Diamela Eltit |
Errante, erratica
Quando
il Salone del Libro di Torino scelse il Cile come paese ospite per l’edizione
del 2013, il Presidente della Repubblica cilena era Sebastián
Piñera, ricchissimo imprenditore e fratello del Ministro del Lavoro di
Pinochet, uno dei principali responsabili della full immersion nel neoliberismo teorizzata da Milton Friedman.
Della delegazione ufficiale di scrittori, poeti e studiosi designati a
rappresentare la letteratura nazionale avrebbe dovuto far parte anche Diamela
Eltit, che tuttavia rifiutò l’invito formulato da un governo «percorso da
segni, tracce, conseguenze della passata dittatura», aggiungendo: «Come
abitante dell’inxilio (cioè l’esilio
interiore) di quegli anni, ho un rapporto traumatico e irreversibile con quel
periodo e non posso smettere di evocare l’adesione della destra cilena al
momento storico più distruttivo del XX secolo».
Era in uscita,
proprio in quei giorni, la prima traduzione italiana di un suo romanzo (Imposto
alla carne, Atmosphere), che Eltit scelse di non presentare al Salone non
solo per ragioni squisitamente politiche, ma anche perché convinta che i libri «viaggiano
da soli», in attesa di «quell’incontro casuale che distingue la lettura». Il
rifiuto, dunque, si estendeva anche a quella che il mercato editoriale ritiene
ormai una necessità imprescindibile, ovvero l’esibizione illimitata del corpo
dello scrittore, spinto a farsi personaggio e a presentarsi al pubblico «con il
libro tra le braccia, per chiedere che lo leggano».
Alla luce di questi
consapevoli “no”, tanto più interessante appare oggi la presenza di Eltit al
Festival di Mantova e, pochi giorni dopo, all’Università di Milano e all’Istituto
italo-latinoamericano di Roma: un breve tour che non ha caratteristiche
promozionali, ma piuttosto quelle di una presa di contatto, di un “fare
conoscenza” (in tutte le accezioni del termine) con una delle più importanti,
rigorose e poliedriche intellettuali dell’America latina contemporanea, che
negli ultimi anni ha ricevuto premi di grandi prestigio e ha visto crescere la
già notevole mole di studi critici sulla sua opera. Ancora poco nota da noi,
nonostante siano stati recentemente tradotti altri due dei suoi undici romanzi
(Mano d’opera, proposto da Alessandro Polidoro nel 2020, e Mai e poi
mai il fuoco, edito da gran vía
nel 2022), l’autrice arriva in Italia insieme a una raccolta di saggi scelti e
prefati da Laura Scarabelli, che ne ha curato la traduzione dopo essersi brillantemente
cimentata con quella della narrativa eltiana: Errante, erratica. Pensare il
limite tra letteratura, arte e politica, pubblicato da Mimesis (pp. 238, e.
20), un libro che pone domande, suggerisce punti di vista divergenti e insinua che,
nonostante la letteratura non possa cambiare il mondo, sia più che mai giusto
provarci, anche se per fallire gloriosamente nell’intento.
Nata a Santiago de Chile nel 1949
in una famiglia di origine palestinese, Eltit ha insegnato per lunghi anni in
scuole e università, in Cile e all’estero, e viene spesso considerata un’autrice
ermetica, sperimentale, di difficile comprensione; eppure, come fa notare lei
stessa in un’intervista, «la narrativa che rompe la linearità e lavora
sul linguaggio e la sua torsione» era una realtà da tempo consolidata – il
riferimento a Joyce e al neobarocco latinoamericano, da Lezama Lima a Severo Sarduy,
viene spontaneo –, quando apparve quasi clandestinamente Lumpérica (1983), il primo dei tre romanzi scritti durante la dittatura.
