giovedì 17 dicembre 2015

Da leggere: Juan Benet


Juan Benet





Juan Benet, un maestro senza epigoni né eredi

Quello di Juan Benet, morto a 65 anni nella Madrid dov’era nato nel 1927, è un nome poco familiare ai lettori italiani, a meno che non abbiano frequentato intensamente la letteratura spagnola del ’900, mai troppo popolare nel nostro paese. Eppure tra il 1990 e il 1994 editori come Adelphi, Marcos y Marcos, Garzanti e soprattutto Guida hanno pubblicato parte della copiosa produzione narrativa e saggistica di un autore considerato tra i più importanti e influenti del secondo ’900, come non si stanca di ricordare Javier Marías, che lo conobbe a diciotto anni (Benet ne aveva, allora, più di quaranta) e che ancora oggi, benché il loro cammino letterario abbia preso vie diverse, ne parla come del proprio maestro e mentore.

Delle traduzioni italiane pubblicate allora – tra le quali si contano le nouvelles Numa e Una tomba, e i romanzi Un viaggio in inverno, Il cavaliere di Sassonia, l’imponente Lance spezzate, che la morte impedì a Benet di completare, e Nella penombra, l’unico ancora reperibile – buona parte del pubblico e della critica italiana, come sempre distrattamente provinciali, quasi non si accorsero. Anche nel suo paese, però, Benet è sempre stato autore per pochi, ammirato da scrittori come Félix de Azúa, Pere Gimferrer, Vicente Molina Foix ed Eduardo Mendoza, e venerato da molti critici quanto detestato da altri, al punto che, secondo Marías, a tener viva la memoria dello scrittore hanno paradossalmente contribuito anche i suoi detrattori, incapaci di perdonargli l’indifferenza al successo di pubblico e la rigorosa fedeltà a un’estetica esigente di cui aveva posto le basi già nel 1966, con il saggio La inspiración y el estilo, dopo aver pubblicato solo un volume di racconti (Nunca llegarás a nada, del 1961), e mentre scriveva e riscriveva il suo primo romanzo, Volverás a Región, uscito nel 1967. Un testo, quest’ultimo, che tagliava i ponti con i modelli letterari spagnoli, collocandosi, come seppe notare a suo tempo Carlo Bo, nel quadro della grande sperimentazione europea, fuori dai canoni del costumbrismo ottocentesco o del realismo sociale trionfante in Spagna negli anni ’50 e ’60 e che lo scrittore disprezzava, al pari del suo quasi coetaneo Juan Goytisolo, altro autore “anomalo” e innovatore.

Oggi, finalmente, Volverás a Región ci arriva grazie alla Amos, piccola casa editrice che lo propone nella traduzione di Sebastiano Gatto e Piero dal Bon (Ritornerai a Región pag. 480, e. 20), con un dotto saggio finale di Elide Pittarello: l’impresa è audace, sia per la considerevole difficoltà di rendere lo stile e la lingua di Benet, sia per la complessità del romanzo, in cui ogni pagina rappresenta una sfida per il lettore, alle prese con un racconto ambiguo, reticente e sin argumento, cioè senza una trama vera e propria, che non si degna di chiarire nessuno dei suoi molti misteri e somiglia a un rompicapo mai del tutto risolto, o addirittura predisposto per suscitare irritazione e perplessità. Non si può non cedere, infatti, al richiamo stregonesco di questa prosa sontuosa e barocca, lenta ma inarrestabile, fatta di lunghe frasi e di scelte lessicali a volte enigmatiche, che si espande in tutte le direzioni e che è quasi d’obbligo definire labirintica.

