sabato 6 maggio 2023

Da leggere: Laura Ortiz Gómez


Laura Ortiz Gómez




Le voci della foresta 

Colombia tiene escritoras: così si intitolava un manifesto firmato nel 2017 da un buon numero di scrittrici, indignate per l’assenza di nomi femminili tra quelli degli autori invitati dal governo del loro paese a una manifestazione di grande prestigio. Alla protesta seguirono polemiche furibonde e non inutili, visto che la Biblioteca Nacional de Colombia, in collaborazione con alcune case editrici indipendenti, nel 2022 ha dato il via alla Biblioteca de Escritoras Colombianas, che oltre a valorizzare le opere di autrici nate nel corso degli ultimi tre secoli, ha contribuito a definire genealogie utili alla lettura del presente. A conferma del fatto che la letteratura colombiana non è «un club per soli uomini», dopo i recenti La cagna di Pilar Quintana (La nave di Teseo, 2022) e Assedio animale di Valeria Londoño (Alessandro Polidoro, 2022), ci viene ora proposto da gran vía Creature della foresta (pp. 128, e. 13,50; l’ottima traduttrice è Monica Besana), di Laura Ortiz Gómez, nata a Bogotà nel 1986, che con questo suo libro d’esordio si è guadagnata il Premio Nazionale di narrativa Elisa Mujica, importante e meritatissimo.

Oggi l’autrice risiede a Buenos Aires (un espatrio che, dice, le ha consentito di scrivere del suo paese da una giusta distanza), ma per anni ha viaggiato nelle più remote zone della Colombia su incarico della Red Nacional de Bibliotecas, per diffondere la lettura nelle comunità contadine ma anche per avvicinarsi alla ricchezza di una vera e propria letteratura orale, custodita e tramandata da anziani e donne. Ed è questo prezioso flusso narrativo (ascoltato con l’attenzione di chi vuole assorbire, oltre a storie e figure, le tante peculiarità del linguaggio) che vediamo riaffiorare nei suoi racconti, ambientati tra villaggi, foreste, campi, cimiteri «non ufficiali» in cui riposano morti sconosciuti, trascinati a valle dai fiumi.

Ogni storia è un breve ritratto della Colombia rurale, devastata dal narcotraffico, da un conflitto armato mai davvero concluso e da memorie oscure come quella del massacro di Ciénaga, che nel 1928 mise fine allo sciopero contro la United Fruit e venne poi evocato da García Márquez in Cent’anni di solitudine e da Álvaro Cepeda Samudio in La casa grande. E anche Ortiz Gómez sembra alludere a questo ineludibile episodio in Aíta, la morte, il primo di otto racconti imperniati su famiglie in lutto, corpi violati e torturati, desaparecidos, povertà e soprusi, temi costantemente presenti nella letteratura colombiana e confluiti in passato nel cosiddetto «romanzo della violenza». Una violenza che si è insediata anche nelle opere degli autori più giovani e che rischia a volte di diventare una risorsa narrativa a effetto, fin troppo facile e abusata.

Laura Ortiz Gómez, però, sceglie di non esibirla in tutta la sua crudezza, di indagare piuttosto sulle tracce che lascia e di filtrarle abilmente attraverso simboli e metafore. I racconti si fondano su allusioni e sensazioni, dettagli quotidiani e fatti minimi, narrati con uno squisito variare di ritmi e toni, quasi fossero scritti per una lettura ad alta voce: in Tigre americano: Panthera Onca, per esempio, l’occupazione militare si incrocia con la vergogna di una ragazzina che bagna il letto ogni notte e con le astuzie di una comunità decisa a non arrendersi. In L’ultimo Pibe Valderrama, la disgregazione familiare si fonde con uno strepitoso resoconto di Colombia-Inghilterra durante i mondiali del ’98; l’esistenza sbandata di un orfano cui viene richiesto un campione di DNA per identificare le ossa della madre, giustiziata dai paramilitari, è invece illuminata dalla nascita di un vitellino in Parto di mucca.