Da allora, Eltit ha continuato
a fare della sua prosa fratturata (una prosa che si fa immagine, che esplora i
margini, sonda gli interstizi del linguaggio, spinge il lettore a decifrare e
ricomporre il testo) uno spazio di resistenza e uno strumento di rivolta contro
l’ordine dominante, si tratti della dittatura o del neoliberismo puro e duro
che ha reso il Cile uno dei paesi latinoamericani in cui le disuguaglianze sono
più aspre e tenaci, per poi allargare il discorso a una realtà non solo
nazionale o latinoamericana, che ci coinvolge tutti. Concepita, dice
Scarabelli, «come un esercizio permanente di sincronizzazione con i principali
accadimenti che contrassegnano la contemporaneità̀, una corrispondenza che non
vuole catturare le “esigenze del tempo” ma le sue ombre», quella di Eltit è un’opera
in cui l’opzione estetica non prescinde mai da quella etica e politica,
lontanissima dalla «letteratura selfie» (la definizione è sua) favorita da una
cultura neoliberale che, fatte le debite eccezioni, raramente arriva a sfiorare
e indagare l’altro.
I saggi, brillantissimi
e limpidi, mostrano una evidente contiguità con i romanzi e utilizzano in altro
modo i medesimi materiali: il trauma della dittatura, il potere e il controllo,
l’alleanza tra Stato e mercato, la memoria e il suo uso, le sperequazioni
sociali ed economiche, le questioni di genere, la riduzione del cittadino a
consumatore, la maternità e le relazioni filiali, la relazione tra arte e
politica. Il tutto connotato dalla fondamentale presenza del corpo, oggetto di
dominazione e colonizzazione, strategicamente modellato dall’omologazione tra
biologia e cultura, tradizionalmente relegato alla prigione della dicotomia
maschile-femminile. Le quattro sezioni in cui è diviso il volume di saggi (Spettri
della dittatura; L’archivio e il testimone; Corpo, politica e
scrittura; Mercato e potere) sono attraversate da una lunga teoria
di corpi: da quelli vigili e inesorabili dei militari golpisti, ai cadaveri
torturati degli oppositori, ai lavoratori inchiodati alla precarietà e asserviti
«da un modo selvaggio di rinegoziare il capitale», e infine alle donne, la cui
corporeità resta un territorio ultrasorvegliato, fonte di lavoro sottopagato e
cura non remunerata, investimento redditizio per l’industria cosmetica,
riproduttiva e dell’intrattenimento (e al momento, va detto, per quella
editoriale).
La
centralità di questo corpo-segno rimanda (anche) all’attività di performacera in seno al CADA, il
Colectivo Acciones de Arte fondato da Eltit nel 1979 insieme al poeta Raúl
Zurita, agli artisti visuali Lotty Rosenfeld e Juan Castillo e al sociologo Fernando
Balcells, in un Cile culturalmente desertificato dalla censura e dell’esilio:
una minuscola comunità autoriale che interveniva a proprio rischio nello spazio
pubblico, documentando ogni cosa con video e foto. E,
nei saggi come nei romanzi e nelle “azioni” del Collettivo, l’attenzione
per il corpo si accompagna a quella per tutto ciò che esce da una normalità imposta e, per
il solo fatto di esistere, si oppone.
Un altro elemento di
interesse offerto al lettore di Errante, Erratica sta negli scritti in
cui l’autrice dispiega la propria concezione della letteratura, le
considerazioni sulla progressiva «estinzione del libro letterario» che a suo
parere ha connotato la seconda metà del ventesimo secolo e insieme la
rivendicazione del perpetuarsi, tra le pieghe del mercato, di sacche di
resistenza che, come i corpi dissidenti, si rivelano irriducibili, nonostante
tutto sia «programmato per livellare ogni forma di differenza». Né bisogna
dimenticare che, oggi, il libro di Eltit può anche rappresentare un peculiare punto
di partenza per la riflessione sul recentissimo no alla nuova costituzione, in
un Cile dove, nonostante tutto, Pinochet «è una macchina che non si spegne, una
macchina di distruzione e di abuso che si chiama Pinochet, in una delle sue identità̀
possibili», come scriveva l’autrice nel 2008. «Siamo sopravvissuti a uno dei
tanti Pinochet ma ne esistono degli altri e degli altri ancora, all’infinito.
Per questo non riposeremo in pace. Mai».
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2022