L’immagine del labirinto, del resto, è riferibile tanto alla scrittura e alla costruzione delle narrazioni di Benet, quanto al territorio immaginario dove sono ambientate quasi tutte le sue opere e di cui si parla per la prima volta in Baalbec, una mancha, racconto del 1958 su una statica e primitiva anti-arcadia: Región, che racchiude una sierra desertica, villaggi abbandonati, due corsi d’acqua e due piccole città rivali, Región e Macerta, dominate da picchi montagnosi e dall’intricato bosco di Mantua. Il paesaggio e la natura di Región, già disegnati nel racconto, verranno poi illustrati all’inizio del romanzo con estrema, quasi maniacale minuzia orografica, botanica, zoologica, passando attraverso tutte le aree del sapere, incluse antropologia e meteorologia (nelle opere seguenti, Benet non ripeterà un simile exploit, dando per scontato che, proprio grazie a queste pagine, il lettore sappia ormai in quale mondo si muovono i suoi personaggi). L’autore conosceva bene certe zone montagnose e aspre della Spagna, come la provincia di León – che secondo alcuni ha in parte ispirato la geografia di Región –, dove progettò e seguì la costruzione di grandi opere pubbliche, tra cui la diga del Porma, che oggi porta il suo nome: era infatti ingegnere, proprio come Juan Rodolfo Wilcock e Carlo Emilio Gadda, ma, contrariamente a loro, amava la sua professione, cui riconosceva una rigorosa e razionale bellezza, e non pensò mai di lasciarla per la letteratura, riuscendo a coltivare entrambe.

Sia o no attendibile il rimando a un paesaggio concreto, ben più forte è quello all’universo del mito: Mantua ricorda il bosco sacro di Nemi, di cui parla Frazer nel Ramo d’oro, di cui Benet fu attento e appassionato lettore, e Región è un labirinto che racchiude un singolare Minotauro, ovvero Numa, guardiano-pastore astuto e feroce, che vede tutto “con gli occhi chiusi” e che nessuno ha mai visto, ma che tutti hanno sentito, perché uccide con un solo colpo di fucile qualunque estraneo si azzardi a entrare nel locus horribilis da lui custodito, tenendo così a bada ogni possibilità di cambiamento. Questo mondo oscuro, ostile e acronico, che richiama la Yoknapatawpha di Faulkner (l’autore più frequentemente accostato a Benet e da lui considerato “imprescindibile”) e ancor più la Comala di Juan Rulfo, è però affollatissimo di storie e tutt’altro che estraneo alla Storia, perché è stata la guerra civile a confinarlo in un limbo devastato; la repubblicana Región, con i suoi abitanti sprovveduti e armati in modo improbabile, e la rivoltosa Macerta, guidata dallo spietato colonnello Gamallo, che ha trasferito sul campo di battaglia la furia di una vendetta personale, si sono scontrate fino alla vittoria di Macerta e al reciproco annichilimento.

Anche se la guerra civile e la desolazione della posguerra sono uno dei grandi temi dello scrittore (suo padre, tra l’altro, venne fucilato nel 1936, mentre il giovane Juan e il fratello Paco, antifranchisti, finirono in prigione nei primi anni ’50), che gli dedicherà anche l’imponente e incompiuto Herrumbrosas lanzas, non si può tuttavia dire che la narrativa di Benet costeggi il romanzo storico: trauma profondo e mai sanato, la guerra è un’altra delle “zone d’ombra” inaccessibili al pensiero razionale, in cui secondo Benet la letteratura e l’arte devono inoltrarsi per “cogliere un lampo di luce” nell’oscurità, come diceva Faulkner, piuttosto che per rappresentare una realtà inconoscibile.

La memoria della guerra civile (e in realtà di ogni guerra), intesa come tenebra da sondare, che continua a trasformare il presente in passato e cancella il futuro, torna attraverso le principali voci narranti del romanzo: quella di un narratore la cui onniscienza Benet mette in dubbio e limita severamente, quella del dottor Sebastián, che, apatico e disilluso, vive con un orfano reso folle dall’abbandono della madre, e quella di Marré Gamallo, la figlia del colonnello franchista, che torna a Región da donna matura, in cerca del suo perduto amante repubblicano. I due condensano in ventiquattro ore di colloquio le loro e le altrui vite, distrutte dalla guerra e dall’abbandono (Sebastian è ormai un alcolizzato, e Marré, violentata da un gruppo di miliziani, si è prostituita nel bordello retto dalla tenutaria Muerte); un dialogo, il loro, che in realtà non è affatto tale, immersi come sono in soliloqui lunghissimi e incomunicanti che confondono i piani temporali, si mescolano ai pensieri del giovane demente e frugano nel disordine che giace sotto la superficie della realtà, fino al momento in cui entrambi si avviano verso le rispettive tragedie finali, suggellate dal marchio inconfondibile di Región: il fallimento e la rovina.

