L’Ebro, storie vere che sembrano leggenda
Due colossali pinnacoli d’acciaio
poggiano sull’unico pilastro di un ponte ormai distrutto, che ancora emerge al
centro del fiume. In cima al più alto, la figura bronzea di un soldato sostiene
una stella, mentre il più basso è coronato da un’aquila in volo, i cui artigli
hanno a lungo sorretto un emblema franchista eliminato nel 1986, insieme alle
iscrizioni inneggianti al Caudillo. E dal 2008 è sparita anche la targa che
ricordava alla cittadina catalana di Tortosa l’inaugurazione del monumento,
onorata nel 1964 dalla presenza del Generalissimo.
Una volta asportati i più evidenti
simboli della dittatura, e sorvolando su un’origine e un’estetica marcatamente fasciste,
chi legga la superstite scritta sulla base (“Ai combattenti che trovarono
gloria nella Battaglia dell’Ebro”) potrebbe forse convincersi che si tratti di
un omaggio ai caduti di entrambe le parti. Non sono in pochi, tuttavia, a
nutrire la speranza che la collera dell’Ebro – l’antico e bellicoso Hiberus,
noto per la violenza delle sue piene – prima o poi faccia giustizia del mostro
di metallo collocato, a gloria del regime, nel cuore d’acqua di una città
semidistrutta dalle bombe di Franco.
L’Ebro, che attraversa la Spagna da
nord a sud per quasi mille chilometri, nel corso dei secoli ha assistito (e in
certo senso partecipato) alle guerre puniche e a quelle fra Pompeo e Cesare,
che lo cita più volte nel De Bello Civili, ai saccheggi dei vichinghi
che lo risalirono nel IX secolo, alla cacciata dei “mori” per mano dell’aragonese
Alfonso El Batallador, alla pax dei
Templari, alle guerre napoleoniche e carliste, ed è stato di volta in volta
confine naturale, ostacolo o via di comunicazione, fonte di benessere o di
rovina. Se ancora oggi è circondato da un’aura mitica, però, lo si deve alla
battaglia combattuta nel 1938 tra l’esercito repubblicano, che lo aveva
attraversato in una notte di fine luglio (El Ejército del Ebro/una noche el río pasó, ripete la più famosa canzone della guerra civile), e
i franchisti già vicini alla vittoria definitiva, ma bloccati lungo il fiume
per quattro lunghi mesi da un avversario male armato e quasi privo di risorse,
che sperava nell’aiuto di una corrente tumultuosa e infida.
Per conoscere la Storia e le storie
di quella battaglia si può attingere a una considerevole quantità di studi che,
a ottantatré anni di distanza, continuano ad arricchirsi grazie a nuove
riflessioni e scoperte, cui si aggiungono la
ricchissima fioritura di memorie dei sopravvissuti o le biografie di quanti
hanno perso la vita lungo le rive dell’ Ebro: gli uomini chiamati a difendere
la Repubblica sin dal 1936, i ragazzini della Quinta del Biberón
(così battezzata dall’anarchica Federica Montseny, che non poté trattenersi
dall’esclamare: «Diciassette anni? Ma se ancora hanno bisogno del biberon!»),
le reclute quasi anziane della Quinta del Saco. E poi i volontari delle Brigate
Internazionali, migliaia di uomini e donne provenienti da più di cinquanta
paesi
che, scrive Ignacio Echeverría nella prefazione a Sois Historia, Sois Leyenda, un
recente libretto del giornalista Miguel De Luca (Contexto, 2022), «rischiarono
la vita in cambio di niente, e lo fecero per un popolo composto in buona parte
da contadini e operai ai quali nulla li legava. Si dirà che questo è un modo
assai romantico di esporre la cosa, e in effetti è così. Queste pagine sono
piene di romanticismo, perché in definitiva disegnano una leggenda. Una leggenda
romantica».
Dall’Ebro e dall’ultimo
tratto del suo corso impetuoso, tra Aragona e Catalogna, di storie vere che
sembrano leggenda ne sono germogliate e sbocciate un’infinità, come quelle
raccolte in Ebro 1938.
No pasarán. I garibaldini caduti nella battaglia dell’Ebro, edito nel
2011 dall’Aicvas (Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti in
Spagna), con un saggio introduttivo di Marco Puppini e un testo scritto nel
1939 da Alessandro Vaia della Brigata Garibaldi. Volontari diversi dagli altri,
gli italiani, perché come i compagni tedeschi combatterono una propria guerra
civile all’interno di quella spagnola: dall’altra parte, infatti, c’erano anche
le truppe di Hitler e Mussolini, compresi gli aviatori che intorno al fiume
bombardarono senza sosta postazioni repubblicane, paesi e imbarcazioni.
