martedì 20 luglio 2021

Da leggere: Ricardo Piglia


Ricardo Piglia


Luba, un mistero da decifrare

È trascorso quasi mezzo secolo da quando Siglo Veintiuno pubblicò il secondo libro di Ricardo Piglia, una raccolta di racconti intitolata Nombre falso che oggi appare finalmente in italiano per le edizioni Sur (Falso nome, traduzione di Pino Cacucci, pp. 193, e. 16), nel cui catalogo figurano alcune delle opere più significative di un autore del quale si potrebbe dire, a quattro anni dalla sua scomparsa, che “ogni giorno scrive meglio”. La scrittura di Piglia, infatti, non solo resiste al passare del tempo, ma sembra via via acquistare nuovi significati grazie a un’inalterata capacità di collocarsi nel futuro, misurandosi con ciò che ancora non esiste. E questa antologia giovanile, già proiettata verso le opere scritte in anni successivi, ce ne offre un’ulteriore prova.

La raccolta si apre su cinque storie brevi dai registri diversi, disposte in modo da formare un crescendo di trame e atmosfere che parlano di fallimento, menzogna, eroismo insensato, crimini impuniti, ricatti silenziosi, come per preparare impercettibilmente il lettore all’ingresso nella straordinaria nouvelle che dà il titolo al libro e ne occupa una buona metà: Falso nome, macchina narrativa complessa e perfetta in cui l’autore si stacca per la prima volta dalla forma chiusa del racconto classico per andare verso ampie aperture sperimentali.

“Questo che sto scrivendo è un rapporto o meglio un sunto: è in gioco la proprietà intellettuale di un testo di Roberto Arlt; quindi cercherò di procedere con ordine e in modo obiettivo”, ci comunica nelle prime righe la voce del critico letterario Ricardo Piglia (“doppio” conclamato dello scrittore) con una pretesa di oggettività presto smentita, man mano che l’eccezionale ritrovamento di Luba, inedito arltiano accluso in appendice, si trasforma in un mistero da decifrare.

In possesso del poeta Saul Kostia, vecchio amico dell’autore di I Sette pazzi e Aguafuertes porteñas, il manoscritto narra il tormentato incontro fra un anarchico in fuga e una cinica prostituta che, contagiata dalla purezza del rivoluzionario, decide di abbandonare il bordello e si spoglia dell’esotico nome falso dietro il quale si è nascosta; gli ambienti, i personaggi, il linguaggio sono quelli caratteristici di Arlt, ma le contraddizioni e i tenui indizi seminati dal narratore suggeriscono la verità: Luba è la versione ambientata a Buenos Aires di Le tenebre, scritto nel 1907 dal romanziere e commediografo russo Leonid Andreev (talmente popolare ai primi del secolo scorso che Gramsci ne recensì con ammirazione i drammi, augurandogli “una folla di spettatori proletari”, e pubblicò su «L’Ordine Nuovo» proprio il racconto in questione).

Troppo preso da una delle assurde invenzioni con cui sperava di arricchirsi e incalzato dalla necessità di guadagnare, Roberto Arlt fu dunque spinto dalla mancanza di tempo a plagiare Andreev, dopo averlo letto nelle cattive traduzioni dell’epoca? Ma perché Kostia, subito dopo aver venduto al critico il presunto inedito, ha cercato invano di riaverlo e l’ha poi pubblicato con il proprio nome? E, se plagio c’è stato, come avere la certezza che il colpevole sia proprio Arlt?

Fedele all’idea più volte ribadita nei suoi scritti che “la cosa più importante non si racconta mai”, Piglia si guarda bene dal mostrarsi apertamente come l’autentico responsabile della falsificazione. Usa invece usa gli artifici del poliziesco – genere che predilige perché propone, pur senza risolverlo, “l’ enigma della relazioni capitaliste” – per spingere il lettore a entrare nel testo in qualità di detective, e al tempo stesso cerca di intrappolarlo grazie a un complicato gioco di specchi in cui dominano l’intertestualità, la mescolanza di generi e l’incrocio tra narrativa e critica, interamente dispiegato cinque anni dopo nel grandioso romanzo Respirazione artificiale (Sur, 2012) e qui brillantemente anticipato.

È inevitabile notare, a questo punto, che la nouvelle contiene due omaggi differenti e inestricabilmente legati: il primo è quello esplicito a Roberto Arlt, cui Piglia ha dedicato nel tempo numerose e approfondite letture, facendo giustizia dei pregiudizi sulla sua “cattiva” scrittura (giudicata severamente perfino da chi lo apprezzava, come Cortázar e Onetti), e che per molti era solo un cronista, un semplice testimone del proprio tempo. Oltre a legittimarne lo stile crudo e spezzato, Piglia vede in lui un autore profetico che ha colto il nucleo segreto della politica argentina, ovvero il rapporto perverso tra Stato e racconto falso della realtà, e ha saputo trasformare il complotto e la cospirazione in strategia narrativa.