Al lettore affascinato e travolto, che si è confrontato con la sovrabbondanza linguistica, la densità metaforica e le provocazioni del romanzo, non resta che interrogarsi sulla molteplicità delle interpretazioni consentite e quasi sollecitate dal testo di Benet: Región è una messa in scena simbolica della Spagna franchista e delle devastazioni della guerra civile, o la rappresentazione di un inconscio del quale il bosco di Mantua è il nucleo? O, ancora, il pretesto per uno straordinario esercizio di stile e per il tentativo di riprodurre il flusso incostante e spesso fallace della memoria (esperimento ripetuto in seguito, più audacemente, nel romanzo Una meditación, scritto su un unico rullo di carta contenente un paragrafo lungo 320 pagine)? O è un annuncio della frammentazione e del disordine postmoderni? O tutto questo allo stesso tempo, e molto altro ancora? Qualunque sia la risposta, a ventitré anni dalla morte Benet rimane uno scrittore incredibilmente attuale, un maestro destinato per la sua unicità a non avere né epigoni né eredi.

  

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel dicembre 2015

sabato 14 novembre 2015

Da leggere: Adrián Bravi


Adrián Bravi




L’Argentina sott’acqua di Adrián Bravi 

Entre Ríos è una provincia argentina attraversata da migliaia di corsi d’acqua grandi e piccoli e incuneata tra due grandi fiumi, il Paraná e l’Uruguay: quasi un’isola, dove la lingua dei cosiddetti alemanes del Volga viene ancora parlata dai discendenti delle comunità tedesche insediate in certe zone della Russia, e poi emigrate in terre infinitamente diverse e lontane; ma anche l’italiano, l’yiddish, l’arabo hanno lasciato tracce evidenti nel complesso intreccio linguistico di un territorio che la grande ondata migratoria europea dei secoli scorsi ha popolato di colonie agricole, piccole città e paesini sperduti.

Proprio in questa regione bizzarra, fatta di basse ondulazioni e vaste distese acquitrinose dove il confine tra cielo e acqua si attenua fino a scomparire, è ambientato L’inondazione (Nottetempo, pag. 184, e.13) di Adrián Bravi, che, nato nel 1963 a Buenos Aires in una famiglia di origini italiane, più di trent’anni fa ha compiuto una sorta di viaggio a ritroso ed è tornato nelle Marche da cui erano partiti i nonni, diventando uno scrittore che usa la nostra (e ormai sua) lingua per costruire romanzi dallo stile personalissimo e sommesso, con una vena di stralunato umorismo.

Bravi, va detto, è uno scrittore difficile da classificare (sempre che sia necessario farlo), da incasellare in una tradizione letteraria o da imparentare a “maestri” di qualsiasi genere, anche se lo si potrebbe accostare a un César Aira meno provocatorio e sperimentatore, ma più lieve e più attento alla scrittura, capace di rendere il sapore di un’oralità svagata quanto poetica e di trasmetterci, come in questo caso, la visione di un’Argentina inventata, sognata, quasi mitica, divenuta una volta per tutte luogo dell’immaginazione. Uno scrittore originale, insomma, cosa che lo rende perlomeno insolito nel panorama italiano e ne raccomanda la lettura.