Sono storie devote alla terra e alla cultura contadine, poetiche e insieme politiche, che non omettono l’orrore, ma gli affiancano la ricerca di risposte, l’ostinazione a sopravvivere, i tentativi di cambiare il proprio destino, il rifiuto del ruolo di vittima. Tenacia, umorismo (a volte nerissimo), rabbia, ironia, ansia di libertà, sono le caratteristiche di personaggi in movimento, oppressi ed estenuati (non a caso il titolo originale è Sofoco, che indica la mancanza d’aria o il dispiacere, ma anche una sensazione di calore, una vampata), eppure desideranti e sensuali.

Voci emarginate e dimenticate, ma piene di slancio vitale, emergono in ciascun racconto, sfuggendo felicemente alla trappola del colore locale e dell’esotismo come a quella ormai logora del realismo magico, e disegnano una sorta di viaggio attraverso una natura indomabile e varia (cordigliere, giungle, coste, fiumi), popolata da significative presenze animali e accompagnata da una costante colonna sonora di fruscii, acque, vento, cui si aggiungono i canti minacciosi dei soldati in marcia, i ritmi locali, le canzoni di protesta che il padre dell’autrice le faceva ascoltare da bambina. E musicali sono anche le frasi brevi, sonore e immaginose che trasformano l’oralità in letteratura e generano immagini intense e suggestive. Sì, Colombia tiene escritoras, e Laura Ortiz Gómez è indubbiamente una di loro.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel maggio del 2023

Da leggere: Cristina Rivera Garza


Cristina Rivera Garza




Viviana e la sua breve estate

Alla vigilia dell’otto marzo 2021, intorno al Palacio Nacional di Città del Messico venne eretto una sorta di recinto metallico alto più di tre metri, simbolo tangibile del difficilissimo rapporto tra i movimenti femministi e il Presidente Andrés Manuel López Obrador, che parlò di un «muro della pace» destinato a prevenire gli eccessi di «donne violente» e strumentalizzate dalla destra. La presunta violenza (ovvero un immenso corteo, molte scritte sui muri, un diluvio di slogan e qualche scaramuccia tra la polizia e le incappucciate del Bloque Negro) era in realtà la legittima esasperazione di chi vive in un paese dove ogni giorno vengono assassinate dieci donne – nel 2020 le vittime furono 3.752 –, e dove il tasso di impunità per chi le stupra e le massacra resta impressionante.

Qualunque cosa ne dica il Presidente, però, le messicane non hanno intenzione di stare zitte, ed è anche il clamore delle loro voci ad aver incoraggiato Cristina Rivera Garza (autrice ormai famosa e accademica di vaglia nata a Matamoros nel 1964) a intraprendere un’impresa rimandata per trent’anni: scrivere della vita e della morte di sua sorella Liliana, ventenne studentessa di architettura uccisa nel 1990 dall’ex fidanzato Ángel González Ramos. Una coincidenza casuale ma significativa ha voluto che la pubblicazione del libro avvenisse proprio nell’aprile del 2021, a pochissima distanza dalla costruzione del «muro», e sempre in aprile, ma due anni dopo, arriva nelle nostre librerie (L’invincibile estate di Liliana, Sur, pp. 324 e. 19), tradotto con grande bravura da Giulia Zavagna e illuminato da una bella copertina che si adegua al titolo tratto da una frase di Albert Camus, annotata dalla ragazza uccisa e scelta come epigrafe dalla sorella Cristina: «Nel cuore dell’inverno imparai finalmente che in me c’era un’invincibile estate».

L’incubazione del testo è stata così lunga, ha spiegato Rivera Garza in più di una intervista, non solo per la difficoltà di elaborare un simile lutto, ma anche per l’assenza di un linguaggio adeguato: per troppo tempo il «senso comune» e la sostanziale tolleranza di polizia e tribunali hanno rivittimizzato le donne, mentre una definizione come «delitto passionale» contribuiva a sfumare la responsabilità del colpevole e perfino ad aggiungere un tocco romantico. Sono state la mobilitazione e la voce delle donne, sottolinea Rivera Garza, a spingere verso il cambiamento e a consentire al linguaggio di articolare il dolore ed enunciare/denunciare le dimensioni della tragedia.

