mercoledì 27 dicembre 2017

Da leggere: Tintas



Il Cile di oggi in tredici racconti

“Non lasciate che vi rubino il futuro, non permettete che noi, i vostri padri, moriamo in un paese governato dagli stessi che ci hanno esiliati, che ci hanno uccisi”. Queste parole fanno parte di un appello pubblicato pochi giorni prima delle elezioni presidenziali da Raul Zurita, uno dei più grandi tra i grandi poeti cileni, che durante la dittatura fu arrestato e torturato, ma che una volta libero non scelse la via dell’esilio: rimase e diventò, insieme agli altri membri del neoavanguardista Colectivo de Acciones de Arte, veicolo di dissidenza artistica e opposizione attiva. Prostrato da una malattia di cui soffre da anni, ma per nulla incline ad arrendersi e a tacere, Zurita ha oggi sessantasette anni e dalle pagine della rivista The Clinic si è rivolto alle nuove generazioni, invitandole a mobilitarsi per sbarrare il passo a Sebastián Piñera, fratello di un ministro di Pinochet e per anni vicino all’Opus Dei e al regime dei militari, che ha già dato disastrosa prova di sé durante il suo primo mandato presidenziale, concluso nel 2014.

Grazie anche alla massiccia astensione, il 17 dicembre Piñera è stato tuttavia eletto con una larga maggioranza, ma è difficile credere che i responsabili siano i “figli” cresciuti all’ombra della dittatura (e oggi a propria volta padri) o nati quando stava ormai per concludersi; sono soprattutto loro, infatti, i protagonisti della nuova effervescenza politica che ha visto la recente affermazione del Frente Amplio (vicino al Podemos spagnolo) e la prosecuzione delle lotte del movimento studentesco, ma della considerevole fioritura culturale che oggi coinvolge teatro, cinema, arte e, più di ogni altra cosa, la letteratura. La qualità e la varietà della narrativa cilena dell’ultimo decennio, ancora troppo poco tradotta in italiano, è infatti innegabile, e proprio in questi giorni l’editore umbro gran vía ce ne offre eccellenti assaggi in Tintas. Tredici racconti dal Cile (pag. 286, e. 16), un’antologia curata da Maria Cristina Secci, ispanista attentissima alla scena letteraria latinoamericana, che ha accostato nomi importanti come quello di Alvaro Bisama, Alejandro Zambra, Lina Meruane e Alejandra Costamagna ad altri meno noti ma di sorprendente bravura, come Marcelo Leonart, Alia Trabucco e Benjamín Labatut.

Gli autori presentati, tra i migliori della letteratura cilena contemporanea, sono nati tra il 1970 e il 1988: “figli”, dunque, cresciuti tra il silenzio delle famiglie, l’onnipresenza del regime, i compromessi della post-dittatura. E di “letteratura dei figli” parla appunto Alejandro Zambra (presente nell’antologia con Fantasia, un ottimo racconto su un impossibile amore omosessuale) nel suo romanzo Modi di tornare a casa (Mondadori 2013), alludendo con questa definizione a testi che cercano di riempire i vuoti del passato e di illuminarne gli angoli bui, come accade in González, racconto in cui Nona Fernandez, scrittrice brillantissima, drammaturga e attrice, torna sul caso dei degollados, i tre militanti comunisti sequestrati, torturati e assassinati dai Carabineros a metà degli anni ’80, da lei già narrato nel breve romanzo Space Invaders (Edicola Ediciones, 2015). Un racconto che si regge sulla memoria lacunosa dell’adolescenza (la figlia del principale responsabile dei delitti era una compagna di scuola dell’autrice) e avvicina con un immaginario “montaggio” le figure di un ragazzo in piedi accanto alla bara di uno dei degollados e quella di una ragazza silenziosa, il cui padre ha dato l’ordine di uccidere. “Sono i figli. È questo che sono”, conclude Fernandez, con una frase che potrebbe far da epigrafe a tutto il libro.

La frattura generazionale, il tentativo di costruirsi un’identità che discuta quella dei genitori o semplicemente la ignori, è infatti uno dei temi principali dell’antologia, popolata di storie che attingono a risorse stilistiche estremamente varie, ma - con l’eccezione di un luminoso testo di Andrea Jeftanovic sulla malattia e la morte di un padre molto amato, e del racconto sinistramente erotico Lame di rasoio, di Lina Meruane - hanno in comune un sottofondo di estraneità nei confronti dei padri e della società che questi ultimi hanno tacitamente accettato o contribuito a costruire. Un’estraneità in cui confluiscono la pesante eredità della dittatura, l’opacità della concertación (lento passaggio alla democrazia che non ha permesso di fare davvero i conti con il passato) e le conseguenze dell’ultracapitalismo dei Chicago boys cui Pinochet si era affidato, che per anni ha trasformato il Cile in un laboratorio del neoliberismo, aumentando ulteriormente le già gravi diseguaglianze sociali.

Come sottolineano Secci e Jorge Fornet, autori dei due testi che corredano il volume, i frutti di questa percettibile crepa tra padri e figli si manifestano nelle narrazioni spesso desolate di scrittori come Carlos Araya Diaz, il cui racconto L’ultimo film è tra i più belli e formalmente audaci dell’antologia, o come Diego Zúñiga, appena trentenne (Caravan ha presentato in italiano, nel 2014, il suo romanzo d’esordio Passeremo per il deserto), che in Un mondo di cose fredde, racconto glaciale e misurato su due ragazzi che ogni sera dormono abusivamente in un diverso “appartamento pilota” di lussuosi complessi residenziali, restituisce il senso di una precarietà senza speranze.

Le periferie di Santiago, le cittadine minerarie, i quartieri dove i nonni emigranti sono approdati molti anni prima, perdendo patria e linguaggio, gli interni borghesi, le case occupate, fanno da sfondo a una narrativa incline all’autoficción più per il bisogno di raccontare la “propria” storia che per ripiegamento intimista, e che, pur legata al proprio background sociale, politico e letterario, si rivela profondamente cosmopolita. E anche nel bisogno di trovare una strada senza seguire le orme altrui si intravede un distacco significativo e salutare non solo dai padri, ma anche dai fratelli maggiori: non c’è nulla, in questi scrittori fra i trenta e i quarant’anni, di fenomeni effimeri come il McOndo di Alberto Fuguet e Sergio Gómez, che movimentò la seconda metà degli anni ’90, ed è sempre più difficile trovare traccia perfino dell’idolatrato e ingombrante Roberto Bolaño. Il turbinoso, promettentissimo presente della letteratura cilena sembra procedere per proprio conto, di rapida in rapida, intrecciando a un futuro non ancora nato i destini dei singoli autori e le differenze che portano con sé.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2017 

martedì 5 dicembre 2017

Da leggere: María Gainza


María Gainza



L’arte, nutrimento o veleno 

Pubblicato nel 2014 in Argentina in sole mille copie, ed entrato l’anno scorso nei cataloghi di editori come Anagrama e Gallimard, Il nervo ottico (Neri Pozza, pag. 171, e. 15) ha una copertina da guardare con attenzione: nel vuoto pallido dello sfondo galleggia il nerissimo profil à la silhouette dell’autrice María Gainza, realizzato da Rosana Schoijett, che a un basso chignon stile Virginia Woolf ha aggiunto un ornamento simile a una macchia di Rorschach (un pettine, una corona, una pirotecnica esplosione di materia cerebrale?). Uno sfuggente non-ritratto, insomma, l’immagine monocroma e senza lineamenti di qualcuno che si autodefinisce per sottrazione, dichiarando di non essere una “vera” critica d’arte, nonostante un ricco percorso professionale indichi il contrario, e neppure una “vera” scrittrice, anche se l’incantevole testo che ci viene oggi proposto in italiano, nella traduzione di Marco Almerighi, la smentisce.

L’ingresso di María Gainza nel sorprendente vivaio delle più recenti voci femminili latinoamericane rappresenta infatti una autentica rivelazione e il suo debutto nella narrativa avviene all’insegna di una narrazione la cui misteriosa eleganza sfuma e confonde i confini dei generi, intrecciando una visione dell’arte come esperienza vitale, travolgente e quasi fisica, a una sorta di diario intimo dove confluiscono tanto le allegrie, le esperienze, le ansie di una protagonista bambina, adolescente e poi donna, quanto un ritratto pungente dell’alta borghesia argentina e della sua decadenza. Si potrebbe definire Il nervo ottico un quasi romanzo i cui undici capitoli, pur formando un tutto coerente e armonioso, si prestano a essere letti come racconti a sé, che si avvolgono a spirale intorno a un’opera d’arte e alla vita del suo autore, insieme alla rivolta di una ragazza che si allontana dalla propria classe sociale (Gainza è la “pecora nera” di un patriziato d’oltremare), al suo difficile rapporto con una madre trasudante bon ton, agli incontri più diversi in una straniante Buenos Aires coperta di neve o di cenere, a figure eccentriche come il favoloso zio Marion, che “per vivere aveva bisogno di shock estetici”, o dolorose come il fratello maggiore, con il suo carico di fallimenti e di promesse mancate.

