martedì 22 febbraio 2022

Da leggere: Selva Almada

 


Selva Almada




La voce del fiume 

Capita di rado che un autore venga elogiato da due critici di orientamento opposto, ma è proprio quello che è accaduto a Selva Almada, ugualmente apprezzata sia da Beatriz Sarlo, accademica illustre, sia da Damián Tabarovsky, scrittore e editor, nonché autore di un saggio che ha fatto epoca (Literatura di izquierda, del 2004). Se Sarlo paragona la “sorprendente” Almada a Carson McCullers, Tabarovsky considera l’autrice “una delle apparizioni più interessanti – se non la più interessante – dell’ultima narrativa argentina”, una “maestra del narrare” che si avvicina a Flannery O’Connor. A partire da simili credenziali, non si può che accogliere con interesse l’edizione italiana di Non è un fiume (Rizzoli, pp. 112, e. 15), l’ultimo romanzo di Almada, tradotto da Giulia Zavagna, che ha affrontato con eleganza e abilità la sfida di un registro linguistico proprio di un contesto particolare, quello del nordest argentino, regione di grandi fiumi, isole e terre sommerse, dove la scrittrice è nata nel 1973 e che fa da sfondo a tutte le sue opere.

Nonostante viva da anni a Buenos Aires, infatti, Selva Almada è rimasta profondamente legata alla zona compresa tra le province di Santa Fe, del Chaco e di Entre Rios, patria di narratori e poeti che, a partire da una lunga e importante tradizione, si sono mostrati capaci di reinventare e sovvertire i codici del realismo e di produrre nuovi e ammirevoli esiti estetici. Tocca quindi ad autori di indiscussa importanza come Ricardo Zelarayán o Juan L. Ortiz proporsi come l’autentica genealogia letteraria di un breve romanzo al cui esile filo conduttore – la battuta di pesca di tre amici su un’imprecisata isola in mezzo a un fiume immenso, con gli incontri e gli scontri che ne derivano – si allacciano di continuo altre vicende sospese tra presente e passato, ricordi di infanzia, illusioni infrante, morti premature e banali.

Nell’apparente tranquillità dell’incipit (la pesca, l’asado, il vino) la morte inutile di un’enorme razza strappata al fondale introduce una violenza sorda che cresce a poco a poco, mentre Almada torna a esplorare, come nei suoi romanzi precedenti, un universo maschile condizionato da valori arcaici, fondato su una solidarietà che può diventare sfida o tradimento ma che non esclude un ventaglio di fragilità e sentimenti inespressi. A questa società di uomini (o meglio di maschi) che le percepisce come altrettante proprietà di cui godere e per le quali competere, le donne oppongono una forza caparbia e non del tutto rassegnata, come nel caso di Siomara, isolana che ha resistito alle percosse del padre, alla miseria e alla solitudine, e ora accende fuochi per ridurre in cenere il proprio dolore, ostinandosi a negare il destino terribile cui sono andate incontro le figlie adolescenti.

A dominare e modellare lo spazio del racconto è una natura ancora selvaggia e dotata di una sua individualità, presenza impassibile e a volte minacciosa (e qui viene da pensare, inevitabilmente, ai racconti di Horacio Quiroga) con la quale si stabiliscono rapporti diversi: irriguardoso e profanatore quello dei pescatori in vacanza che uccidono e saccheggiano “perché sì”, intimo e devoto quello degli isolani, che reagiscono allo sfregio inflitto a un ambiente del quale si considerano figli e custodi. Il testo scorre lento, misterioso e ininterrotto come il corso d’acqua che lo attraversa e lo racchiude, la scrittura è così trattenuta da risultare scarna, le frasi brevissime si collocano ciascuna in un luogo preciso, come pezzi su una scacchiera, e tuttavia sanno creare immagini di grande bellezza e cadenze vicine alla poesia, cui contribuiscono il rimando all’oralità e l’allusione alla lingua e alla cultura dei popoli originari, alla sacralità del bosco simile a una cattedrale vibrante di ronzii, ai segreti del fiume che, dice uno dei personaggi, “non è un fiume, ma questo fiume”.