L’intero percorso di scrittura e di riflessione dispiegato in un’opera assai ricca, composta da romanzi, racconti, poesia e saggi, sembra culminare nella tensione fra contenuto e forma che, in L’invincibile estate di Liliana, scaturisce dalle proposte estetiche e teoriche di un’autrice mai stanca di sperimentare. A partire da Nessuno mi vedrà piangere (Voland 2008), definito da Carlos Fuentes «una rivelazione, un romanzo tra i più belli e dirompenti mai scritti in Messico», Rivera Garza ha prodotto testi sempre diversi ma legati da una ricerca costante e audace, approdata negli ultimi anni a quello che si potrebbe definire un progetto di co-scrittura fondato sulla rinuncia a una figura autoriale unica, da lei teorizzato in Los muertos indóciles. Necroescrituras y desapropiación (Tusquets, 2013).

«Scriviamo sempre in compagnia. (...). Tutto è stato già detto in precedenza, se posso pensarlo è perché qualcun’ altro lo ha pensato. Per questo devo fare una mappa di quel che è stato detto, di chi e perché lo ha detto. La mia grande sfida è come mettere insieme materiali e idee, trovare gli accostamenti che mi permetteranno di formulare conclusioni complesse»» sostiene l’autrice a proposito di una decisa «svolta documentale», inagurata con Dolerse. Textos desde un pais herido (2011), e proseguita con Autobiografía del algodón (2020), che collega la storia della sua famiglia di lavoratori agricoli migranti a quella economica della frontiera tra Messico e USA. Testi dall’evidente carattere ibrido, nati dal continuo movimento fra materiali e generi diversi: documenti, autobiografia, testimonianze, crónica, reportage, teoria letteraria, finzione, diario.

Un procedimento che si realizza compiutamente in L’invincibile estate di Liliana, dove i capitoli iniziali ci mostrano l’ infruttuosa ricerca del fascicolo giudiziario sul delitto (rimasto impunito, perché Ángel González scomparve e non venne mai arrestato né giudicato), perso nei labirinti della macchina statale e inseguito di ufficio in ufficio da una Rivera Garza che nel raccontare minuziosamente i suoi spostamenti disegna una piantina tridimensionale di Città del Messico, fatta di strade, edifici, presenze, esterni e interni, in cui sono questi ultimi a risultare più inquietanti e minacciosi. E se il fascicolo non si trova, sarà l’autrice (storica di formazione e abituata alla ricerca dall’attività accademica) a crearne uno, conducendo una minuziosa indagine che muove dall’affetto, dal desiderio di giustizia e da un ritrovamento eccezionale: le carte di Liliana, conservate dai genitori in alcune scatole mai aperte.

È così che Rivera Garza scopre un vero e proprio archivio, composto dalla sorella minore che negli anni della sua breve vita aveva conservato lettere, appunti, quaderni, cartoline, fotografie, biglietti, diari, scarabocchi, liste di canzoni, pagine scritte e piegate come origami, decorate a colori vivaci, o con polverine luccicanti e fiori secchi, di cui ci vengono offerti i contenuti e descritta la materialità, la calligrafia, il tipo e la consistenza della carta.

Nel libro, Liliana si racconta con la propria voce e alla sua narrazione si aggiunge quella degli amici rintracciati a uno a uno, che si fanno avanti con i loro nomi e ricordi, fedelmente riportati. Seguono gli articoli che all’epoca parlarono del delitto, e, alla fine, la parola passa ai genitori e alla loro memoria: un’autentica polifonia magnificamente orchestrata per dar forma a una struttura che, pur affondando le radici nella realtà, ricorre a volte all’’immaginazione, indispensabile per riempire vuoti, per interpretare passaggi fondati solo su parole altrui, per dare corpo a supposizioni e ipotesi. L’indagine, i documenti, non esitano dunque a costeggiare il racconto, non solo per ritrarre e celebrare una sorella amata e perduta, ma per rappresentare una realtà collettiva, per poterla «dire» in un altro modo, per condividere degnamente il lutto, ma anche per indirizzarlo verso la protesta e l’azione, conferendo al libro una spiccata qualità politica.