Le sale dei Musei cittadini, rifugio dei momenti difficili, sono il luogo dove un minuscolo dipinto di Toulouse-Lautrec o un ritratto firmato da Augusto Schiavoni, in cui la protagonista si riconosce con stupore (“A undici anni ero esattamente così, con gli occhi distanti, freddi come la punta di uno spillo, la faccina sempre imbronciata e il mento supponente”), suscitano emozioni, offrono conforto, consentono di superare l’ovvio guado della competenza accademica, e, in una sorprendente catena di associazioni, aprono la strada verso altre storie e altre immagini. Memoria e quotidianità dialogano con quadri diversi per epoca e stile, non necessariamente i più famosi o i migliori, ma punti di riferimento, tappe dell’apprendimento estetico dell’autrice e di una sua intima educazione sentimentale.

Così l’incendio della casa di famiglia, per esempio, fa pensare alle rovine di Hubert Robert, e da una mostra di El Greco si scivola tra i malati di cancro che aspettano il loro turno per la radioterapia, mentre il cervo assalito dai cani da caccia dipinto da Alfred De Dreux evoca il tempo in cui il Museo dov’è esposto era un palazzo abitato dalla famiglia materna di Gainza, che pranzava davanti allo sguardo di stupore quasi attonito dell’animale morente; lo stesso sguardo, forse, di un’amica di María, una ragazza qualsiasi uccisa per errore dai cacciatori nel parco di un castello francese.

Se le biografie degli artisti oscillano tra le vite immaginarie alla Schwob e la divulgazione colta e appassionata, e se la lettura delle opere evita i tecnicismi, le vicende della protagonista (che, come nella silhouette di copertina, è Gainza eppure non lo è) vengono costruite sommando immagini, dettagli, citazioni letterarie sparse con discrezione da una voce narrativa mutevole e raffinata, che passa senza sforzo dalla prima alla seconda e terza persona, alterna l’ironia a tragedie sommesse e durezze improvvise, crea personaggi e scene di suggestione non inferiore a quella dei quadri esplorati, e soprattutto si serve di una scrittura di inusuale sicurezza.

Collage vertiginoso, come quelli verde-azzurri con cui una cugina di María ricopre, prima di uccidersi, le pareti di una villa diroccata, quasi a simulare l’onda di Courbet, Il nervo ottico ha una struttura aperta, senza un vero e proprio inizio e con molte differenti vie d’ingresso e di uscita, ma non è un labirinto, perché a farci da guida sono i sassolini rivelatori che l’autrice dissemina qua e là, dicendoci, per esempio: “si scrive di una certa cosa per raccontarne un’altra”. Oppure confessando: “Gli unici frequentatori dei musei che mi piacciono sono i bambini delle elementari. Anche se è un piacere agrodolce, perché appena si siedono in semicerchio sul pavimento gelato della sala e la maestra inizia a spiegare la pala di Velázquez, le loro facce si tingono di una tonalità tra il verde e l’azzurro, e le occhiaie si trasformano in trincee tenebrose. “Smettetela!” vorrei gridare. Se somministrata male, la storia dell’arte può essere più letale della stricnina”. Ed è forse per trasformare il veleno in nutrimento, che María Gainza ha scritto questo libro.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2017

giovedì 9 novembre 2017

Da leggere: Alfonsina Storni



Alfonsina Storni


Una donna nuova

Nel dicembre del 1983, in un’Argentina appena uscita dalla dittatura apparve Alfonsina, una rivista quindicinale fondata da Maria Moreno: pagine che rivelavano l’influenza del più audace femminismo europeo e miravano a ridefinire i ruoli di genere, ma anche ad affrontare i più spinosi temi del presente, contando tra l’altro sull’insolita collaborazione di alcuni scrittori disposti a nascondersi dietro pseudonimi femminili, come Rosa L. de Grossman (Néstor Perlongher), María de la Cruz Estévez (Fogwill) o Rosa Montana (Martín Caparrós). Ci fu chi considerò il nome della rivista un omaggio al presidente eletto dopo il ritorno alla democrazia, Raúl Alfonsín, ma in realtà l’intenzione era quella di evocare una grande figura della mitologia nazionale, seconda soltanto ad Evita: Alfonsina Storni, poetessa, giornalista, drammaturga, insegnante, nata nel Canton Ticino nel 1892, arrivata in Argentina a tre anni e morta suicida nel 1938.

La scelta di quel nome da parte di una rivista così sofisticata confermava la rivalutazione critica di un’autrice amatissima, a lungo confinata in un territorio letterario ambiguo, e sembrava anticipare gli studi e le interpretazioni di quanti, a partire dagli anni ’90, hanno cercato di diradare le nebbie del mito tragico cresciuto attorno alla biografia di Alfonsina, che si era sovrapposto, fino a sostituirla, all’analisi di un’opera composta da otto volumi di versi, commedie e brillanti “farse pirotecniche”, e una notevolissima quantità di articoli, reportages e cronache apparsi su quotidiani e riviste. Una parte di questa produzione giornalistica a lungo dimenticata ci viene ora proposta in Cronache da Buenos Aires (Casagrande, pag. 152, e. 18.00, traduzione di Marco Stracquadaini), un’antologia curata dalla studiosa svizzera Hildegard Elisabeth Keller, che ha scelto trenta testi pubblicati fra il 1919 e il 1921 sul settimanale La Nota e il quotidiano La Nación, corredandoli di un’ampia prefazione: un primo assaggio della prosa di un’autrice tradotta in italiano solo sporadicamente, nonostante sia tra i classici della poesia latinoamericana al femminile, accanto a Gabriela Mistral e all’uruguayana Juana de Ibarbourou.

Rappresentata fin troppo spesso come un’eroina da melodramma, Alfonsina fu in realtà una “donna nuova”, in largo anticipo sui tempi: cresciuta tra Rosario e piccoli paesi della provincia argentina, a vent’anni si trasferì da sola a Buenos Aires, senza un soldo e incinta di un uomo sposato, riuscendo a cavarsela con lavoretti di ogni genere, finché, dopo la pubblicazione del primo libro di versi nel 1916, arrivarono gli incarichi di insegnante e le collaborazioni con i giornali. Tra mille problemi economici (rimase povera per tutta la vita) e continui traslochi, fu l’unica donna a frequentare le riunioni degli scrittori e critici raccolti intorno alla rivista Nosotros e al gruppo Anaconda di cui facevano parte Leopoldo Lugones e Horacio Quiroga, suo grande amico e forse amante, e riuscì a conquistarsi quasi a forza uno spazio tutto suo, grazie a versi che parlano del desiderio femminile, del diritto di usare il proprio corpo liberamente, della doppia morale che pretende dalle donne una virtù immacolata, mentre concede all’uomo ogni trasgressione.

Considerata “peccaminosa” da alcuni, recensita con benevolenza condiscendente da altri, disprezzata dai redattori della rivista Martín Fierro (Borges la chiamava comadrita e trovava abominevoli le sue poesie), per gli intellettuali dell’epoca era una modesta poetisa – termine vagamente dispregiativo, rispetto al più nobile poeta –, di scarsa cultura e imbevuta di retorica tardo-romantica, “pacchiana perché non sa scrivere in altro modo”, nota Beatriz Sarlo nel suo saggio Una modernità periferica. Buenos Aires 1920-1930 (Quodlibet 2005), in disaccordo con una parte della critica attuale, che vede in Alfonsina la singolare capacità di dare valore poetico alle espressioni correnti e al linguaggio “basso”, oltre a una discreta abilità nella costruzione metrica. Ed è sempre la Sarlo a osservare che, grazie alla forma facile e accessibile della sua poesia, Storni riuscì a proporre con le prime sei raccolte (nelle ultime approfondì una esigente ricerca formale, allontanandosi dai suoi consueti lettori), contenuti del tutto nuovi e in qualche modo rivoluzionari a un vastissimo pubblico, diverso da quello dei circoli intellettuali, riscuotendo un immenso successo e diventando una figura estremamente popolare.