Quest’ultimo romanzo, forse il migliore e il più maturo tra i sei pubblicati finora, ha un ritmo quasi ipnotico, simile allo sciabordare dell’acqua contro i fianchi di una barca, e ruota intorno all’improvvisa inondazione di un paesucolo abituato a convivere con un fiume familiare e relativamente quieto, che si abbandona di rado alla furia, ma che stavolta tracima e costringe alla fuga gli abitanti, lasciando emergere solo i piani alti, i tetti, le cime degli alberi, e aprendo le case alle incursioni degli yacaré, ossia i caimani neri, gli stessi che Horacio Quiroga, nei suoi Cuentos della Selva destinati ai bambini, trasformò in esercito pacifista deciso a contrastare le navi da guerra. A Río Sauce restano soltanto i morti del cimitero (ora sepolti due volte, sotto vari metri di terra e altrettanti di acqua) e Ilario Morales, vecchio cocciuto e solitario, asserragliato in soffitta mentre al pianterreno scorrazzano gli yacaré e l’umidità mangia lentamente le mura.

Venuto da lontano, come quasi tutti i vecchi del paese (è nato in Spagna, nei Paesi Baschi), Morales non è un eroe, né un pazzo, né un naufrago in trappola: percorre serenamente in barca le strade del paese per impararne di nuovo il tracciato, approda ogni giorno all’asciutto per consumare la solita scodella di fagioli all’osteria del Turco Hasan, arriva a nutrire con compassionevole freddezza lo yacaré che si è insediato in una stanza al primo piano, fa lunghe soste sulle tombe invisibili della moglie e della figlioletta, e si avventura in un paese vicino, dove un allegro cane lo sceglie come padrone. A spezzare la sua solitudine ci sono i molti tentativi di convincerlo a lasciare l’eremo acquatico, compiuti dal figlio e dai paesani, ma anche le presenze di animali bizzarri, di gocciolanti e spauriti turisti giapponesi, di saccheggiatori dalla comica goffaggine, e infine l’eco di voci incontrollate su misteriosissimi cinesi che vorrebbero comprare il paese sommerso, in vista di speculazioni edilizie ancor più misteriose.

E poi il fiume, che sembra essere lì non per cancellare ogni cosa, ma per rivelarne la vera natura, si ritira, e con esso se ne va anche Morales, lasciando un Río Sauce rinato a una vita che il vecchio sente improvvisamente falsa ed estranea; e il suo ultimo rifugio sarà lontano dall’acqua, ma solo per ricordarla meglio, come se il paese autentico fosse quello sovrastato da un cielo liquido, dove le sagome degli yacaré sfrecciano ovunque. Si capisce fino in fondo, allora, quanto sia appropriata l’epigrafe scelta da Bravi (“Ma il fiume era un dio o non era, in realtà, il tempo?”), un verso del più grande poeta entrerriano, quel Juan L. Ortiz a proposito del quale Borges – che lo disprezzava ingiustamente – e Juan José Saer – che invece lo considerava il proprio maestro – si trovarono a battibeccare nel corso di un comune viaggio in treno. Il cuore de L’inondazione è infatti il tempo, quella porzione di tempo immobile e sospeso che a volte ci viene concessa (o che alcuni riescono ostinatamente a concedersi) per capire quanto sia giusto e inevitabile, come suggerisce Morales, “disfarsi di tutto”, imparare a dire addio.

  

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel novembre 2015

lunedì 9 novembre 2015

Anniversari e addii: Antonio Dal Masetto


Antonio Dal Masetto




El Tano se fué

Non molti, forse, si ricordano di Emigrantes, il primo dei nove film che Aldo Fabrizi scrisse, diresse e interpretò tra il 1949 e il 1957: la storia del muratore Giuseppe Borbone e della sua famiglia era schematica quanto ingenua, ma rifletteva un fenomeno reale, favorito dagli accordi stipulati nel secondo dopoguerra tra l’Italia e l’Argentina per fornire mano d’opera qualificata ai progetti di sviluppo economico del governo Perón. Dal ’47 al ’51, 300.000 italiani si aggiunsero agli oltre due milioni già partiti in anni lontani per la “terra promessa”, anche se stavolta, a differenza del passato, un buon 60% decise di tornare indietro, proprio come il protagonista del film e sua moglie Adele (Ave Ninchi), che nel nuovo paese si ammala di nostalgia, mentre il marito arriva a ordire un goffo imbroglio pur di trovare i soldi per il rientro in patria.