Tra i molti silenzi di un testo che oscilla tra un iperrealismo stilizzato e una cronologia irregolare e fratturata, non ci vuole molto perché il lettore percepisca uno sfasamento, un’incrinatura in cui si inseriscono apparizioni, sogni e simboli, una sottile e ambigua svolta verso il gotico che suggerisce la possibilità di letture e interpretazioni multiple e divergenti. Ma la violenza è concreta e reale, ha la stessa potenza furibonda dell’acqua, e Almada la affronta con cruda fermezza, optando per un consapevole minimalismo che descrive esemplarmente la fatica di esistenze marginali e il loro sforzo di sopravvivere al quotidiano dialogo con la follia e la morte.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel febbraio del 2022

martedì 8 febbraio 2022

Da leggere: Osvaldo Soriano

 


Osvaldo Soriano



 

L’ora senz’ombra 

A qualcuno forse è sfuggito, ma nella fitta giungla di anniversari del 2022 ce n’è uno che ci ricorda l’assenza venticinquennale di Osvaldo Soriano, scomparso nel gennaio del 1997 a Buenos Aires per un tumore ai polmoni, affrontato con quella silenziosa riservatezza che oggi, nell’epoca di una totale esposizione di sé, ci viene negata. Soriano aveva allora cinquantaquattro anni e lasciava in eredità al suo vastissimo pubblico di lettori sette romanzi, quattro raccolte di articoli e racconti, un libro per bambini e un’enorme produzione giornalistica apparsa per più di trent’anni su riviste e quotidiani, tra gli altri «Il manifesto» e «Página/12», gli unici ai quali fu assolutamente fedele (al primo aveva cominciato a collaborare durante l’esilio, e il secondo contribuì a fondarlo).

Quando il suo amico José María Pasquini pronunciò un’affettuosa orazione funebre nel cimitero di La Chacarita, nessuno si stupì nel sentirgli definire Soriano “un socialista senza partito, un uomo di sinistra […] che pensò sempre all’ingiustizia come a un delitto di lesa umanità, convinto com’era che ogni uomo e ogni donna di questa terra dovrebbe avere l’opportunità di vivere con dignità”. E l’eco delle profonde convinzioni di uno scrittore ribelle e autodidatta (come Roberto Arlt, non aveva concluso le scuole superiori) è percepibile in tutte le sue opere, popolate da personaggi emarginati e sconfitti ma decisi a lottare sino alla fine, spesso grotteschi ed eccessivi, e tuttavia mai ridicoli.

Accompagnato da uno straordinario successo di vendite sin dall’ esordio, avvenuto nel 1973 con Triste, solitario y final (il primo editore a portarlo in Italia, nel ’74, fu Vallecchi), nel suo paese Soriano non ha mai goduto il favore della critica letteraria più influente, che lo ha escluso dal canone modellato nelle aule universitarie, quasi a rinnovare la polemica tra gli scrittori “popolari” del gruppo di calle Boedo e quelli europeizzanti e “colti” di calle Florida, divampata a Buenos Aires nella prima metà del ’900. In anni recenti Soriano è stato però oggetto di nuove e più approfondite letture (Rogelio Demarchi ne ha censito un discreto numero provenienti da studiosi di tutto il mondo, compresa l’Italia) che sottolineano il suo diritto a occupare un posto di prima fila nella letteratura argentina contemporanea e insistono sul marcato carattere postmoderno della sua opera, senza dimenticarne il tentativo, spesso riuscito, di scavare in un’identità nazionale straordinariamente complessa.

I lettori italiani, che a Soriano hanno sempre riservato un’attenzione speciale (nel corso dell’esilio trascorso tra Belgio e Francia, due dei suoi libri apparvero in traduzione presso Einaudi prima ancora che in lingua originale), hanno ora occasione di rileggere il suo ultimo romanzo, ovvero L’ora senz’ombra (1995), che da più di vent’anni manca dalle nostre librerie e finalmente vi ritorna nella eccellente traduzione di Glauco Felici, grazie alle edizioni Sur (pp. 236, e. 16,50): un’ottima occasione per confrontarsi con la prosa asciutta, l’audacia picaresca e la folla di personaggi eccentrici e indimenticabili di un testo che sembra, in un certo senso, la summa di tutti quelli scritti da Soriano.

