Roberto Arlt |
Lo scrittore nel bosco di mattoni
Scoperto tardivamente dalla nostra
editoria, Roberto Arlt è un autore il cui nome è diventato familiare ai lettori
italiani in anni recenti, quando alle traduzioni dei suoi romanzi più
importanti (Il giocattolo rabbioso, I sette pazzi, I
lanciafiamme), già in circolazione dagli anni ’70, si sono aggiunte quelle
dei racconti, di un quarto e ultimo romanzo a lungo trascurato (L’amore
stregone), di parte delle celebri Acqueforti apparse soprattutto sul
quotidiano El Mundo, e perfino di alcune brevi pièce teatrali. Un ampio arco di
titoli, dunque, offerti a un pubblico che si suppone al tempo stesso esigente,
curioso e non ignaro dell’importanza di uno scrittore definito da César Aira «il
più grande romanziere argentino».
Nonostante il successo che l’aveva
accompagnato in vita, dopo la morte avvenuta a soli quarantadue anni, su Arlt
calò tuttavia un quasi assoluto silenzio, finché a partire dalla metà degli
anni Cinquanta un’agguerrita pattuglia di studiosi prese a rileggerlo in chiavi
nuove e diverse, conferendogli una posizione centrale che nessuno mette più in
discussione. anche se Ricardo Piglia (il suo esegeta più attento ed entusiasta)
afferma in Critica e Finzione che Arlt mantiene ancora «il sigillo dell’illegittimità»
dovuto al suo rapporto conflittuale con la cultura dominante e alla provenienza
da un limbo decentrato e marginale.
Tra coloro che hanno contribuito a riportare
in primo piano un autore così radicale, dando il via a una valanga di studi e
analisi critiche, c’è indubbiamente Sylvia Saitta, ordinaria di Letteratura all’Università
di Buenos Aires, che non solo ha curato diverse edizioni degli inediti di Arlt
e ha scritto diversi saggi su di lui, ma è anche autrice della sua più
importante biografia, finalmente disponibile in Italia (sia pure a più di vent’anni
dalla prima edizione argentina) grazie ai traduttori Marino Magliani e Riccardo
Ferrazzi che l’hanno proposta a Miraggi Edizioni.
Arlt. Lo scrittore nel bosco di
mattoni. Una biografia
(pp. 262, e. 18) è un testo documentatissimo e avvincente, nel cui prologo
Saitta dichiara che il testimone meno affidabile, per il biografo, è stato
proprio il biografato, incline a mentire e a fornire su di sé dati erronei e
contraddittori, al fine di costruirsi una figura pubblica da ribelle
misconosciuto e messo al bando dai suoi pari e dalla critica. Un’immagine, nota
Saitta, «corretta e smitizzata dalla sua forte visibilità nei giornali e nelle
riviste dell’epoca e dal pronto riconoscimento di altri scrittori», nonostante
la prolungata ostilità dell’influentissimo gruppo riunito intorno alla rivista
Sur e la condiscendenza che traspare dall’omaggio di alcuni colleghi illustri.
Proveniente da una classe sociale di scarse risorse economiche,
autodidatta nutrito di letture eterogenee (da Ponson du Terrail agli almanacchi
e alle dispense scientifiche, fino ai grandi scrittori europei), con le sue modeste
menzogne Arlt sembrava sottolineare il difficile accesso alla letteratura da
parte di chi non poteva vantare né la preparazione culturale né la solida
tradizione familiare delle élites, e al loro posto esibiva un solido orgoglio
proletario.
Nonostante la parziale reinvenzione di sé, sappiamo comunque con certezza che
era figlio di immigrati (il capofamiglia Karl, violento e autoritario, veniva da
Poznan, e la madre Ekatherine
Ibstraibitzer da
Trieste), che la difficile situazione della famiglia lo aveva costretto ad abbandonare
precocemente la scuola e a guadagnarsi la vita sin dall’adolescenza, per poi iniziare
una carriera da giornalista che gli garantì una considerevole notorietà grazie
alle leggendarie Acqueforti, brevi cronache in cui affrontava e commentava
vita e costumi di Buenos Aires (ma anche le ingiustizie, la corruzione e i vizi
della politica), apprezzatissime da quel comune lettore cui apertamente si
rivolgevano.