Altri, però, rimasero per sempre, e tra loro c’era Antonio Dal Masetto, che nel 1951 aveva lasciato Intra, un paesetto sul lago Maggiore, per raggiungere il padre, ex operaio disoccupato che era riuscito ad aprire una macelleria a Salto, nella parte più settentrionale della provincia di Buenos Aires. Quando sbarcò insieme alla madre e alla sorellina, Antonio, allora dodicenne, non sapeva una parola di spagnolo e ignorava che, dopo averlo imparato a poco a poco, leggendo quanto trovava in una biblioteca pubblica fondata da qualche anarchico, sarebbe diventato uno scrittore famoso e, soprattutto, uno scrittore argentino, capace di usare con secca rudezza una lingua divenuta così sua da scalzare quella materna.

Ora che Dal Masetto è morto (il 2 novembre, all’Ospedale Italiano di Buenos Aires, per un infarto che ha avuto ragione del suo cuore malandato), prima ancora di citare i titoli dei suoi dieci romanzi e delle sei raccolte di racconti, i molti omaggi affettuosi apparsi sui giornali argentini ricordano soprattutto due cose: la sua identità di immigrato – non a caso per tutta la vita l’hanno chiamato el Tano, il più diffuso tra i soprannomi dati agli italiani –, e allo stesso tempo la sua profonda appartenenza alla Buenos Aires dove si era trasferito a diciassette anni, e dove avrebbe fatto il venditore ambulante, l’operaio e l’imbianchino, mestiere che gli toccò esercitare a lungo, prima di potersi mantenere con collaborazioni a riviste e giornali come il quotidiano «Pagina/12», e con i proventi dei suoi libri. Si potrebbe dire che, nonostante il continuo affiorare di una duplice identità, più di ogni altra cosa el Tano fosse un porteño del Bajo, la zona dove si incontrava a tarda sera con amici come Miguel Briante, Guillermo Saccomanno e Osvaldo Soriano, che lo considerava uno dei migliori scrittori argentini. Conosceva assai bene, però, anche la provincia, le piccole città come Salto, le loro ipocrisie, le loro ferree caste sociali, la durezza quasi feroce nascosta dietro un velo di rispettabilità…

Lo sguardo disorientato e apprensivo, ma anche curioso, di chi deve lasciarsi tutto alle spalle per affrontare una terra infinitamente lontana; il passaggio da un lingua a un’altra, da un continente a un altro, dall’estraneità all’integrazione; l’approdo autodidatta alla cultura e alla scrittura, l’immersione nella vita e nel melting pot di una metropoli oscura, sorprendente, bizzarra, e infine la delusione di un breve ritorno nel paese d’origine, all’inutile ricerca dell’eden infantile: di tutto questo è fatta la narrativa di Dal Masetto, intensa, cruda, violenta e amara, con sfumature ironiche e lampi di poesia. Romanzi come Strani tipi sotto casa, uno dei migliori mai scritti sui mondiali di calcio che servirono alla dittatura militare per autocelebrarsi, oppure Bosque e È sempre difficile tornare a casa, storie criminali ambientate in una piccola e sinistra città dell’interno, sono difficili da dimenticare, per l’efficacia della scrittura come per l’asprezza dei contenuti, ed è un peccato che le traduzioni italiane non abbiano riscosso l’attenzione e la fortuna che avrebbero meritato, com’è un peccato che solo Oscuramente forte è la vita, il primo dei tre romanzi dedicati alla vita di una famiglia immigrata, sia stato proposto vent’anni fa da un piccolissimo editore, per scomparire in fretta. Così come sembra scomparsa, del resto, la memoria del tempo in cui i migranti eravamo noi, custodita sino alla fine da Antonio Dal Masetto, outsider solitario, uomo di poche parole, scrittore dalla prosa scabra e concreta, che ha saputo fare dello sradicamento la propria ricchezza.

