|
Lina Meruane |
Dal
cosmo al corpo
Racconta
Lina Meruane che quando cominciò a pubblicare, una ventina di anni fa, le
grandi scrittrici cilene della prima metà del novecento (mai riconosciute fino
in fondo, a parte l’icona quasi sacra del Nobel Gabriela Mistral) erano state “nascoste
sotto il tappeto”, mentre quelle della generazione successiva avevano dovuto
misurarsi con il cupo silenzio imposto dalla dittatura. Alle autrici nate alla
vigilia del golpe è toccato invece farsi largo in un contesto dove le donne
avevano ancora scarso spazio, riuscendo comunque a imporsi come punto di
riferimento per i lettori, per la critica e per la schiera di giovani e
giovanissime scrittrici latinoamericane oggi alla conquista di un successo
sempre crescente.
È
appunto tra queste “magnifiche cinquantenni” della letteratura cilena (tra le
altre, Nona Fernández e Alejandra Costamagna, note anche nel nostro paese) che
si colloca Meruane, la cui scrittura continua a evolversi in modo sorprendente
e a sperimentare stili e fraseggi nuovi, senza però distogliere lo sguardo dai
personaggi femminili e dai temi che da sempre sono al centro della sua
attenzione, in primo luogo quello della malattia, sostenuto da forti radici autobiografiche.
Da quando aveva sei anni, infatti, Meruane convive con una forma di diabete che
le ha danneggiato la vista (per i suoi genitori, una coppia di medici, è stata
allo stesso tempo figlia e paziente) ed è cresciuta in una casa dove i dialoghi
e le discussioni degli adulti componevano un racconto appassionante quanto un
poliziesco, con i sintomi in luogo di indizi e la diagnosi giusta come
soluzione dell’enigma.
L’autrice
ha poi trasferito questo singolare retroterra e il bagaglio linguistico che lo
accompagna in saggi come Viajes Virales
(2012), sull’Aids nella letteratura latinoamericana, o il recentissimo Zona
ciega, tres ensayos sobre visión y ceguera,
appena pubblicato da Penguin Random House, e soprattutto in alcuni romanzi che
sembrano comporre una trilogia sul corpo e i suoi cedimenti: Fruta podrida, del 2007, Sangue negli occhi, edito in Italia nel 2013 da La Nuova Frontiera, e Sistema
nervoso, ora tradotto per lo stesso editore da
Elisa Tramontin (pp. 250, e. 17,90 ). Se Fruta podrida parla di una giovane diabetica che rifiuta con
ostinazione di curarsi, Sangue negli occhi
narra l’improvvisa cecità di una donna che pretende dalla medicina la certezza
della guarigione, mentre in Sistema nervoso
la protagonista e la sua famiglia sono immersi in un continuo negoziato con le
proprie patologie, affrontate da punti di vista differenti (l’occhio clinico, l’assoluta
noncuranza, l’ipocondria, la negazione), mentre la malattia diviene una sorta
di codice intimo, di lingua degli affetti.
Tutto
ha inizio quando una giovane astrofisica, in un luogo chiamato “paese del
presente” e facilmente identificabile con gli Stati Uniti, invoca l’arrivo di
una malattia non troppo grave che le consenta di prendersi una pausa dall’insegnamento
e concludere l’eterna stesura della sua tesi di dottorato, finanziata all’insaputa
di tutti dal padre che, insieme al resto della famiglia, vive nel lontano “paese
del passato” (il Cile?). Un desiderio insolito, quasi indicibile, in un mondo
votato al culto della salute: ammalarsi per avere più tempo, un tempo solo per
sé, sempre negato da quella che Byung-Chul Han ha definito “società della stanchezza”.
E
il desiderio si realizza prontamente: spalla e braccio diventano insensibili e
inerti, il corpo dell’ammalata viene affidato a macchine onniveggenti, scrutato
e palpato da specialisti diversi. Le diagnosi sono talmente vaghe e incerte da
imporre un rassicurante rientro nel paese del passato (riconvertito dal ritorno
in quello “del presente”, secondo un gioco temporale rilanciato di continuo),
mentre il romanzo si avvia a sovvertire buona parte delle convenzioni legate
all’antico e solido rapporto tra letteratura e malattia.