Socialista e sostenitrice del suffragio femminile, si rifiutava di essere zittita e, parlando di sé, parlava per tutte le donne, rimproverandole e spronandole allo stesso tempo: un atteggiamento evidente soprattutto nelle cronache, brevi saggi di giornalismo narrativo che sembrano anticipare le Aguafuertes scritte nel decennio successivo da Roberto Arlt (un altro outsider letterario), che come lei raccontava e in un certo senso incarnava la modernità urbana; tutti e due, mescolando realtà e finzione, ironia e invettiva, ritrassero abilmente la vita di Buenos Aires, metropoli dove un nuovo benessere e lo sviluppo dell’industria editoriale garantivano letture a buon mercato alle classi popolari, favorendo la nascita dello scrittore di professione, che si guadagnava la vita con la penna e, all’occorrenza, scriveva su commissione, adattandosi a spazi prefissati.

Alfonsina diede un taglio nuovo alle rubriche femminili ormai presenti da tempo in tutti i giornali, parodiandone maliziosamente lo stile; aveva accettato di occuparsene soprattutto per ragioni alimentari, ma grazie a lei le puntate di Feminidades, apparse su La Nota, e di Bocetos femeninos, firmate con lo pseudonimo maschile di Tao Lao su La Nación, diventarono qualcosa che nessuno si aspettava: riflessioni che svelavano l’opera di costruzione di un corpo femminile standard, uniformato dalla moda e dall’acconciatura; ammonimenti sui rischi della caccia a un marito; considerazioni ironiche sulla mascolinità “fossile” e le sue idee pietrificate. Ma le cronache in cui Storni dava il meglio di sé erano quelle dedicate alla realtà quotidiana delle donne, dalle signore eleganti alle sartine, dalle studentesse alle immigrate, sempre pronte a illudersi anche se sottoposte alla pressione delle aspettative sociali, costrette a scegliere tra silenzio e chiacchiera vuota, ritenute legalmente incapaci e prive del diritto di voto. Catalogate per tipi o per mestieri, vengono amabilmente prese in giro da Alfonsina, che le vede aderire senza farsi troppe domande a immagini e modelli prestabiliti, inclusi quelli imposti dalla cultura di massa, dal cinema alla musica alla stampa popolare, e le incita a riappropriarsi di se stesse: “Le eroine”, “La perfetta dattilografa”, “L’impeccabile”, “Le crepuscolari”, “La ragazza-pappagallo”, “Le manicure”, “Le professoresse”, sono solo alcuni dei ritratti riuniti nella seconda parte dell’antologia, simili a istantanee o a figurine di un vivace quadro impressionista.

Ogni cronaca dà conto, sotto la maschera di un linguaggio apparentemente morbido e scherzoso, delle convinzioni dell’autrice e della sua ideologia, ma anche del suo invito a riempire gli spazi che lei stessa lascia vuoti, per invitare le lettrici a trarre le loro conclusioni. E sono proprio le cronache a svincolare definitivamente Storni dalla logora convenzione che la voleva nevrotica, consumata da amori infelici, depressa e delusa, affascinata dalla morte e predestinata al suicidio, mentre quella di togliersi la vita con un ultimo tuffo in mare, dopo aver scritto un “antisonetto” di congedo e due lettere al figlio Alejandro, era stata ancora una volta una scelta di libertà. Torturata da un tumore ormai incurabile, Alfonsina aveva disposto di se stessa come aveva sempre fatto e, che lo prevedesse o no, era diventata definitivamente una leggenda.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel novembre del 2017

sabato 28 ottobre 2017

Da leggere: Valeria Luiselli

Valeria Luiselli


Bambini perduti

Le sorelline hanno cinque e sette anni, vengono dal Guatemala e hanno viaggiato fino alla frontiera con un coyote, un uomo pagato dalla loro madre, emigrata da anni a Long Island; una volta varcato il confine tra Messico e USA sono state arrestate e chiuse in un freddissimo “deposito di bambini” chiamato non a caso “la ghiacciaia”, e poi la madre è andata prenderle, avvertita grazie al numero di telefono ricamato dalla nonna all’interno dei vestiti, in un punto nascosto. Potrebbe essere il lieto fine di una fiaba: il viaggio, le dure prove, un talismano segreto e la presenza di un “aiutante magico”, se così si può definire il coyote che le ha scortate e che, dice la più grande, “Era gentile, certo”. In realtà la storia è appena cominciata, perché adesso le due sorelle non sono più bambine, ma minori non accompagnate, immigrate clandestine e senza documenti: per questo stanno raccontando la loro vita, come possono e sanno, a una giovane donna che prende appunti e cerca di trasformare le loro voci incerte e perplesse in risposte alle domande del formulario che ha davanti.

Quella giovane donna è Valeria Luiselli, la più nota e apprezzata tra le scrittrici messicane nate negli anni ’80, autrice di un libro di cronache e di due romanzi (Volti nella folla e Storia dei miei denti), che dal 2011 vive e lavora a New York e per un anno è stata interprete volontaria per la Icare Coalition – che fornisce assistenza legale gratuita ai minori “clandestini” – durante la cosiddetta crisi migratoria che tra il 2014 e il 2015 ha visto arrivare negli Usa oltre centomila bambini e ragazzi centroamericani, spesso chiamati da genitori e parenti emigrati da tempo, oppure spontaneamente in fuga da abusi, miseria e abbandono, e soprattutto dalle bande che vogliono reclutarli a forza come “carne da cannone” per il narcotraffico.

Da questa esperienza è nato Dimmi come va finire. Un libro in quaranta domande (pag. 94, e. 13, pubblicato da La Nuova Frontiera, che ha già proposto in Italia gli altri libri dell’autrice), saggio e racconto in cui cifre, dati, riflessioni, cenni autobiografici, storie, danno vita a un testo privo di sensazionalismo, asciutto e mai sentimentale, composto da frammenti accostati con la cura formale del romanziere sperimentato, ma soprattutto animati da una lucidità e una rabbia pronte a “trasformarsi in capitale politico”. Scritto direttamente in inglese e subito pubblicato negli Stati Uniti, con un titolo ispirato alla domanda costante della figlia di Valeria Luiselli (Come va a finire la storia di quei bambini?), il libro è poi apparso in spagnolo, in una versione leggermente accresciuta e con un altro titolo, I bambini perduti, che sembra rimandare al romanzo di J. M. Barrie, con i suoi bebè caduti dalla carrozzina e raccolti da un provvidenziale Peter Pan.

Luiselli ci parla, invece, dei bambini che durante il viaggio non sono caduti dalla Bestia (così i migranti chiamano i treni merci sui quali si arrampicano per raggiungere la frontiera), non sono stati rapiti, non sono spariti senza lasciare tracce, ma sono arrivati a destinazione solo per diventare dei removable aliens: una massa indistinta che l’amministrazione Obama ha affrontato con cinismo degno di una Trumplandia ancora di là da venire, tramite il Priority Juvenile Docket (provvedimento per rendere rapidissimo il processo di espulsione) e l’accordo con il presidente messicano Peña Nieto, che ha varato, grazie anche a un finanziamento nordamericano, il Programa Frontera Sur contro l’immigrazione centroamericana, aggiungendo la brutalità istituzionale a quella dei trafficanti e delle bande che rendono infernale, per i migranti, l’attraversamento del Messico.

La struttura attorno alla quale si articola il libro è fornita dalle quaranta domande del questionario messo a punto dalla Icare Coalition per vagliare le possibilità di una difesa efficace contro l’espulsione, e proprio per questo Dimmi come va a finire finisce per assomigliare, che il lettore se ne renda conto o no, a un superbo lavoro di traduzione: le storie raccontate dai bambini e dai ragazzi, spesso in modo confuso o laconico per ragioni di età, di diffidenza e della difficoltà di collegare le domande alle proprie esperienze, non vanno solo trasferite da una lingua a un’altra, ma anche decifrate e ricomposte con pazienza ed empatia. La “traduzione” più interessante, però, è quella che propone di sostituire parole come immigrati, clandestini, illegali, con altre più pertinenti: nessun essere umano è illegale e nessun bambino è un immigrato, ma piuttosto un rifugiato, un profugo in cerca di scampo da situazioni le cui cause e i cui effetti hanno radici nel continente intero, inclusi gli Stati Uniti, dei quali tutti conosciamo il ruolo nelle vicende dell’America latina.

