Pilar Quintana |
Là dove la selva è inesorabile
Montagne, ricche miniere,
innumerevoli corsi d’acqua, foreste che si affacciano sull’oceano, un clima umido e tempestoso connotato da piogge
incessanti, una popolazione composta in buona parte dai discendenti dei popoli
originari e degli schiavi africani: ecco el Pacífico, la
“Colombia dimenticata” del sud-ovest, con i suoi dipartimenti – Cauca e Valle
del Cauca – segnati dalla violenza, dalla discriminazione, ma anche da lotte e rivolte che datano
dall’epoca coloniale e che non si sono mai fermate (da un paesetto del Cauca, non a
caso, viene Francia Márquez,
protagonista di grandi battaglie ambientaliste, nuova vicepresidente della
Repubblica colombiana e simbolo delle speranze di un territorio in cui si
registra il più alto livello di povertà della
nazione).
Proprio in un villaggio caucano, avvolto da una natura
sovrabbondante e minacciosa, è ambientato La cagna (pp. 110, e. 16,15,
traduzione di Pino Cacucci) di Pilar Quintana, che dà inizio al nuovo corso di
un marchio glorioso come La Tartaruga, fondato da Laura Lepetit nel 1975, acquistato
qualche anno fa da La Nave di Teseo e ora affidato a Claudia Durastanti.
Con questo suo romanzo breve e bellissimo, Quintana
(nata a Cali nel 1972 e autrice di cinque romanzi e una raccolta di racconti, che
hanno collezionato premi importanti e numerose traduzioni) aggiunge un prezioso tassello alla
letteratura sul Pacifico colombiano, poco o nulla esplorata dall’editoria
italiana nonostante includa opere notevoli come Las estrellas son negras, capolavoro ormai classico di Arnaldo
Palacios, o i più recenti e pregevoli El
fin del Océano Pacífico di Tomás González ed Elástico de sombra di Juan Cárdenas. Allontanandosi
dal contesto urbano e borghese che caratterizza la sua narrativa, l’autrice
torna infatti alla costa del Cauca, dove è vissuta
per quasi un decennio in una casa tra la foresta e l’oceano, affacciata su una
caletta da attraversare in canoa, o con i piedi nel fango durante la bassa
marea: un percorso identico a quello che compie ogni giorno la protagonista di La
cagna, Damaris, per raggiungere il villaggio più vicino.
Difficile immaginare un luogo che esprima con più
immediatezza la solitudine e l’abbandono collettivi, ma anche quelli più
individuali e privati, perché Damaris è stata prima una figlia che il padre non
ha riconosciuto e che la madre ha affidato ad altri per poter lavorare in
città, poi una bambina che il mare ha privato del suo compagno di giochi, quindi
una ragazzina che una pallottola vagante ha reso orfana, e adesso è una donna inquieta
e goffa, sposata a un uomo sempre assente. La solitudine più dolorosa, tuttavia,
le viene inflitta dal suo stesso corpo, che le nega la possibilità di generare:
una delusione cocente, a un tratto alleviata dall’adozione di una cagnetta partorita
da poco e rimasta orfana.
I monotoni doveri della quotidianità di Damaris si
riorganizzano così intorno a una creatura che dipende completamente da lei, un
oggetto d’amore da accudire per sentirsi meno fuori luogo, meno sbagliata. Una volta cresciuta, però, la cagna
dà inizio a una serie di fughe e di ritorni, mette al mondo una cucciolata che lascia
morire e scatena così un rancore e una furia crescenti, che indurranno la “madre”
putativa a un gesto estremo e a una delirante fuga nella selva, da cui forse
non farà più ritorno. A inseguirla non è solo il senso di colpa per il simbolico
figlicidio appena commesso, ma anche la somma delle amarezze accumulate sin
dall’infanzia, e soprattutto la profonda vergogna per la propria incapacità di
assolvere alla funzione materna, imposta come primaria e “naturale” dal
discorso egemonico. Una pressione che Damaris non riesce a sostenere, e alla
quale corrisponde specularmente quella da lei esercitata sulla cagna, figlia surrogata
che, invece di restarle accanto, obbedisce al proprio istinto.