Falso nome contribuisce a gettare le basi della rivalutazione di Arlt e annuncia l’importanza che assumerà la cosiddetta fiction paranoica nei romanzi di Piglia, quali La città assente (Sur, 2014) o Solo per Ida Brown (Feltrinelli, 2017), ma ci rimanda anche alle tesi formulate da George Steiner in Vere presenze (Garzanti, 1992), là dove si assegna il primato della critica agli scrittori che riprendono, inglobano e trasformano le opere dei predecessori, poiché “l’arte è la migliore lettura dell’arte”.

Nascosto ma non troppo, il secondo omaggio affiora nell’epigrafe del volume, attribuita ad Arlt e in realtà riferibile a un saggio e ad alcuni versi di Borges, maestro della citazione volutamente erronea e dell’apocrifo. La sua ombra di “falsario” sublime si allunga sul testo di Piglia, che elabora l’idea di autore come figura intercambiabile, ricorre alle note a piè di pagina e a titoli di opere inesistenti, fa della finzione un saggio e del saggio una finzione, proprio come nel celebre racconto di Borges dedicato al misterioso Pierre Menard, assorto nell’impresa di scrivere “non un altro Chisciotte – il che è facile – ma il Chisciotte”. Falso nome mostra così un altro dei suoi tanti aspetti, quello di possibile risposta alla domanda che ha aleggiato fin troppo a lungo sul panorama letterario argentino: come scrivere dopo Borges?

A differenza di Juan José Saer, che ha escluso materiali e meccanismi affini a quelli borgeani per imboccare una strada affatto diversa, Piglia se ne appropria e decide di riformularli in modo drastico. Con singolare abilità mimetica riscrive alla maniera di Arlt il racconto di Andreev, ma per farlo si serve dei procedimenti di Borges e li contamina con la presenza, i temi e le ossessioni di un autore che ne era l’antitesi (in Respirazione artificiale Emilio Renzi, da sempre alter ego dello scrittore, sostiene che Arlt è l’unico autore argentino veramente moderno e Borges il migliore del diciannovesimo secolo). Ed è collegando i due poli opposti della letteratura nazionale e “usandoli”, che in Falso nome Piglia ha saputo misurarsi con la tradizione letteraria del suo paese fino a trasformarla in qualcosa di profondamente nuovo e personale. 

*** 

Scheda: Cuentos completos 

Ricardo Piglia aveva ventisette anni quando il suo libro d’esordio venne pubblicato a L’Avana, dopo aver ottenuto una menzione al Premio Casa de las Américas del 1967: si intitolava Jaulario e sotto una copertina dalla grafica brillante e sofisticata nascondeva nove racconti già pienamente maturi, scritti a partire dai primi anni Sessanta. Un editore audace come Jorge Alvarez, pronto a concedere fiducia ad autori giovani e sconosciuti, l’avrebbe pubblicato in Argentina dopo qualche mese, con un titolo differente (L’invasione, Sur, 2015), l’aggiunta di un racconto, numerose correzioni e un nuovo indice. Arriverà poi una terza edizione, quella del 2006 per Anagrama, diversa dalle precedenti per via di sostituzioni, varianti e aggiunte che hanno portato i testi a quindici. Ed è quasi superfluo notare, trattandosi di un autore per il quale “scrivere è soprattutto correggere”, che tutte e cinque le sue raccolte di racconti sono state trattate come work in progress, manipolate o perfino stravolte per legarsi a contesti sempre nuovi. Non c’è quindi da stupirsi se in appendice ai Cuentos completos di Piglia, appena usciti presso la casa editrice spagnola Anagrama (pp. 832, e. 24,90), l’agente letterario Guillermo Schavelzon racconta come, consapevole del poco tempo concesso dalla malattia che lo aveva colpito, negli ultimi anni di vita lo scrittore argentino avesse instancabilmente lavorato per lasciare non solo dettagliate “istruzioni per il futuro”, ma soprattutto una serie di opere editate, ampliate e pronte per la pubblicazione postuma, come Un día en la vida, terzo e ultimo volume dei Diarios de Emilio Renzi, nonché Escritores norteamericanos o Teoría de la prosa (trascrizione delle mirabili lezioni su Onetti registrate a Buenos Aires nel 1995 e recuperate quando l’autore donò il suo archivio all’Università di Princeton), saggi che vanno ad aggiungersi ai tanti prodotti nel corso di una intensa attività di critico e docente universitario.

L’ultimo fra i volumi apparsi dopo la morte è appunto quello che riunisce tutta la sua narrativa breve: quarantotto racconti di varia lunghezza ormai divenuti altrettanti classici, che si susseguono in un ordine non sempre fedele a quello di pubblicazione. I casi del commissario Croce(Sur, 2019), per esempio, pur essendo apparso per la prima volta nel 2016 è datato 2007, perché è in quell’anno che fu concepito. Piglia ha voluto inserire, inoltre, diversi racconti estrapolati da romanzi come La città assente (un’autentica miniera di storie che si rincorrono) e una sezione finale, Historias personales (2015-2017), con quattro testi mai apparsi in volume. Il tutto minuziosamente rivisto e organizzato, così da permetterci di seguire l’evoluzione di una scrittura (anche se l’autore, nel prologo, afferma “Non credo che uno scrittore si evolva. Sono le forme a cambiare…”) e delle strategie testuali che la sostengono.