Testo politico e quietamente furibondo, saggio di rara intensità letteraria che va oltre la pura testimonianza o la cronaca, e che conferma la duttilità e l’originalità di una voce sempre riconoscibile – com’è quella di Luiselli, scrittrice errante e bilingue impegnata in un affascinante work in progress – Dimmi come va a finire suscita echi scomodi e familiari anche nei lettori europei e soprattutto italiani, non offre risposte ma fa presente che sarebbe ora, forse, di porci nuove domande, prima di essere sommersi da una marea crescente: non quella dei migranti, ma una ben più cupa e pericolosa.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2017

venerdì 20 ottobre 2017

Da leggere: Emiliano Monge

Emiliano Monge


Terra bruciata, un viaggio all’inferno 

Una radura circondata da tronchi colossali con radici come arterie, su cui planano i suoni emessi dalla selva nella sua ora più buia, e, al centro dello spiazzo, un gruppo di fuggiaschi che tra un attimo smetteranno di essere persone per diventare merce in vendita: mano d’opera gratuita, sicari arruolati nelle guerre dei narcos, schiave dei bordelli, carburante per un motore che non si ferma mai, alimentato dalla speranza di quelli che tentano di fuggire dalle guerre, dalla miseria estrema, dalla terra bruciata che li circonda e li assedia.

Ed è proprio Terra bruciata (La Nuova Frontiera, pag. 317, e. 19,50) il titolo del romanzo con cui il messicano Emiliano Monge ci proietta di colpo, con un incipit quasi rovente, nella foresta messicana attraversata dai migranti clandestini centroamericani (arrivano dall’Honduras, dal Guatemala, da El Salvador, dal Nicaragua) per raggiungere la frontiera con gli USA, e che a migliaia vengono traditi da chi li guida, consegnati ai trafficanti e poi “spezzati” con stupri e torture, per garantirne la futura docilità. Una tragedia nota che, tuttavia, il Messico si rifiuta di guardare, di vedere, limitandosi ad affrontare il problema con deportazioni e centri di detenzione che non hanno nulla da invidiare a quelli libici, altrettanto “invisibili” agli occhi dell’Europa.

Il silenzio e l’indifferenza, tuttavia, non sono impenetrabili né assoluti, come dimostrano le ottime inchieste di giornalisti coraggiosi. Ma in un paese come il Messico, che raramente può e vuole eludere il peso di una violenza costante e pervasiva (arrivando perfino a banalizzarla, come nel caso della ormai scontata narcoliteratura), anche la narrativa ha affrontato le storie dei migranti centroamericani, con alcuni testi diversissimi tra loro per struttura e stile; e il più recente è appunto quello di Emiliano Monge, che, vicino ai quarant’anni e dopo due romanzi e due raccolte di racconti, si dimostra, con un libro “destinato a restare” (così scrive sulla rivista Letras Libres l’abitualmente severo Christopher Domínguez Michael), un attendibile erede della grande letteratura messicana e latinoamericana.

Quello che ci consegna, dopo anni di ricerche e la consultazione di innumerevoli fonti, non è, come forse ci si potrebbe aspettare, un racconto di taglio testimoniale e rigidamente realistico, ma un ambizioso e complesso esercizio narrativo con forti echi allegorici e metaletterari (Dante, il mito, la tragedia elisabettiana) e percettibili, illustri influenze (Sada e Rulfo, Gardea e Revueltas), articolato attorno a una vicenda che si svolge in settantadue ore colme di una violenza quasi insostenibile. La voce narrante, che osserva ogni cosa, sembra offrirsi come mediazione tra chi legge e il punto di vista di coloro che “vengono scritti”, in primo luogo i trafficanti, protagonisti assoluti della storia: Epitaffio e Stele, cresciuti nell’orfanotrofio di Padre Loculo, che accoglie i bambini rapiti ai migranti, li marchia e li alleva per farne membri efficienti dell’organizzazione. E poi Funerale, Mausoleo, Ossaria, Cimitera, membri della banda, e i vecchi fratelli che da sfasciacarrozze sono diventati “sfasciacadaveri”, e i due ragazzi della selva, guide infedeli e indifferenti, e i militari complici e corrotti.

Ognuno dei trafficanti si nasconde dietro soprannomi cimiteriali che rimandano alla tradizionale cultura messicana della morte, ma segnalano anche la loro natura di traghettatori infernali, spassionatamente crudeli, che attraversano la foresta-Stige, le montagne, il deserto, con un carico di anime morte chiuse in enormi furgoni e private di tutto, della patria, del passato, del nome. Una massa indistinta e innominata di corpi ridotti a macchine da lavoro, ingranaggi e pezzi di ricambio, ma non privi di voce, o meglio di tante piccole voci (sparse in corsivo per tutto il testo, sono le testimonianze dei migranti sopravvissuti, raccolte dalle organizzazioni umanitarie che cercano di soccorrerli), una sorta di coro greco cui risponde, a volte, il rapidissimo contrappunto di uno o due versi tratti dalla Divina Commedia. Un dialogo che potrebbe apparire artificioso e forzato, e che invece risulta credibile e quasi inevitabile, nell’Inferno in cui tutti si muovono, con gesti resi sempre uguali dalla coazione a ripetere dei dannati.

A nessuno di loro è stato consentito di vivere un altro destino, la violenza li ha modellati per procacciare materie prime (mani, muscoli, schiene, organi genitali, carne da usare) e muoversi con efficienza secondo un rituale prestabilito nel quale, però, si aprono continue falle: il tradimento, la vendetta, l’imprevisto. E la falla più grande è la storia d’amore tragicamente qualunque (e proprio per questo surreale) che è l’ossatura del romanzo: quella di Epitaffio e Stele, separati di continuo dai viaggi per le “consegne” e di continuo torturati dal cellulare che, tra foreste e montagne, non riesce a metterli in comunicazione, crea equivoci, suscita disperazioni. Due mostri amanti, di bruttezza e ferocia assoluta, ma che si amano da sempre e alla follia, non possono parlarsi e corrono verso un finale shakespeariano, per diventare vittime che è impossibile compatire.

Intorno a loro e alla demoniaca corte che li circonda, l’autore tesse la rete di un linguaggio e uno stile ammirevoli, inventandosi un’oralità che, come quella rulfiana, non esiste (è Monge stesso a farlo notare) e risulta in realtà estremamente letteraria, pronta a sovvertire l’ordine consueto della frase, a ribattezzare più volte i personaggi in funzione delle loro trasformazioni e stati d’animo, e ad azzardare toni lirici ed epici che suscitano immagini sfolgoranti e sinistre.

Inevitabilmente, e nonostante l’eccellente lavoro della traduttrice Natalia Cancellieri, nella versione italiana qualcosa si perde, ritmo e suono si alterano o si affievoliscono, come di solito accade quando si trasferisce in un’altra lingua una scrittura così densa e originale. Ma poco importa, perché questa danza macabra, così simile a tante altre in corso attorno a noi, conserva in ogni modo una forza evocativa capace di reinventare la realtà, per mostrarcela meglio.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2017

Anniversari e addii: Maria Elena Walsh

Maria Elena Walsh


Cinque anni senza “la Walsh”

Nella primavera del 1973, conclusa l’ennesima dittatura, l’Argentina era di nuovo alla vigilia delle elezioni, e il settimanale Extra (abbastanza conservatore da fiancheggiare, in seguito, la Giunta militare) chiese a Maria Elena Walsh un articolo rivolto alle donne incerte su chi e che cosa votare. Lei accettò, ma quello che consegnò a Bernardo Neustadt, discusso direttore della rivista, era un testo intitolato Lettera a una compatriota, in cui non si davano indicazioni di voto e si parlava invece del Movimento di Liberazione della Donna: un appello limpido e duro alla “sorellanza” e alla rivolta che, nell’Argentina dell’epoca, faceva pensare allo scoppio di un petardo in camera da letto o in cucina, luoghi consacrati alla femminilità così come la intendevano l’opinione comune, la Chiesa, i governi deposti o creati da regolari colpi di Stato.

Buone le donne con elemosine e contentini (“ma noi, come i neri, i colonizzati, la classe lavoratrice, man mano che prendiamo coscienza non vogliamo saperne di elemosine; vogliamo quello che ci appartiene di diritto e che giorno per giorno ci viene strappato, cioè TUTTO”), Maria Elena Walsh aveva allora quarantatré anni ed era una celebrità nazionale nel campo della letteratura e soprattutto della musica per l’infanzia. Le sue canzoni, dai testi per nulla scontati o concilianti, formavano l’ossatura di spettacoli in cui lei rivestiva il ruolo di juglar ossia di menestrello –, e scivolavano poi in altri formati, grazie all’uso oculato di una vera “catena multimediale”: dischi, televisione, libri che si aggiungevano alle storie che “la Walsh” aveva cominciato a pubblicare già nel 1960 con enorme successo.