Autentica è anche
la storia di Manuel Mena, zio materno di Javier Cercas: un volontario
franchista di diciannove anni, morto sull’Ebro e diventato così un eroe per la
famiglia, ma non per il nipote, che in Il signore delle ombre (Guanda,
2017) indaga su di lui e si interroga su di sé e sulla Spagna intera.
Anche Arturo Pérez
Reverte, ex corrispondente di
guerra da anni riconvertito in scrittore superventas,
ha aggiunto un romanzo fluviale (l’aggettivo è d’obbligo) alla già
imponente mole di opere letterarie sulla Battaglia dell’Ebro: Línea de
fuego (Alfaguara, 2020), settecento
pagine stroncate su El País
da Jordi Gracia, che sottolinea come il testo sappia di equidistanza, più che
di equanimità, e riduca a quasi
niente «i motivi legittimi che giustificano quella guerra. Perché è vero, la
guerra è un orrore, ma è anche “la lotta del bene contro il male”, almeno a
partire dal momento in cui Franco organizza un colpo di stato contro la Repubblica».
Curiosamente, il romanzo di Pérez Reverte si svolge tra Mequinensa e Fayón, nel medesimo scenario che fa da sfondo all’opera di un autore poco noto in Italia, Jesús Moncada, nato nel 1941 proprio a Mequinensa e scomparso nel 2005. Teatro di combattimenti asprissimi, i due paesi facevano parte della Franja de Aragón, la striscia di territorio aragonese cui fa da confine meridionale un Ebro ingrossato dalla confluenza con il Segre, che secondo i repubblicani avrebbe dovuto rappresentare un ulteriore ostacolo alla conquista della Catalogna da parte dei fascisti.
Nella Franja si parla catalano, idioma che il franchismo aveva espulso dalle scuole e che per Moncada, come per i suoi conterranei cresciuti durante la dittatura, era la lingua in cui pensava e parlava, ma non quella in cui scriveva, finché Pere Calders (grande scrittore e umorista per anni esiliato in Messico) lo incoraggiò a servirsene. Ed è in un catalano limpidissimo che Moncada ha fatto dell’Ebro e di Mequinensa i veri protagonisti dei suoi tre romanzi e di altrettante antologie di racconti, e in particolare di Camì de Sirga (Il testamento dei fiumi, gran vía, 2014): un libro che non è azzardato definire straordinario nella forma come nel contenuto, e che fonde un irresistibile umorismo con la poesia, l’elegia con la memoria, l’amarezza con l’ironia, indugiando a ogni pagina sulla luce che gioca con l’acqua, sulle voci e i colori del fiume, sul modo in cui riflette e condiziona pensieri, azioni e sentimenti umani.
Abitato da centinaia di personaggi e composto da altrettante microstorie che confluiscono in un’unica e polifonica vicenda, il romanzo ha inizio nel 1971, con un fragore simile a quello dei bombardamenti e con il suono lacerante della stessa sirena che li annunciava in tempo di guerra, ma che ora accompagna la demolizione della “vecchia” Mequinensa, sacrificata alla costruzione della diga di Ribarroja e sommersa insieme alla vicina Fayón, che regala all’Ebro un altro monumento emergente dalle acque, un’impavida torre campanaria.
Un romanzo sul dopoguerra, quindi? Non proprio, perché in un continuo andare e venire tra presente e passato, Moncada racconta e trasfigura un secolo e mezzo di storia del suo paese di minatori e naviganti, isola operaia in un mondo rurale, e lo fa attraverso i ricordi individuali (gli amori, i tradimenti, le burle) e le inarrestabili fabulazioni collettive (le lotte dei minatori, le avventure dei barcaioli, le guerre antiche e nuove, la brutale e ridicola stupidità del regime, la costante e ineludibile eco dell’ultima battaglia repubblicana, dei campi di concentramento, dell’esilio e del maquis), il tutto accompagnato dal fluire della corrente, dal via vai dei llauts – le imbarcazioni tradizionali, cariche di carbone all’andata e di riso al ritorno –, dai passi cadenzati lungo le alzaie dove uomini e animali trascinano gli scafi per mezzo della sirga, la grossa corda da traino. Un mondo perduto, che la diga ha cancellato e al quale Moncada ridà vita.
È fin troppo facile vedere nella Mequinensa di Moncada, inghiottita in nome del “progresso” dall’acqua che per secoli le è passata accanto (a volte minacciandola, ma consentendole sempre di darle del tu), una metafora della perduta libertà e dello spirito repubblicano, perché lo sfondo sociale e politico del romanzo è inequivocabile e la memoria del paese si muove in parallelo a quella di una nazione intera. Ma Moncada non si riteneva uno storico né nutriva intenzioni didattiche o ideologiche: era prima di ogni altra cosa un narratore e voleva soprattutto raccontare storie, con lo stesso ritmo ipnotico e il medesimo procedere sinuoso dell’Ebro in cui nuotava da bambino.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2022