Entrambe, ciascuna a suo modo, sembrano
interrogarci sul lato oscuro della maternità, ed entrambe esprimono un’inconsapevole
ribellione: la cagna rifiuta di lasciarsi umanizzare e afferma la propria
animalità attraverso lunghe scorribande e l’abbandono dei cuccioli, mentre la
donna, dopo aver tentato per tutta la vita di aderire alle norme del
patriarcato, le rinnega con un unico gesto selvaggio e si avvia verso la sola via
d’uscita che le appare praticabile, lasciandosi inghiottire dalla fitta
vegetazione, “là dove la selva era inesorabile”.
La terza e spietata figura materna
è proprio la foresta, personaggio a pieno titolo che assedia e condiziona non
soltanto la sorte, ma le relazioni, i pensieri, i gesti, i sogni degli esseri
umani, e che insieme al mare e al clima compone una triade divoratrice, pronta a
sequestrare e annientare chi si distrae per un istante, come accade al bambino Nicolasito,
villeggiante di città rapito da un’onda gigantesca mentre giocava con Damaris: una
sorta di una vendetta della natura per l’intrusione dei ricchi vacanzieri che costruiscono
case lussuose, abusando sia del paesaggio sia della gente del luogo, manodopera
pagata poco o nulla.
Se la maternità, le sue tenebre e
le leggi non scritte che continuano a definire una femminilità “utile” e
produttiva, sono temi portanti di La cagna (e anche dell’ultimo romanzo
di Quintana, Los abismos), risulta inevitabile
sottolineare altre chiavi di lettura che avvicinano il romanzo alle ferocissime
storie della selva di Horacio Quiroga e ai suoi personaggi sopraffatti da un
ambiente naturale ostile e invincibile. Non è difficile, inoltre, cogliere
dietro alla semplice e scarna storia di Damaris anche un accenno a quella della
regione in cui si svolge: la costante presenza di uomini armati (il padre della
protagonista è uno dei tanti soldati che dagli anni ’60 in poi hanno presidiato
la zona), il passaggio di mano delle terre, l’enorme divario tra la povertà
assoluta degli afro-colombiani e i bianchi che possiedono e sfruttano le
risorse locali, la precarietà di esistenze in cui tutto può disfarsi e
imputridire da un momento all’altro.
Votata a una densissima brevità e a
un realismo nitido, quasi fotografico, Quintana affida a un narratore in terza
persona, spassionato e preciso, il racconto di vite rassegnate, di corpi
condannati, di una violenza costante; la sua scrittura concreta e disadorna
amministra con misura il ritmo e la tensione narrativa, mentre dipana senza
sbavature né retorica il filo di una vicenda dal sapore arcaico e universale, che
viene spontaneo associare alla tragica Yerma di García
Lorca (un rimando sottolineato dalla critica come dall’autrice). Senza mai
cedere alla facile
tentazione dell’esotismo e del colore locale, la scrittrice colombiana ci restituisce l’immagine di un
tropico crudele quanto suggestivo, e, con ammirevole economia di mezzi, dà
spazio a silenzi carichi di significato, in un testo che si affida
magistralmente al non detto.
Nel novembre del 2017 quarantadue
scrittrici colombiane pubblicarono una sorta di manifesto intitolato Colombia tiene escritoras, in cui
protestavano perché l’evento che avrebbe concluso le attività culturali dell’Anno Francia-Colombia (dedicato a un programma di conoscenza reciproca e
cooperazione tra i due paesi) prevedeva la partecipazione di dieci autori più o
meno noti, ma sempre e comunque uomini, quasi che, nonostante l’esistenza di un
consistente numero di nomi femminili importanti, la letteratura colombiana si
riducesse a un club esclusivamente maschile. Alla diffusione del manifesto seguirono polemiche animate e non inutili,
visto che nel giro di qualche anno la Biblioteca Nacional de Colombia, in
collaborazione con alcune case editrici indipendenti, ha dato il via alla
Biblioteca de Escritoras Colombianas: diciotto volumi disponibili a partire dal
giugno del 2022 in tutte le biblioteche pubbliche e in un’ottantina di librerie,
così da recuperare e promuovere opere di autrici nate nel corso degli ultimi
tre secoli, che la storia ufficiale della letteratura ha ignorato o relegato ai
margini, ma che consentono “di ripensare la letteratura e la condizione delle donne nel panorama
colombiano”. E a ideare un progetto così ambizioso e significativo è stata
Pilar Quintana, firmataria a suo tempo del manifesto del 2017, che ne ha curato
nei minimi dettagli la realizzazione.