Dal
sistema solare studiato dalla protagonista siamo così proiettati nel sistema
del corpo e in quello familiare, descritto a partire dalle storie cliniche dei
suoi membri, mai indicati con un nome proprio: accanto a Lei, l’astrofisica, c’è
uno scorbutico Lui, etnologo che si occupa di antiche ossa; il Padre è un
medico in pensione costretto a una lunga degenza in un miserevole ospedale
pubblico, la Madre (in realtà una matrigna, perché quella biologica è morta di
parto); è una ginecologa che ha sconfitto il cancro; il Primogenito è il
fratello maggiore che continua a procurarsi incidenti, esprimendo con fratture
e ferite il suo costante furore… Intorno a loro, intanto, si muove il corpo
rivoltoso del “paese del passato”, sul quale si leggono le incancellabili
cicatrici della dittatura, ma anche quelle provocate da una democrazia
insufficiente e incompleta (non a caso il primo fra i tre saggi di Zona
ciega, intitolato Matar el ojo, parla delle quasi quattrocento persone che, durante
le grandi manifestazioni popolari del 2019, le pallottole dell’esercito cileno
hanno colpito agli occhi, rendendole parzialmente o del tutto cieche).
Meruane
sembra aver scelto i segni e i codici della malattia per mettere in relazione
il corpo individuale e quello collettivo, collegando una serie di sistemi
(fisici, sociali, economici, politici) che si incrociano, si sovrappongono o si
specchiano l’uno nell’altro, lasciando affiorare questioni cruciali: per
esempio la percezione, nel “paese del presente”, dei corpi migranti come
malattie letali da espellere o annientare; la progressiva distruzione del
pianeta, anch’esso corpo vivo e malato; la violenza contro il corpo femminile all’interno
di un sistema tenacemente patriarcale; la riflessione sullo sguardo scientifico
sempre più parcellizzato; il modo in cui la classe sociale e il censo
consentono o negano l’accesso alla cura.
A
questa densità di argomenti si aggiungono l’oscillare continuo della memoria e
un intreccio di simboli, metafore, sfumature e allusioni che solo una tecnica
narrativa quanto mai solida e raffinata può tenere insieme senza sbavature e
senza sforzo apparente; il romanzo ha una struttura complessa, ma Meruane
riesce a renderlo lieve grazie a una suddivisione in frammenti attraversati da
ironie, paradossi, lampi di umorismo nero e segnati dallo sporadico irrompere
di parole in corsivo a gruppi di tre, affini ma non necessariamente collegate,
che la critica cilena Lorena Amaro propone di leggere come “sinapsi nervose”.
Potremmo
interpretarle, però, anche come lapsus rivelatori, come infinitesimali flussi
di coscienza, come cellule inoculate nelle frasi per formare impercettibili
protuberanze, cisti o nei sulla “pelle” della scrittura, a dimostrazione del
fatto che romanzo e malattia sono intenti a contagiarsi reciprocamente, contribuendo
ad aprire una crepa sottile nell’immagine utopica di un corpo inattaccabile e
perfetto, e ricordandoci che in fondo, come dice un personaggio del romanzo, “lo
strano è vivere”.
***
Scheda
Quando Lina Meruane si stabilì a New York, dove
oggi insegna all’Università, non poteva sapere che di lì a poco ci sarebbe
stato l’attacco alle Torri Gemelle e neppure che, subito dopo, alla sua identità
di scrittrice e studiosa cilena se ne sarebbe sovrapposta un’altra, almeno
negli Stati Uniti. I suoi nonni paterni, infatti, erano tra le migliaia di
palestinesi cristiano-ortodossi che tra la fine dell’ottocento e la prima metà
del novecento emigrarono in Cile, prima per sfuggire alla decadenza dell’impero
ottomano e poi perché travolti dalla Nakba, la catastrofe dell’esodo forzato
dopo la nascita di Israele. Oggi i cileni di origine palestinese sono più di
500.000: scienziati, calciatori, industriali, artisti, politici come il
comunista Danil Jadue, registi come Miguel Littín, grandi scrittrici come
Diamela Eltit… E come Lina Meruane, che, scoprendo di poter essere considerata
una “immigrante araba potenzialmente sospetta”, nel 2012 decise di visitare un
luogo dove non era mai stata, noto solo attraverso rari brandelli di memorie
familiari. Frutto di quel non facile incontro con una realtà durissima sono due
libri insoliti e di profondo interesse, Volverse Palestina, a metà tra
il saggio e la cronaca, e Palestina, por ejemplo, prima incursione dell’autrice
nella poesia, entrambi pubblicati da Penguin Random House. In nessuno dei due
si trova traccia di rivendicazioni identitarie o del desiderio di recuperare
radici perdute; a trasparire è invece un’assunzione di responsabilità nei
confronti del presente e la volontà di affrontare, come ha sottolineato Meruane
in un’intervista: “… un problema politico che mi riguarda e mi sfida a farmi
carico di quel che sta accadendo laggiù”.
Questo articolo è apparso sul
quotidiano Il manifesto nel settembre del 2021