Dell’assassino, di quell’Ángel González Ramos del quale troviamo una sbiadita fotografia nelle ultime pagine, poco viene detto, anche se gli scritti di Liliana rivelano che ne è stata innamorata, danno conto delle tappe di un rapporto tossico e la mostrano infine consapevole della necessità di dire basta. Quella di Ángel resta però una figura sfocata, tanto che, durante la consegna all’autrice del premio Villaurrutia 2022, un noto intellettuale messicano ha fatto presente la sua delusione di lettore nel veder trascurati «i motivi, il modo di agire, le giustificazioni» del colpevole, personaggio intrigante che meriterebbe di essere osservato a dovere e in profondità, come hanno fatto Borges, Sabato e Valadés in alcune celebri opere. Mettendo da parte il suo discorso di accettazione, Rivera Garza ha risposto che lo sguardo e l’attenzione dovrebbero essere rivolti alle vittime, non a quelli che le hanno uccise, di cui si è parlato e si parla fin troppo: «A me importava che la protagonista fosse Liliana, che la sua vita fosse la protagonista del libro, non volevo che il suo assassino le rubasse spazio, se non per segnarlo a dito, per dire che c’è un femminicida impunito e in libertà».

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di aprile 2023

Da leggere: Sara Gallardo

 


Sara Gallardo



I levrieri di Julián 

Non sono in molti, neppure nell’Argentina dove furono popolarissime, a ricordare Beatriz Guido, Silvina Bullrich e Marta Lynch, scrittrici che a metà del secolo scorso vennero chiamate las bestselleristas per l’eccezionale successo dei loro romanzi. La biografa Cristina Mucci le definisce “le dimenticate” (Las Olvidadas, Sudamericana 2022), e Leopoldo Brizuela sottolinea che il tempo non solo le ha cancellate, ma ha finito per premiare un altro terzetto letterario attivo negli stessi anni, quasi segreto e composto da Silvina Ocampo, Elvira Orphée e Sara Gallardo, autrici così singolari da risultare provocatorie e allora situate ai margini dello scenario culturale argentino. Orphée è l’unica, tra loro, ad attendere ancora una piena rivalutazione, mentre il riscatto di Ocampo è così largamente consolidato da averne fatto un indiscutibile punto di riferimento; quanto a Gallardo (scomparsa nel 1988, a cinquantasette anni), il recupero della sua opera è davvero iniziato solo 2004, con l’edizione della Narrativa breve completa curata proprio da Brizuela, che insieme a Ricardo Piglia ha attirato l’attenzione su una scrittura imprevedibile ed elegante, travasata in romanzi o in racconti brevi e affiancata da una vasta e brillante produzione giornalistica.

Sara Gallardo Drago Mitre (nata a Buenos Aires nel 1931 in una delle più illustri famiglie argentine e scomparsa prematuramente nel 1988) era finora nota ai lettori italiani solo grazie a Gennaio, romanzo d’esordio pubblicato da Solferino nel 2021 e apparso in lingua originale nel 1958, che con la sua ambientazione rurale sembrava rifarsi a un immaginario ormai considerato residuale e scartato dal sistema letterario. Nello stesso momento in cui Guido, Bullrich e Lynch si insediavano in un collaudato “canone femminile” fatto di sensibilità e intimismo, e mentre in Argentina si affacciavano le sperimentazioni di un’audace avanguardia o divampavano polemiche sul ruolo politico e sociale della letteratura, Gallardo tornava quindi a una tradizione narrativa ormai archiviata, e se ne serviva spavaldamente per comporre una sorta di trilogia.