Dietro la fama di autrice per bambini c’erano, che il suo pubblico lo sapesse o no, una personalità polemica e complessa, un graffiante senso dell’umorismo e il desiderio di affrontare esperienze sempre nuove sin da quando, a diciassette anni, aveva vinto un premio importante con il suo primo libro di versi, Otoño imperdonable, capace di attirare l’attenzione della società letteraria argentina (Victoria Ocampo la volle come collaboratrice della rivista Sur), ma anche quella di Juan Ramón Jiménez, futuro premio Nobel per la letteratura. Esule negli Stati Uniti, il poeta spagnolo le offrì una sorta di borsa di studio e sei mesi di ospitalità: un rapporto difficile, quello tra l’allieva e il mentore, dal quale, tuttavia, la ragazzina imparò moltissimo; la severità di Jiménez la aiutò forse a capire che, pur senza rinunciare alla poesia (negli anni avrebbe scritto altri libri di versi, dignitosi ma non indimenticabili), poteva tentare altre avventure.

Nel 1951, infatti, Maria Elena lasciò di nuovo Buenos Aires (dov’era nata da una famiglia di origine inglese), “rapita” da Leda Valladares, musicologa e folklorista che la portò con sé a Parigi, lontano dal detestato peronismo (col quale Walsh, però, si riconciliò anni più tardi), per formare un duo fortunatissimo, che cantava canzoni andine davanti a platee in cui sedevano Miró, Picasso o Prévert. Anni di liberà assoluta, i primi dischi, e la possibilità di vivere, con Leda, un amore che laggiù sembrava non scandalizzare nessuno.

Dopo un ritorno in patria che finì per dividerla da Valladares, Maria Elena si reincarnò in una solista di straordinaria notorietà, e trovò una nuova compagna nella regista María Herminia Avellaneda, che la diresse in Tv, in un paio di film e soprattutto in teatro, dove Walsh cominciò a stupire anche il pubblico degli adulti con recital sofisticati come Juguemos en el mundo. La nuova Maria Elena, che componeva ed eseguiva canzoni pop aperte a influssi diversi, non sapeva ancora che alcune di esse sarebbero diventate inni della protesta per una sinistra alla quale, in realtà, lei non apparteneva, e che sarebbero entrate nel repertorio di artisti come Mercedes Sosa e Joan Manuel Serrat.

Finché, nel 1978, annunciò (e mantenne la parola) che avrebbe smesso di comporre e di cantare: accerchiata e soffocata dai veti della Giunta militare, doveva anche lottare contro una grave malattia le cui conseguenze la tormentarono per il resto della vita. Non avrebbe smesso di scrivere, però, né rinunciato a pubblicare, in piena dittatura, invettive contro i censori e testi esilaranti come quello in cui elenca i ventiquattro perché di un solido machismo. L’umorismo e il sarcasmo erano, del resto, la sua arma abituale, la più affilata, quella che maneggiava con più abilità.

La Maria Elena pacifista, femminista a oltranza, borghese ribelle e politicamente scorretta, aveva trovato nel 1980 il suo gran amor, la fotografa Sara Facio. Del suo orientamento sessuale, noto a tutti, nessuno aveva mai parlato pubblicamente, lei compresa, che non si era mai finta eterosessuale, ma che, fece notare in una delle sue ultime interviste, non vedeva motivo per raccontare i fatti propri. Nel 2008, però, si decise infine a “uscire dall’armadio” dichiarando il suo trentennale amore per Sara in Fantasmas en el parque, secondo e ultimo libro scritto per gli adulti – nel primo, Novios de antaño, aveva rievocato gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza –, che è insieme un romanzo e un’autobiografia, in cui sogni, ricordi di viaggi e di incontri, confessioni e soprattutto ombre amate o detestate, si accumulano e si fondono, proprio come le contraddizioni, le asprezze e le risate di Maria Elena, che è morta cinque anni fa lasciandoci questa singolare “macchina del tempo” in cui, scrive il suo amico Leopoldo Brizuela, non appaiono una sola volta le parole gay, lesbica, omosessuale, eppure si realizza “una costante riflessione su come ricordare in letteratura ciò che a suo tempo si sperimentò in segreto”. Un addio degno di quella che è stata e resta una delle figure più popolari e più amate della cultura argentina.

 

 Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2017

domenica 24 settembre 2017

Da leggere: Adrián Bravi


Adrián Bravi



Infanzia argentina, maturità italiana

Diceva Juan José Saer che quasi tutta la letteratura argentina del XIX secolo è stata scritta in esilio e dall’esilio, e lo stesso si può sostenere, tutto sommato, a proposito di quella del secolo scorso e del nostro, così spesso concepita sotto cieli diversi da quello nativo. Basterebbe ricordare i “parigini” Cortazar, Bianciotti, Copi e lo stesso Saer; Tomás Eloy Martinez, prima rifugiato in Venezuela e in Messico, poi professore per anni e anni a Rutgers; Juan Rodolfo Wilcock, che nel 1957 scelse di stabilirsi in Italia… E l’elenco di chi se n’è andato – a volte per non tornare, a volte per rientrare da semplice visitatore o per sempre – potrebbe essere infinitamente più lungo, viste le dimensioni di una diaspora dalle motivazioni diverse e mai davvero conclusa.

Accanto a coloro che, vivendo in un costante bilinguismo, hanno continuato a scrivere nel castellano fedele alle peculiarità dell’idioma argentino, c’è chi ha rinunciato alla lengua madre per adottarne un’altra: il francese per Bianciotti e Copi, l’inglese e il francese per Sylvia Molloy, un superbo italiano per Wilcock… E in italiano, dopo un romanzo d’esordio in spagnolo, scrive dal 2004 anche Adrián Bravi, nato a Buenos Aires, che venticinque anni fa ha affrontato in senso contrario il viaggio compiuto dai suoi nonni due generazioni prima, per approdare ai luoghi (le Marche) dai quali la famiglia era partita e a una lingua conosciuta solo attraverso il cocoliche della nonna, quel misto di italiano e spagnolo degli antichi immigrati, abbastanza vigoroso da infiltrarsi in certe pieghe della parlata e del teatro popolare argentini.

Bravi, con sei romanzi pubblicati da Nottetempo e un libro di racconti, è oggi un autore affermato, che, invitato a Cordoba dal nostro Istituto di Cultura, si è ritrovato paradossalmente a parlare in italiano a un pubblico ispanofono e a ricevere un suggestivo ammaestramento da un anziano immigrato calabrese, pronto a spiegargli che “lo spagnolo è una lingua bella e musicale, ma troppo gelosa: una lingua che uccide tutto intorno a sé, perché vuol sempre prevalere sulle altre”. Così, per la prima volta, all’autore è venuta l’idea di scrivere un libro su La gelosia delle lingue, proprio quello che adesso, a qualche anno di distanza, appare per le Edizioni Università di Macerata (pag. 180, e. 10): un testo diviso in capitoli brevi, ma assai ricco sia di citazioni colte, sia di deliziosi excursus autobiografici (i giochi nel giardino di un vicino di casa chiamato Ernesto Sabato; la zia che, sul piroscafo per l’Argentina, finita l’acqua potabile allatta i bambini assetati, senza riuscire a salvarli tutti), racchiusi nella “maternità” piena di ricordi e di sotterranee correnti poetiche del castellano di un tempo, che per Bravi è una lingua senza vecchiaia, così come l’italiano è e rimane una lingua senza i colori e i sapori dell’infanzia.

Oltre ad esplorare il proprio percorso tra lo spaesamento e il progressivo installarsi in un italiano amichevole e ospitale, che offre le suggestioni dei dialetti e acconsente ad accogliere intonazioni, costruzioni, echi della lengua madre, Bravi affronta i casi affini e diversi di scrittori che hanno abbandonato la propria lingua per scrivere in un’altra percepita come imprendibile e ostile (è il caso di Agota Kristoff), o della quale si servono per affrontare nuove sfide stilistiche (ed è il caso Beckett o di Nabokov). Qualcuno, come Bianciotti e Wilcock, vuole spogliarsi del passato, quasi fosse una placenta dalla quale si emerge per rifondare la propria scrittura, e forse la propria vita; altri, come Canetti e Anita Desai, scelgono una lingua per mettere ordine tra le molte che li accompagnano sin dalla nascita. E c’è poi chi ha dei conti da regolare con una lingua divenuta quella dei nemici (Fred Uhlman e Jean Améry, o la meravigliosa ceramista Adelaida Gigli, emigrante di ritorno, che a volte rifiuta di parlare il castellano in cui ha allevato i due figli desaparecidos), o chi, come Hanna Arendt, quella stessa lingua la assolve e se la tiene stretta.

