica” cui contribuiscono bombe mal
confezionate nascoste nello sciacquone del bagno e aghi avvelenati da piantare,
durante un fox-trot, nel corpaccione del tiranno. E non c’è dubbio che Belaunzarán
e Obregón, come i loro opachi gregari Cardona
e Callés (poi fondatore del PRI, il Partido Revolucionario Institucional), si
rassomiglino molto, mentre il partito moderato ricorda il PAN (Partido Acción Nacional), dichiaratamente di destra.
Tra oppositori fucilati, suicidi per
amore, cadaveri in ghette e marsina catturati da una rete colma di pesci
moribondi, prestanti eroi che atterrano sull’isola con un biplano personale ma poi
devono squagliarsela su una barchetta a remi, cinici ambasciatori stranieri, parlamenti
fantoccio e martiri involontari, la trama non concede un attimo di tregua,
offre infinite occasioni di amaro divertimento ed espone i fatti con un’oggettività sottolineata dall’uso
del presente indicativo e da una prosa senza fronzoli, fondata su frasi brevi e
secche, che consente di osservare i personaggi e il loro agire senza la
mediazione di un narratore onnisciente, perché l’autore ne ignora con
ostentazione pensieri ed emozioni e si limita ad esporre ciò che dicono o fanno.
Ibargüengoitia conduce con mano
ferma la sarabanda, tirando i fili al momento giusto, disegnando una serie di
riuscitissimi ritratti individuali in seno a quello che potremmo definire un
romanzo corale ed evocando gesti, espressioni e ambienti con dettagli minimi e
irresistibili. Da pessimista senza illusioni, che riesce a venir fuori da certi
abissi solo grazie al senso dell’umorismo, parla indubbiamente del Messico e
dell’America latina tutta, con i suoi eterni caudillos sospesi fra
tragedia e grottesco, e tuttavia Ammazzate il leone, grazie anche all’ambientazione
in un “mondo fuori del mondo” e a certe invincibili costanti dei regimi
autoritari, concede al lettore la possibilità di prescindere da una lettura in
chiave di storia nazionale e gli assegna una così ampia libertà interpretativa
da rendere il testo incredibilmente contemporaneo, in un mondo in cui, a ogni latitudine,
i Belaunzarán continuano non solo a
esistere, ma a prosperare.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel gennaio del 2022