A Gennaio, infatti, seguirono nel 1963 Pantalones azules e nel 1968 Los galgos, los galgos, che mettono in scena gli abitanti e i paesaggi delle grandi proprietà terriere, disarticolando però gli stereotipi e le convenzioni di un genere da sempre percepito come maschile e sovvertendolo per mezzo della parodia, dell’iperbole, di vistose deviazioni dalla via tracciata in passato da scrittori come Eugenio Cambaceres, Benito Lynch, Enrique Larreta o Ricardo Güiraldes, autore di quel Don Segundo Sombra che, pubblicato nel 1926, racconta un duro e trionfale apprendistato da proprietario terriero: una storia traboccante di colore locale che Gallardo capovolge simmetricamente nel suo terzo romanzo, come per mettere a nudo, reinterpretare e forse disintegrare le fondamenta della letteratura argentina.

Los galgos, los galgos, tradotto benissimo da Sara Papini, ci viene ora presentato da gran vía (I levrieri, i levrieri, pp. 504, e. 20), rispettandone il titolo, che testimonia il gusto dell’autrice per l’iterazione e per la presenza di animali veri o fantastici: un bestiario singolarmente autentico (tori mostruosi, greggi simili a un’onda lenta, lepri, formiche rosse, pipistrelli, cavalli) popola il romanzo, evocato con attenzione quasi amorosa e dotato di un’accentuata valenza lirica e simbolica. Il posto d’onore spetta ovviamente alla coppia di levrieri Corsario e Chispa che Julián, avvocato senza ambizioni, porta con sé nella tenuta ereditata dal padre, dove spera di trasformarsi in un autentico estanciero e trovare così un senso e uno scopo; da elegante accessorio del suo nuovo status, i cani si trasformano presto in compagni indispensabili e in una versione più stabile e felice della coppia formata da Julián e dalla pittrice Lisa, il cui abbandono coincide con il fallimento dell’impresa: lo spazio rurale si è rivelato un enigma di cui Julián non riesce a decifrare i codici e le regole, affrontati a partire da moventi puramente estetici o da nozioni libresche.

Finalmente consapevole della propria estraneità a un mondo cui dovrebbe appartenere per «diritto di nascita», il protagonista parte per Parigi, dove, più indolente che mai e più che mai pieno di rimpianti per l’amore perduto, finirà per attirarsi una falsa accusa di pedofilia e per decidersi al ritorno, ma solo per scoprire che Lisa è definitivamente perduta: ad attenderlo non c’è che la sopravvissuta Chispa, l’ultimo levriero destinato a morire di lì a poco, come Argo ai piedi di un desolato Odisseo.

Suddiviso in quattro parti che rappresentano altrettante tappe del percorso di Julián (l’ultima lo vedrà scivolare nel matrimonio con una donna che gli è indifferente, ma che ne sopporta con pazienza i capricci e la depressione), il romanzo ha quindi un andamento circolare e rimanda il suo eroe al punto di partenza, abbandonandolo con un breve e spiazzante brano in terza persona che proietta l’autrice verso nuove scommesse formali, condensate tre anni dopo nel suo capolavoro, lo stupefacente Eisejuaz. Attraverso il flusso sincopato dei dialoghi, la progressiva trasfigurazione del quotidiano, la spirale di descrizioni mai inutili e sempre funzionali al procedere del racconto, il romanzo annuncia nitidamente una svolta che allontana l’autrice dall’iniziale naturalismo, spingendola verso una riflessione profonda su temi quali l’identità latinoamericana, la tensione verso l’alterità, la necessità di scrivere oltre e contro i confini della propria classe sociale. Vicino alla perfezione e frutto di una raggiunta maturità, I levrieri, i levrieri si offre come un presentimento dell’imminente inoltrarsi di Gallardo in territori narrativi inesplorati e privi di filiazioni visibili.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di aprile del 2023