A questi “casi esemplari” di scrittori e intellettuali, che disegnano una rete di interrogativi sul rapporto tra la letteratura e la delicata trama delle lingue che la attraversano, si intrecciano però anche altri fili: l’identità, la migrazione, la memoria, l’esclusione di coloro che “non riescono a uscire dalla propria lingua” per confrontarsi con quella del luogo in cui la guerra o la fame li hanno sospinti; la necessità di intaccare l’omogeneità di un sistema, l’insinuarsi di altre immagini e altre storie, l’estendersi di zone aperte in cui si definiscono nuovi modi di pensare e di vedere; la consapevolezza che la lingua in cui stiamo parlando o scrivendo ne contiene molte altre, sommerse, nascoste, come afferma Anita Desai riferendosi al suo Notte e nebbia a Bombay. Vivere tra le lingue ed esserne vissuti, dunque, sapendo sempre che “il cambio di lingua presuppone una specie di “tragedia privata”. Si ha l’esperienza di una trasmigrazione, ma senza la perdita del passato, perché, in questo caso, il passato viene rivisitato alla luce di una nuova lingua. A quel punto, ci sembra di avere una vita spezzata, divisa da due o più lingue; ogni ricordo parla la sua”. Un argomento sul quale vale la pena di riflettere, se è vero che, come ci ricorda Bravi, “vivere significa migrare”.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto il 22 settembre 2017

martedì 15 agosto 2017

Anniversari e addii: Juan Goytisolo

Juan Goytisolo e Monique Lange


Juan Goytisolo, lo scrittore errante

Juan Goytisolo voleva essere seppellito in Marocco, il paese dove aveva scelto di risiedere (e dove possedeva una casa nella Medina di Marrakech, vicinissima alla piazza Jâmiʻ al-fanâʼ, che aveva contribuito a far dichiarare Patrimonio dell’Umanità), e si raccomandava che non riportassero il suo corpo a Barcellona, la sua città natale, per rinchiuderlo nella tomba di famiglia, una pretenziosa riproduzione in miniatura del Duomo di Milano, che per lui era il simbolo di “tutto l’orrore della classe borghese e sfruttatrice” rifiutata e combattuta sin da ragazzo. Desiderava, inoltre, che la sua sepoltura fosse estranea ai simboli di qualsiasi fede religiosa, ed è per questo che uno tra i più grandi e singolari scrittori spagnoli contemporanei, morto il quattro giugno, riposa ora a Larache, nel vecchio cimitero laico dove nel 1986 venne sepolto Jean Genet, che per lui era stato un punto di riferimento “più morale che letterario”.

I due si erano conosciuti durante l’esilio francese di Goytisolo, nato nel 1931 ed espatriato nel ’56 per stabilirsi a Parigi – in Spagna le sue opere erano proibite, tanto che fino al 1975 vennero pubblicate da editori messicani –, e a farli incontrare era stata Monique Lange, che lavorava per l’editore Gallimard, del quale lo scrittore era autorevole consulente per l’area ispanica (“Juan Goytisolo è stato il primo scrittore spagnolo del suo tempo a interessarsi della letteratura latinoamericana, a leggere e promuovere i nuovi romanzieri, e a farli tradurre in francese. Fu, anche, uno dei primi a capire che la letteratura di lingua spagnola era una sola, e a sforzarsi di riunire di nuovo queste due comunità di scrittori delle due rive dell’oceano…” ha scritto di lui Mario Vargas Llosa). Amici fino alla fine, i due scrittori, e uniti fino alla fine anche Goytisolo e Monique, romanziera squisita e intellettuale di raro acume scomparsa nel 1996, che per trent’anni gli fu accanto e lo sposò nel 1978: un rapporto saldo quanto insolito, visto che negli anni ’60 Juan decise di dichiarare apertamente la propria omosessualità, in tempi in cui “la letteratura spagnola era muta dalla cintola in giù”, come ha sottolineato il critico letterario Manuel Alberca.

Per Goytisolo quel disvelamento così netto, quasi brutale, rappresentò un momento di rottura, accompagnato non solo da soggiorni in Nordafrica sempre più prolungati (si fermerà definitivamente a Marrakech solo dopo la morte di Monique), ma anche da una brusca svolta che ne rifondò l’opera, a partire dalla stesura del romanzo Señas de identidad, il suo “esame di coscienza”, pubblicato nel 1966.

Fino ad allora Goytisolo era collocabile nella corrente del “realismo sociale” spagnolo, come testimoniano i romanzi e i racconti scritti tra il ’54 e il ’62, e poi in qualche modo rinnegati (“politicamente inefficaci, le nostre opere erano, oltretutto, letterariamente mediocri; credendo di fare letteratura politica non facevamo né una cosa né l’altra”, scrisse nel saggio Literatura y eutanasia), anche se l’impegno politico e l’indignazione per l'ingiustizia non vennero mai meno, facendone un testimone prezioso delle guerre in Bosnia e in Cecenia, un avversario acerrimo del nazionalismo e del neoliberismo, un critico severo delle ortodossie religiose, dell’ipocrisia omofobica e di un mondo “intrappolato tra consumismo e terrore”.

È da Señas de identidad, in poi che tutto cambia e che Goytisolo rivendica non solo la “felicità fisica” di un’omosessualità che non gli impedisce di mantenere un’intensa relazione affettiva con Monique (alla quale dedicherà, dopo la precoce scomparsa, un piccolo libro struggente, intitolato Elle), ma anche una libertà letteraria proiettata verso la ricerca costante del nuovo – “senza idea di novità non c’è autentica opera” – e sciolta dai lacci della tradizione. La differenza tra il periodo del realismo e quello successivo è enorme, e la confermano mirabili provocazioni come Reivindicación del conde don Julián, Juan sin Tierra, Makbara, Paisajes después de la batalla, La saga de los Marx, Telón de boca, El exiliado de aquí y de allá, in cui si consolida via via una perpetua sperimentazione, mentre saltano i confini tra poesia e prosa e si afferma un intreccio di tempi e spazi differenti, di richiami all’oralità (molti dei suoi romanzi, diceva Goytisolo, erano fatti per essere letti ad alta voce), di mescolanza tra “colto” e “popolare”, di allusioni a un canone che non è quello consacrato dalle storie della letteratura spagnola, ma viene da lui esteso, nei testi narrativi come nell’ampia produzione saggistica, ad autori eterodossi, a pensatori emarginati eppure fondamentali, lontani da quella tradizione conservatrice, nazionalista e cattolica culminata nel trionfo del franchismo.

Grande conoscitore del mondo arabo, di cui parlava perfettamente la lingua, proponeva all’Occidente un diverso rapporto, fondato sulla conoscenza e il dialogo, con le tante facce dell’islam, e non esitava a dichiarare il suo rigetto del wahabismo (si rifiutò sempre, infatti, di visitare l’Arabia Saudita), espresso in maniera definitiva in un illuminante articolo apparso nel 2003 sulla Revista de Occidente. Considerando il multiculturalismo un’illusione, optava piuttosto per la conoscenza e il rispetto nei confronti dell’antica e tutt’ora viva pluralità di culture che si nasconde sotto la superficie in apparenza omogena di quelle nazionali; e la lunga lontananza dalla Spagna (cui sempre tornava, però, e sulle cui vicende si manteneva minutamente informato), la vita errante e la scelta di avere molte patrie e nessuna, erano anche un modo per testimoniare l’esistenza, all’interno della cultura spagnola, di questa pluralità soffocata e disprezzata, il cui riconoscimento gli sembrava necessario e inevitabile.

Quanto a lui, si dichiarava “di nazionalità cervantina”, in omaggio a un Cervantes riletto come autore eversivo ed eternamente moderno, e aggiungeva, parlando di sé: “Nato a Barcellona, non mi esprimo in catalano. E neppure sono basco, nonostante il mio cognome. Anche se scrivo e pubblico in spagnolo, non vivo da decenni nella penisola e mi colloco ai margini della corporazione. Per questo mi hanno prima etichettato come francesizzante, anche se in francese ho scritto solo un pugno di articoli. Ora mi chiamano, molto cortesemente, moro, perché padroneggio l’arabo dialettale del Marocco e mi sono stabilito a Marrakech”.

