José Esteban Echeverría |
La vertigine della barbarie
Nonostante in passato non siano
mancate alcune traduzioni italiane, sono in pochi a conoscere un’opera capitale
della letteratura argentina, analizzata con estrema attenzione sia dalla
critica novecentesca che da quella più recente: la novella El matadero di José Esteban Echeverría, scritta fra il 1838 e il
1839, alla vigilia dell’esilio cui l’autore, seguace del Partito Unitario, fu
costretto in quanto oppositore di Juan Manuel de Rosas, capo dei Federali e
dittatore di un’Argentina ancora in formazione, travagliata da gravi contrasti
interni. Un libro da scoprire, appena riproposto da Elliot
(Il mattatoio, pp. 48, e. 6) nella
brillante traduzione di Carlo Alberto Montalto, autore anche della prefazione
che inquadra il contesto storico e sociale del racconto e informa sulla vita
breve e turbolenta del suo autore, morto a Montevideo nel 1851, a quarantacinque
anni.
Considerato uno dei fondamenti della moderna narrativa argentina, come tutti i classici anche Il
mattatoio offre risposte sempre nuove a sempre nuove domande, e secondo Martin Kohan continua a essere non solo letto, ma anche riscritto di
continuo, come se la letteratura nazionale “o buona parte di essa, fosse solo
una serie di variazioni sul testo di Echeverría”, a partire da La festa del mostro (firmato nel
1955 da Borges e Bioy Casares con lo pseudonimo di Honorio Bustos Domecq), o dal crudelissimo Il bambino
proletario di Osvaldo Lamborghini, che ne dilata all’estremo l’allegorica
crudezza.
Il racconto di Echeverría, dice
Ricardo Piglia, “è una storia della violenza argentina attraverso la finzione,
la ricostruzione di una trama dove si possono decifrare o immaginare le tracce
che lasciano nella letteratura i rapporti di potere, le forme della violenza”,
qui evidenti nello scontro tra i colti e liberali Unitari e
l’autoritario oscurantismo del governo Federale e della Chiesa sua complice e
alleata, ma visibili soprattutto nel selvaggio ritratto di una plebe sedotta
dal populismo ipocrita di Rosas: due mondi inconciliabili, espressione del
contrasto che qualche anno dopo verrà teorizzato da Domingo Faustino Sarmiento
in un altro testo fondativo (Facundo. Civiltà o
barbarie), e che, affrontato in modi diversi, affiorerà a
lungo nella cultura e nella politica argentine.
La trama – racchiusa in un unico giorno di Quaresima e in solo
ambiente, il mattatoio, assurto a simbolo dell’intera nazione – è
apparentemente semplice e si affida tanto al sarcasmo sferzante del narratore,
quanto alle descrizioni del mattatoio, sordido avamposto rurale alle soglie di
Buenos Aires, tra il fango e le pozze di sangue, i corpi squartati dei manzi
che Rosas ha offerto al popolo stremato da carestia e alluvioni, la brutalità
dei macellai, i pezzi di carne contesi da una turba umana e animale (cani,
topi, gabbiani, vecchie negre che nascondono tra i seni il grasso rubato o
sbrogliano gomitoli di budella). Un bambino viene casualmente decapitato da un
lazo, ma la sua morte è archiviata senza emozioni; un fierissimo toro tenta la
fuga e viene inesorabilmente abbattuto. E un giovane Unitario transita nei
pressi del mattatoio ed è subito catturato dai macellai, fanatici rosisti,
decisi a infliggergli una tortura che è poi uno stupro – la letteratura
argentina ha inizio con una violazione, scrive in proposito David Viñas –, al quale il ragazzo si sottrae
con una morte improvvisa, quasi un suicidio provocato dal furore, emettendo un
fiume di sangue come il toro appena ucciso (il parallelo tra uomini e animali è
continuo, a sottolineare la reciproca disumanizzazione degli avversari).
Si è molto discusso sul perché l’autore non volle pubblicare un testo
che ci appare perfetto, di rara intensità narrativa e ricco di immagini così
potenti da aver ispirato numerosi artisti, per esempio Carlos Alonso, autore
delle magnifiche illustrazioni di un’edizione del 1966, o Enrique Breccia, che
nel 1984 ha realizzato per la rivista Fierro uno splendido adattamento a
fumetti, pubblicato in Italia dalle Edizioni 001. Il
mattatoio emerse infatti dalle carte di
Echeverría solo a trent’anni dalla sua morte, grazie all’amico Juan María Gutierrez, come lui
membro della Generazione del ’37, i giovani letterati illuministi che tentarono
di delineare un progetto di nazione (toccò a Echeverría scriverne nel 1848 il
manifesto, noto come Dogma
Socialista). Secondo un’ipotesi consolidata fu proprio lui,
poeta cui si deve l’introduzione in Argentina del romanticismo europeo, a “nascondere”
l’opera, consapevole di quanto fosse estranea all’estetica del tempo e alla
volontà di creare un immaginario radicato nella realtà americana (il racconto
inizia con un ironico rifiuto della letteratura coloniale) e utile a esaltarne
gli aspetti più nobili e la possibilità di un luminoso futuro.
Il mattatoio, invece, rimanda a zone
marginali e oscure, mette in scena con involontaria ma palese fascinazione la
barbarie di un’alterità vertiginosa, si immerge senza remore in una violenza
che può sfociare solo nella morte, e restituisce infine un’oralità rozza e
vigorosa, una pluralità di voci fitta di localismi, assoluta novità stilistica
che lo sconcertato Gutierrez attribuisce alla “fretta” dell’autore. In poche pagine di una modernità che non
manca di sorprendere, Echeverría ricostruisce così l’immagine di un
paese intero e, come sottolinea Piglia, dimostra che “la
letteratura ha sempre un segno utopico e annuncia il futuro”.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2022