Saitta espone in dettaglio queste e
altre vicende: i viaggi in qualità di inviato (immortalati in altre Acqueforti)
tanto in America latina che in Spagna e in Nordafrica; l’infelice matrimonio
con la figlia di danarosi bottegai italiani, Carmen Antinucci («Lei e i suoi
genitori non hanno mai saputo parlare se non di soldi, sempre di soldi. Quella
donna non sa cosa siano i sentimenti. Ha un cuore di pietra…», scrive Arlt alla
sorella); le seconde e turbolente nozze con la redattrice editoriale Elizabeth
Shine, donna indipendente ed emancipata; la fallimentare attività di inventore
dilettante («Non sono uno scrittore che inventa, sono un inventore che scrive»),
attribuita anche ai suoi personaggi (l’Erdosain di I sette pazzi o il
Silvio Astier di Il giocattolo rabbioso), decisi come il loro creatore a
ideare e fabbricare qualcosa che li renderà ricchi una volta per tutte.
Facendo ricorso a fonti di prima
mano, oltre che a un’attenta ricerca d’archivio, Saitta ha il merito di
inquadrare il dato biografico in un grande affresco della società argentina del
tempo e delle sue tensioni culturali e politiche, restituendoci «una figura
nuova di intellettuale, prodotto della massificazione e della
commercializzazione della stampa e della letteratura» favorite da nuove
conquiste tecniche, che non ignora le sollecitazioni del mercato ma sa anche
governarle, in quanto partecipe e interprete del processo di modernizzazione in
corso.
Arlt, scrittore eminentemente
urbano che saprà allargare i suoi orizzonti al resto del mondo, nei romanzi e
nelle cronache dà conto di una babelica metropoli invasa da una nuova
popolazione di immigrati, con una nuova estetica e un nuovo immaginario. E,
ovviamente, nuovi conflitti ideologici e di classe, cui lo scrittore fu
spasmodicamente attento, tanto da collaborare a due riviste legate al Partito
Comunista e a partecipare alla nascita della Unión de Escritores Proletarios, i
cui obiettivi erano la difesa dell’Unione Sovietica e la lotta contro il
fascismo.
Una militanza entusiasta quanto
breve, che indusse Raúl Larra, comunista e autore nel 1950 della prima
biografia arltiana, ad affermare «Arlt è dei nostri!», senza coglierne il
carattere rivoltoso e anarchico. Saitta, che ne è ben consapevole, disegna invece
con chiarezza l’ondivago percorso politico di Arlt, animato da un’indubbia
coscienza di classe e sempre dalla parte degli sfruttati, ma insofferente alle direttive
di partito e nemico del realismo socialista.
Stabilendo un continuo e fitto
dialogo tra una vita breve e tumultuosa e un’opera multiforme (il ciclo dei
romanzi, inaugurato nel 1926 e concluso nel 1932, i racconti, i copioni legati
al Teatro del Pueblo fondato da Leónidas
Barletta e infine l’enorme produzione giornalistica, sempre connotata da indubbia
qualità letteraria), la biografa mette in luce la straordinaria novità dei
temi, dello stile e della lingua di Arlt, irregolare e composita, con un
fraseggio definito da Piglia «ibrido e in ebollizione», che da più parti gli
guadagnò l’accusa di scrivere male (si vedano in proposito le condiscendenti
osservazioni di Cortázar nel
prologo a I sette pazzi), là dove si opponeva frontalmente e per scelta «alla
norma piccolo borghese dell’ipercorrezione che serviva a definire lo stile medio»,
annunciando il linguaggio di avanguardie future. E proprio come «uno storico
del futuro» (sempre in parole di Piglia) ci appare oggi Arlt, le cui opere e la
cui figura sono più che mai capaci di parlare del presente, con indiscutibile e
visionaria potenza.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel luglio del 2022