La Spagna, oltre a riservargli molte critiche ingiuste e molte incomprensioni (non solo in vita, se si pensa al meschino e velenoso necrologio stilato sul proprio blog da Juancho Armas Marcelo, cattedratico e scrittore, e apparso sul quotidiano El Mundo) lo ha comunque onorato e riconosciuto, soprattutto negli ultimi anni della sua vita – i più difficili, i più tristi, segnati dalle difficoltà economiche e da molte sofferenze –, con dozzine di saggi e studi sul suo lavoro e con i premi nazionali più importanti, come il Cervantes. In Italia, dove un tempo editori quali Einaudi e Feltrinelli avevano proposto la sua opera, oggi si può leggere ben poco di suo: un’altra conferma di quanto avesse ragione, quando sosteneva che la censura “prima era politica, ma quella di oggi, quella commerciale, è ancora più terribile, perché gli editori pensano che se un’opera non venderà più di duemila copie non vale la pena di pubblicarla. E con questo criterio si rischia di perdere metà della letteratura migliore”. Come la sua.

  

Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul quotidiano Il manifesto nel giugno del 2017

lunedì 14 agosto 2017

Da tradurre: Pablo Tusset

Pablo Tusset


A proposito di turismofobia, Pablo Tusset e il detective Sakamura

“Nella città di Barcellona la vita quotidiana comincia a essere profondamente alterata, dal punto di vista dei suoi abitanti. Da una parte, il turismo etilico del fine settimana o anche di un’unica e prolungata notte, con il suo strascico di liti, rumore e una vasta semina escatologica. Dall’altra, il volume e il peso di un turismo che porta a spasso le proprie carni per tutta la città, in costume da bagno e sandali. E, in accordo con la domanda, il centro urbano che si configura in un’immensa superficie commerciale di abiti e cibo spazzatura. In quanto ai monumenti, è facile localizzarli dalle pazienti code che li avvolgono, i gruppi che si accalcano, le macchine fotografiche che si alzano a mo’ di saluto al sole”.

Così, in un articolo apparso su El Paìs nel novembre del 2005, Juan Goytisolo raccontava la sua città, dove non viveva più da anni ma che visitava spesso, tra l’uno e l’altro dei suoi viaggi di lavoro o di scoperta in paesi lontani. Scomparso pochi mesi fa, il grande scrittore ha fatto in tempo ad assistere agli ulteriori sviluppi di una trasformazione accelerata dall’avvento di Airbnb e delle grandi navi da crociera, e al rimodellarsi di una Barcellona incredibilmente diversa da quella dov’era nato nel 1931 e che aveva visto prima sotto le bombe italiane, poi vessata dal franchismo, quindi in pieno fermento culturale e in impaziente attesa della scomparsa del dittatore, affamata di cambiamenti e di diritti durante la transizione, e infine reinventata per le Olimpiadi del ’92: una città modernissima, memore delle sue lotte e fiera delle sue conquiste sociali, ma soprattutto decisa, come sempre, a realizzare buoni affari.

E quale affare più ricco e promettente del turismo di massa, che però, dichiara uno scrittore famoso come Julio Llamazares, per troppo successo e per assenza di regole rischia di trasformarsi “nell’ultima piaga dell’umanità”, e che proprio in questi giorni ha fatto deflagrare il malcontento e le contraddizioni maturati a poco a poco nella capitale catalana, scatenando un fragoroso dibattito che sembra capace di offuscare perfino l’imminenza del referendum indipendentista, e che si dipana tra polemiche, slogan, piccoli sabotaggi, proteste, multe, divieti, provocazioni e, a sorpresa, anche storie da ridere come Sakamura y los turistas sin karma (Editorial Destino, pag. 285, e. 25,75), il nuovo romanzo che Pablo Tusset e il suo editore hanno mandato in libreria ai primi di giugno.

Nonostante il tempismo perfetto, non si tratta di un instant book, perché Tusset ha cominciato a pensarci dopo aver trascorso quasi un decennio in un piccolo paese vicino a Gerona, dove era andato a smaltire l’enorme successo di Lo mejor que le puede pasar a un cruasán (mezzo milione di copie vendute, un film e un’infinità di traduzioni), il suo primo romanzo, uscito nel 2001 e pubblicato anche in Italia (Il meglio che possa capitare a una brioche, Feltrinelli). Al suo ritorno, lo scrittore ha trovato un’altra Barcellona: “A un tratto era piena di pappagallini verdi, gli adulti portavano i pantaloni corti e i turisti si erano moltiplicati”. Ma nel frattempo era cambiato anche lui, informatico di professione e romanziere per vocazione, per scherzo e perché sì; aveva, per esempio, scritto una novela nerissima, amara e comunque divertente, En el nombre del cerdo (Nel nome del porco, Feltrinelli), e pubblicato un paio di romanzi “seri” firmati col suo vero nome, David Cameo, senza per questo rinunciare al suo lato più sfrenatamente umoristico, che l’ha portato a inventarsi un anziano ispettore giapponese dell’Interpol, protagonista di una prima avventura intitolata Sakamura y los muertos rientes (Destino 2011), e ora riapparso in un sequel distopico dove Barcellona è divenuta Barna City, città-stato e capitale dell’Estrema Europa.

Trasformata in un parco tematico che vive solo in funzione dei turisti, Barna City ha cambiato nome a strade e piazze, ora intitolate a cantanti pop, attori e stelle del rock, eliminando le statue degli eroi locali (che ai turisti non interessano) e sostituendole con quelle dei personaggi di Tolkien, mentre la Sagrada Familia (opera inconclusa di un certo Tony Gaudì) è riconvertita in un aquapark con un immenso tobogan in costruzione. È in questa città fasulla all’ennesima potenza, dove tutto corrisponde al più puro distillato dell’immaginario turistico, che a un tratto due impudenti visitatori giapponesi cominciano ad attaccare vecchi e bambini, imponendo a Sakamura di lanciarsi in un’indagine complicata che include un hipster surgelato, una giovane hacker incapace, un misterioso gatto poliziotto di nome Telefunken, e infine due grandi cattivi, ovvero un certo Moriarty e il suo amico Pablo Tusset, fattosi personaggio del suo stesso romanzo. Il tutto, com’è naturale, con accompagnamento di turisti a migliaia, anzi a milioni… ma soltanto di turisti si tratta, o di qualcosa di molto più inquietante?

Esilarante e sfrenato, il romanzo di Tusset è in realtà un surreale fumetto senza immagini, stipato di riferimenti letterari, musicali, cinematografici, e apertamente parodistico: un Blade Runner alla catalana in salsa all inclusive (ma che non esita a mettere alla berlina, oltre al turismo e alla tecnologia, anche le aspirazioni indipendentiste), in cui si disegna il ritratto di una Barcellona preapocalittica e posguapa, così come, a suo tempo e con ben altri esiti letterari, un piccolo classico quale Nessuna notizia da Gurb di Eduardo Mendoza aveva narrato la Barcellona postolimpica. Di ridere, comunque, non si può fare a meno, leggendo questo romanzetto tra il demenziale e il goliardico, ma tutt’altro che sciocco e con qualche temibile accenno profetico, che offre anche uno spunto ottimista, se non altro perché fa presente che dal turismo di massa possono nascere, oltre alla gentrificazione, a enormi profitti per gli speculatori internazionali e alla devastazione dei quartieri e delle comunità che li abitano, anche prodotti culturali appetibili. Tusset (che peraltro viaggia poco, perché non vuole essere “uno di loro”), si rifiuta del resto di dichiararsi pessimista: sì, ammette, al centro e alla rambla i barcellonesi hanno dovuto rinunciare, ma continueranno a tirare avanti benino, finché sapranno ricavarsi “un angolo tutto per loro”. 

 

Una versione più ampia di questo articolo è apparsa sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2017

giovedì 10 agosto 2017

Da tradurre: Rivero e Spedding

 

                Giovanna Rivero                                                                                                                                        Alison Spedding



Nuove autrici boliviane (o quasi)

La letteratura boliviana, quasi sconosciuta ai lettori italiani e, fino a non molto tempo fa, poco nota anche ai lettori latinoamericani e spagnoli, sta conoscendo in questi ultimi anni una diffusione di gran lunga più ampia che nel passato, grazie all’irruzione di un notevole numero di autori nati tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’80, in buona parte intenti a esplorare temi individuali e intimi, piuttosto che a ritrarre, come in passato, i processi sociali e politici di un paese dalla storia difficile e tumultuosa, segnato da grandi diseguaglianze e dallo sfruttamento spietato dei popoli indigeni.