 

 

Questo articolo e la scheda che lo completa sono apparsi sul quotidiano Il manifesto nel luglio del 2021

martedì 6 luglio 2021

Da leggere: Brenda Lozano

 


Brenda Lozano


Feliciana e i suoi “santi bambini” 

Zoé è una giornalista di Città del Messico, cresciuta in una famiglia borghese: un padre morto troppo presto che l’ha incoraggiata a seguire le proprie passioni, una madre anticonformista dalle intuizioni inspiegabili quanto provvidenziali, una sorella turbolenta e creativa, perenne fonte di guai. Feliciana è una vecchia india nata e vissuta nella sierra, che ha sempre lavorato duramente e a quattordici anni ha sposato uno sconosciuto scelto dalla famiglia, mettendo al mondo tre figli e sopportando botte e miseria, finché ha scoperto di possedere una capacità considerata fino ad allora soltanto maschile, quella di guarire le anime e i corpi.

È a partire dall’incontro tra queste donne che la scrittrice messicana Brenda Lozano costruisce il suo terzo romanzo (Streghe, Alter ego, pp. 252, e. 17), fin troppo denso di temi a volte soltanto sfiorati, ma interessante per più di un motivo. Da una parte, infatti, il testo gioca abilmente sull’alternarsi di due voci ben caratterizzate (va segnalato l’eccellente lavoro della traduttrice Giulia Zavagna, che ne ha restituito ogni sfumatura) per raccontare facce diverse della condizione femminile in Messico, contrastanti eppure meno lontane di quanto appaiano e sempre accomunate da un’endemica violenza contro le donne; dall’altra segnala il riaffacciarsi, nell’attuale letteratura latinoamericana, di elementi delle culture autoctone trattati in modo nuovo e spesso audace, senza nostalgie del realismo magico o residui di colore locale.

Le protagoniste, circondate da una schiera di comprimari efficacemente disegnati, hanno in comune il peso che assegnano al linguaggio: Feliciana lo indica con una reverente maiuscola e lo identifica con il potere risanatore del Libro immateriale che lei, analfabeta, “legge” dopo aver ingerito i funghi sacri; per Zoé rappresenta lo strumento per tradurre il mondo in parole e raccontarlo attraverso la scrittura. Ed è per questo che tutte e due sono, in un certo senso, “streghe” capaci di evocare la realtà, di decifrarla e di contribuire a cambiarla.

Feliciana narra di sé e del suo mondo, dove le donne sono poco più che cose, con il ritmo incantatorio di un’oralità da cui emerge via via la figura di Paloma, nota un tempo come Gaspar, amato cugino che l’ha aiutata a superare i pregiudizi maschili e le ha insegnato la curandería, da lui esercitata prima di diventare muxe, cioè parte di una comunità di uomini in vesti e ruoli femminili che non si riconoscono nelle categorie occidentali di travestito, transessuale o gay, ma rivendicano un’identità altra, definita da una cultura antica e provvista di un ruolo sociale riconosciuto. Benché amata e rispettata, la scintillante Paloma è stata uccisa da uno dei tanti uomini che ha frequentato (il muxe si autodefinisce come poligamo), ed è del suo assassinio che Zoé intendeva occuparsi prima di venire avviluppata dal racconto di Feliciana, che la spinge ad analizzare specularmente il proprio passato e il rapporto con la madre e la sorella, aiutandola a conoscere sé stessa attraverso l’esperienza, il sostegno e l’aiuto di altre donne.

L’ultimo pezzo del polifonico puzzle composto dall’autrice, infine, è una presenza che si intravede dietro quella di Feliciana: María Sabina García, l’autentica sciamana mazateca cui Lozano si è ampiamente ispirata, resa celebre da Robert Gordon Wasson (vicepresidente della J.P. Morgan e appassionato di quella che lui stesso chiamò etnomicologia), ovvero il “banchiere americano” che nel romanzo raggiunge la curandera per partecipare ai suoi rituali con i funghi teonanacatl, attirando su di lei l’attenzione di studiosi, documentaristi, star del rock, e procurandole una gloria vissuta con serena indifferenza.

Nella realtà, però, gli articoli, i libri e le registrazioni di Wasson diedero il via a una valanga che travolse María Sabina e la trasformò in una sorta di attrazione turistica per europei e nordamericani in cerca di svaghi allucinogeni e pseudomistici, e lei, che aveva chiesto di non rivelare il suo nome e quello del luogo in cui viveva, ne fu profondamente amareggiata e dovette assistere al saccheggio dei funghi che chiamava “santi bambini”. Morì nel 1985, povera com’era vissuta, lamentando il tradimento e il caos che ne era derivato, e chissà che Lozano, a più di trent’anni dalla sua scomparsa, non abbia voluto vendicarla facendone una figura potente e vittoriosa, e assicurandole così un simbolico trionfo.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel luglio del 2021