Narrato in prima persona dalla voce di un protagonista senza nome, scrittore di professione, L’ora senz’ombra (titolo tratto da un racconto di Borges) sembra rimandare ai generi favoriti di Soriano, ossia l’avventura, il poliziesco e il racconto di viaggio, e l’inizio è subito segnato da un’irresistibile spinta a muoversi: muoversi per riuscire a scrivere lontano dall’odiata capitale, per soddisfare le richieste di un detestabile editore che esige la consegna di una Guida alle passioni argentine, e soprattutto per ritrovare il padre, sognatore incallito e malato terminale che adesso è in fuga dall’ospedale dov’era ricoverato. A bordo di una Ford Torino – veicolo d’altri tempi destinato a bruciare in un enorme incendio, nonché simbolo di una nazione una volta fiorente e del declino di tutte le sue illusioni – il viaggio si dipana dalla pampa al mare, deviando verso innumerevoli storie secondarie ed esplodendo in una girandola di episodi sospesi tra malinconia e franca comicità, mentre il protagonista lotta con l’acufene, un continuo ronzio simile a quello di un moscone imprigionato nel cranio, che nessun medico sembra in grado di curare.

Offuscando pensieri e ricordi, il ronzio ostacola costantemente quello che è il vero scopo del viaggio: ricostruire la storia dei genitori e la propria infanzia grazie a testimonianze di parenti e amici, vecchi oggetti, antiche registrazioni, foto della madre ex modella che l’ha abbandonato ed è morta troppo giovane, visite a luoghi leggendari come la città di cristallo progettata e costruita dal padre e distrutta a cannonate dopo la caduta e l’esilio di Perón. La road novel, accostabile per certi versi a quella narrata in un altro romanzo di Soriano, Un’ombra ben presto sarai (Einaudi, 1990), scivola così in un vero e proprio romanzo familiare che è allo stesso tempo una rivisitazione dal basso della storia argentina, tra accenni agli eroi dell’indipendenza, allusioni alle molte, misteriose e contradditorie anime del peronismo, una minuziosa evocazione degli anni ’40 e ’50, le amarezze e le diffidenze di chi torna dall’esilio, e infine le sciagurate tracce dell’esasperato neoliberismo in cui Menem sprofondò il paese negli anni ’90, e che Soriano non si stancò mai di attaccare.

Il romanzo propone dunque di stabilire un collegamento tra storia individuale e collettiva, mentre il protagonista procede parallelamente alla ridefinizione della propria identità e di quella nazionale, perché solo assumendosi la responsabilità del passato si può comprendere e analizzare il presente. Un doppio percorso nel tempo e nello spazio, una rischiosa navigazione tra miti personali e familiari, vicende storiche e immaginario sociale e culturale, allegorie e simboli.

A questo duplice viaggio se ne aggiunge un terzo, quello intertestuale, che tra citazioni e omaggi affianca all’inesausta ricerca del padre (già visibile in I racconti degli anni felici, Einaudi, 2007) la presenza di padri letterari e altrettanto amati, da Conrad a Kafka a Borges a Bioy Casares a Cervantes a Chandler a Balzac, senza dimenticare la cultura di massa (in primo luogo il cinema), il cui utilizzo costante, amoroso e spregiudicato è pari, in Soriano, a quello che ne ha fatto Puig, anche se sotto un segno diverso. A un’intertestualità così spiccata si accompagnano poi riflessioni sullo scrivere e il narrare – brandelli di una poetica ormai matura e definita, sparsi in tutto il testo –, il rapporto tra finzione e realtà, l’influenza delle “protesi” tecnologiche sulla memoria e la scrittura: considerazioni che affiorano di continuo, senza appesantirle, nelle pagine di un romanzo densissimo e “quasi surrealista” (così lo definiva l’autore, e non aveva torto) che ne contiene un altro, perché in quello che stiamo leggendo è racchiusa l’opera che il protagonista va scrivendo e che all’improvviso va perduta. Una perdita in apparenza irreparabile che, mentre memorie e storie si confondono e il tentativo di ricostruirle si fa estenuante, all’improvviso trova rimedio grazie a un addio spettrale, alla consapevolezza di una morte, alla conferma di un legame: ed è solo allora, dopo aver ritrovato e perduto per sempre un padre improbabile e amatissimo, che il protagonista può riappropriarsi della scrittura, della sua storia, delle storie di tutti.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel febbraio del 2022