Tra gli scrittori impegnati a sperimentare una nuova libertà tematica e formale (e molto meno lontani dalla politica di quanto si dica), le donne, escluse in buona parte e per lungo tempo dal canone letterario nazionale, hanno un posto in prima fila. Una delle più interessanti, maestra riconosciuta delle giovanissime che premono alle porte, è Giovanna Rivero, nata nel 1972 e da qualche anno residente negli Stati Uniti, dove insegna in una di quelle Università che, scriveva Ricardo Piglia, offrono a tanti scrittori latinoamericani un modo per guadagnarsi la vita senza rinunciare a scrivere. Autrice soprattutto di racconti, ma anche di due romanzi, Rivero – purtroppo mai tradotta in italiano – costruisce con uno stile complesso, spezzato e denso di metafore, storie come quelle raccolte in Para comerte mejor (Per mangiarti meglio, del 2015), di discreta ferocia e di bellissima scrittura, che sfiorano la fantascienza e l’horror, il fantastico e la Storia, ma soprattutto modulano un approccio “laterale” e insolito a questioni sociali e politiche.

Apertamente e, a volte, beffardamente politici sono invece i romanzi di Alison Spedding, nota quasi soltanto in Bolivia, dove si è stabilita quasi quarant’anni fa: prodigiosamente eccentrica – c’è chi la definisce un’anarco-femminista, e chi la chiama gringa renegada –, nata in Inghilterra nel 1962 e laureata in antropologia a Cambridge, Spedding insegna alla Higher University of San Andrés di La Paz e ha al suo attivo una congrua produzione accademica, ma anche alcuni stupefacenti romanzi scritti direttamente in spagnolo, grazie ai quali viene considerata a tutti gli effetti una scrittrice boliviana, e tra le migliori. Oltre a una trilogia provocatoria, debordante e bizzarra che costeggia generi diversi – romanzo storico, thriller e fantascienza – e la cui protagonista è un’india aymara di nome Saturnina, Spedding ha pubblicato l’anno scorso Catre de fierro, un imponente romanzo corale che racconta quarant’anni di storia boliviana, dal ’52 al ’90, attraverso le vicende di due famiglie, creando intorno a loro un universo immaginario, Saxrani (il rimando alla Comala di Rulfo o alla Santa Maria di Onetti, ma anche a Faulkner, è immediato), e facendo ampio ricorso al suo sapere etnologico e alla conoscenza delle lingue indigene. Alcuni critici l’hanno definito il migliore romanzo boliviano del 2016, e c’è chi aggiunge: “è davvero paradossale che ci sia voluta un’inglese per scrivere il più grandioso ritratto di quella Bolivia decadente che rifiuta di abbandonare i suoi privilegi e i suoi complessi”.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2017

Da leggere: Liliana Colanzi

Liliana Colanzi


Liliana Colanzi, la parola è una tigre

“Diceva mio nonno che ogni parola ha il suo padrone e che una parola giusta fa tremare la terra. La parola è un fulmine, una tigre, un uragano, diceva il vecchio guardandomi con rabbia, mentre si serviva alcol di farmacia, ma guai a chi usa le parole alla leggera”.

Così comincia Chaco, uno degli otto racconti racchiusi in Il nostro mondo morto (gran vía, e. 13,50), uno dei libri più belli che ci siano arrivati quest’anno dall’America latina: centoventi pagine assai ben tradotte da Olga Alessandra Barbato, otto storie originali e potenti, e infine la scrittura di una giovane autrice, Liliana Colanzi, che sulla “parola giusta” deve aver lavorato a lungo, riuscendo ogni volta a trovarla e a usarla con estrema consapevolezza.

Nata nel 1981 proprio nel Chaco, a Santa Cruz de la Sierra, nella regione in cui più numerose erano le leggendarie misiones dei gesuiti, Colanzi ha finora pubblicato due libri di racconti, anzi due e mezzo, perché La Ola, uscito in Cile nel 2014, unisce a quattro testi della sua prima raccolta, Vacaciones permanentes, altri all’epoca inediti e che ora sono confluiti in Il nostro mondo morto: un gioco involontario ma significativo, questo del filo che lega un libro all’altro, come a testimoniare la coerenza e la compattezza di un discorso narrativo, ma anche a segnalarne l’evoluzione.

Nel suo secondo libro, già tradotto negli USA e in Francia, Colanzi riprende e sviluppa alcune sue costanti (le rivolte dell’adolescenza, le madri spietate, la fuga, la lontananza, la morte, l’alterità indigena, il legame con l’infanzia, il contrasto tra il mondo urbano e quello rurale), intrecciandole a temi nuovi e costeggiando spesso un fantastico asciutto e inquietante. L’esplorazione della violenza, della marginalità e di una strisciante follia si incarna in bambini, indios, vagabondi, personaggi che interpellano invano una realtà vacillante, mentre miti, sogni e visioni riemergono in momenti e luoghi imprevedibili come un viaggio in bus o in taxi, o in mezzo al traffico cittadino, e si confondono con immagini e profezie del futuro.

La quotidianità assume sfumature sinistre, soprannaturali: un bar parigino ospita un cannibale; nel buio di un cinema, un diabolico “occhio” assiste alla prima, desolata eppure esplosiva esperienza sessuale di una ragazza; nella sua piccola bara, un cadavere infantile continua (forse) a respirare; una invisibile Onda, perpetuamente in agguato, scatena nel gelo del nord un’epidemia di suicidi e insegue la protagonista fino alla città tropicale dove suo padre sta morendo; in un’astronave approdata su Marte, una ragazza consuma la sua crisi sentimentale e rimpiange la rinuncia alla maternità.

Di racconto in racconto, l’autrice azzarda con successo una doppia ibridazione; la prima è quella tra generi – la fantascienza, il gotico, le storie del terrore – rivisitati con perizia, e a volte solo evocati con lievi tocchi e immagini di grande suggestione (la ragazzina india abbagliata in pieno deserto dalla rivelazione dell’universo, tra omini verdi e cerimoniosi, oppure la giovane scrittrice alla finestra, che intravede i suoi personaggi al di là dal vetro). Il secondo “innesto”, invece, è quello di una recuperata “bolivianità” sul cosmopolitismo comune a tanti scrittori latinoamericani sradicati ed erranti (la stessa Colanzi, che ha studiato a Cambridge e alla Cornell University, vive e lavora negli Stati Uniti, come suo marito Edmundo Paz-Soldán o come i bravissimi Rodrigo Hasbún e Giovanna Rivero, per restare in ambito boliviano), e comunque nutriti di cinema, letture e musica a diffusione planetaria.

“Non ho avuto piena coscienza di quello che significava essere boliviana o latinoamericana, finché non ho lasciato il paese. Vivere fuori dalla Bolivia mi ha aiutato a volgere lo sguardo su atteggiamenti e convinzioni che erano nell’aria mentre crescevo e che nessuno metteva in discussione (il razzismo, il classismo, il machismo), e a osservarle con stupore, ma anche con grande curiosità”, ha detto Colanzi in un’intervista, e i frutti di questo sguardo sono ben evidenti in "Il nostro mondo morto", in cui affiora una Bolivia diversissima da quella di cui ci viene abitualmente rimandata l’immagine, sospesa tra i luoghi comuni di perdute mitologie rivoluzionarie, del sottosviluppo e dell’attuale populismo “caudillista”.

Colanzi non intende presentare la Bolivia a chi non la conosce, né denunciare o analizzare esplicitamente i suoi problemi e le sue contraddizioni, e meno che mai seguire le orme del canone letterario nazionale (il suo background è, del resto, sofisticato quanto ampio, e va ben oltre i confini boliviani), nonostante l’aperto omaggio a Jaime Saenz che conclude l’ultimo racconto. Si avvicina al proprio paese, piuttosto, come a un magnifico serbatoio colmo di culture, lingue, storie, cosmogonie, piani temporali che si sovrappongono e si intersecano, e al quale si può attingere all’infinito, per estrarne materiali che vanno a mescolarsi con quelli della più “globale” contemporaneità.

È così che Colanzi ci offre, oltre a una fabulazione suggestiva e costruita con stupefacente sicurezza, l’obliquo, insolito ritratto di una Bolivia plurale, fatta di voci e tradizioni diverse, che è parte di lei: un paese tutto interiore legato a incubi, nostalgie, esperienze e memorie intime e personali, ma visto con sufficiente distacco da consentire la presenza di percettibili coloriture politiche. E, non ultimo tra i pregi del libro, Il nostro mondo morto è una tra le prove letterarie di questi ultimi anni che più apertamente ci spinge a una riflessione su che cosa significa, oggi, essere uno scrittore latinoamericano. Anche se, va detto, questa era forse l’ultima tra le intenzioni di Liliana Colanzi. 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2017