Adrián N. Bravi |
Fiumi rossi, verdi foreste
Nella produzione narrativa di Adrián N. Bravi – nato a Buenos Aires nel 1963 e tornato da
più di trent’anni nelle Marche, luogo d’origine dei nonni migranti – ci sono
almeno due storie legate all’intemperanza di un fiume: Río Sucre, testo d’esordio in lingua
spagnola, e L’inondazione (Nottetempo, 2015), scritto nel vivace italiano
che l’autore ha definitivamente adottato. Quasi a chiudere un cerchio, anche il
suo decimo romanzo (Verde Eldorado, appena uscito per Nutrimenti, pp. 169,
e. 17), è attraversato da fiumi latinoamericani che trascinano con sé infinite leggende
e la memoria di vicende sanguinose, mentre, allontanandosi solo in parte dall’ironia
amabile e stralunata delle opere precedenti, Bravi affronta allo stesso tempo un
viaggio nel passato e nell’immenso bacino del Río
de la Plata, formato dal confluire di corsi d’acqua grandi e piccoli.
Proprio come fiumi che si riversano
uno nell’altro, anche in Verde Eldorado si fondono correnti diverse, dando vita
a una trama di ricchissima intertestualità in cui le suggestioni e le tracce si
ricorrono. In trasparenza, ci vengono offerti rimandi alla storiografia della
Conquista, ai resoconti degli antichi cronisti, a miti fondativi come quello
dei cautivos – i bianchi rapiti dai
nativi, un tema che ha connotato le origini della letteratura argentina –, a romanzi
di viaggio o d’avventura, nonché a opere eccezionali come L’Arcano di
Juan José Saer (La Nuova Frontiera, 2015), che narra con stile inimitabile la
storia di Francisco del Puerto, mozzo della prima spedizione spagnola lungo il Río de la Plata, guidata nel 1516 da
Juan Díaz de
Solís. Ed è dal
destino di Francisco, personaggio realmente esistito, che prende spunto il
testo di Bravi, in continuo dialogo con quello di Saer dal quale, tuttavia, si
discosta profondamente, pur adottando l’escamotage della cronaca scritta in
prima persona da un cautivo.
Protagonista è il veneziano Ugolino,
sfigurato da un incendio e imbarcato su una nave al comando di Sebastiano
Caboto, informato dall’ex mozzo Francisco (a lungo prigioniero degli indigeni
che hanno ucciso e divorato i suoi compagni)
dell’esistenza di una città tutta d’oro e d’argento a monte del grande fiume, e
deciso a raggiungerla nonostante la sua missione ufficiale sia quella di
trovare una rotta verso le isole Molucche e le loro “spezierie”. Ugolino è un
cronista riluttante, spedito a forza nel Nuovo Mondo da un padre che non vuole
più avere sotto gli occhi la sua deformità: eppure saranno proprio mutilazioni
e cicatrici a garantirgli la salvezza, quando una bellicosa tribù lo cattura
sulle rive del Rio Bermejo insieme ad altri marinai, subito squartati e
arrostiti. Agli occhi degli indios, infatti, le cicatrici delle ustioni lo
rendono una creatura quasi soprannaturale, toccata e poi risparmiata dagli
spiriti del fuoco.
Nel villaggio che lo ha premurosamente
adottato, il giovanissimo Ugolino scopre di non doversi più nascondere sotto un
cappuccio, ora che il suo volto viene visto come una maschera sacra degna di
rispetto collettivo e dell’amore di una ragazza che lui chiamerà Giorgina. Anche
se il trauma delle scene di cannibalismo cui ha assistito lo accompagnerà a
lungo, l’incontro con la tribù gli regalerà una rinascita e un nuovo nome,
finché il maturare di un vero e proprio “meticciato spirituale” lo indurrà a
rifiutare il ritorno in patria su una nave carica di schiavi.
In quello che a tratti appare come
un autentico romanzo di formazione, Ugolino osserva e riflette su di sé e sulla
realtà che lo circonda, riuscendo lentamente a scoprire, comprendere e
accettare una nuova vita, mentre il rapporto con l’alterità estrema della tribù
è reso più profondo e significativo dalla sua natura di outsider “mostruoso”, che
solo grazie allo sguardo sereno degli indigeni trova finalmente un posto nel
mondo.
Immaginoso come una delle antiche mappe
e stampe che offrivano fantasiose rappresentazioni del nuovo mondo, Verde
Eldorado non è da considerare un romanzo storico, non mostra intenzioni
etnografiche, non scivola nel pittoresco e neppure si lancia in una romantica difesa
del “buon selvaggio”. Avventurandosi nella reinvenzione di un mondo perduto, esibisce
invece una coloritura onirica, quasi fiabesca, ma non trascura di opporsi agli
stereotipi o di sovvertirli, mentre ci parla coerentemente della possibilità (o
forse della necessità) di identità ibride e plurali, e ribadisce, contro la
sopraffazione e il possesso, la fondamentale importanza di una costante meraviglia.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di giugno 2022