 

 Questo articolo è uscito su Alfabeta 2 nel mese di novembre 2015

lunedì 19 ottobre 2015

Da leggere: Juan José Saer


Juan José Saer




Juan José Saer, l’arcano 

Anche i lettori italiani, grazie alle traduzioni degli ultimi anni, riconoscono ormai l’argentino Juan José Saer come uno dei più grandi scrittori contemporanei, ma non tutti, forse, ricordano che la sua prima opera apparsa nella nostra lingua è L’arcano, riproposta oggi da La Nuova Frontiera (pag. 159, e. 15,50) nella stessa ottima versione curata nel ’94 per Giunti da un’ispanista sperimentata come Luisa Pranzetti: un romanzo pubblicato contemporaneamente in spagnolo e francese oltre un decennio prima, arrivato da noi in ritardo (o forse troppo in anticipo, vista l’indifferenza con cui venne accolto), e che aveva segnato una svolta nel percorso di uno scrittore la cui grandezza cominciava appena a essere intuita dalla critica.

Negli anni ’70, infatti, l’influenza del nouveau roman aveva indotto Saer – uno dei pochi autori argentini capace di sottrarsi alla soffocante fascinazione esercitata da Borges – a dilatare la ricerca formale rigorosa e complessa che già caratterizzava la sua narrativa, fino a produrre antiromanzi come El limonero real e Glosa: un cammino che, se perseguito fino in fondo, avrebbe potuto condurlo a un’astrazione prossima all’illeggibilità e al silenzio. L’arcano, pur non allontanandosi troppo dalle ossessioni dell’autore e dalla sua idea di narrativa – già ben definite nel romanzo d’esordio, Responso, e ancora di più in quello della sua prima maturità, Cicatrici (La Nuova Frontiera 2012) –, non esclude invece le ragioni della trama e sembra volgersi (anche se l’apparente rivisitazione di generi letterari diversi si rivela un semplice pretesto intertestuale) verso il romanzo storico e la cronaca di viaggio; non a caso lo spunto veniva, racconta lo stesso Saer, dalla lettura della Historia argentina di Busaniche, in cui si parla brevemente di Francisco del Puerto, mozzo su una delle navi spagnole al comando di Juan Díaz de Solís, che avevano raggiunto e risalito nel 1516 il Río de la Plata, per cercare un passaggio tra Atlantico e Pacifico. Solís e alcuni marinai erano scesi a terra, dove gli indigeni li avevano uccisi e divorati, e, mentre la caravella ripartiva, nessuno si era accorto che il mozzo era scampato al massacro; gli indios lo avrebbero tenuto con loro per dieci anni, fino all’avvistamento casuale di una nave spagnola della spedizione Caboto, alla quale l’avrebbero restituito.

“La storia mi sedusse all’istante e decisi di non leggere altro sulla vicenda, per poter immaginare più liberamente il racconto. L’unica cosa che conservai furono quelle quattordici righe”, scrive Saer ventisette anni dopo la prima uscita del romanzo, affermando di aver scelto come “personaggio collettivo” la tribù estinta e quasi sconosciuta dei Colastiné, per poter creare senza impacci etnologici un deuteragonista da affiancare al mozzo, voce narrante alla quale non viene mai dato un nome. E nemmeno i luoghi in cui L’arcano si svolge sono mai nominati, compreso quello della prigionia, indicato solo come un qualche punto delle Indie perso nel cosiddetto mar dulce, unica evidente allusione all’immenso estuario in cui confluiscono i fiumi Uruguay e Paraná (è sulle rive di quest’ultimo, tra l’altro, che lo scrittore santafesino è nato e cresciuto, trasformandolo poi nella Zona, sfondo e protagonista di quasi tutta la sua opera).

Basterebbero questa vaghezza e la rinuncia alla toponomastica o alle date, insieme alla non linearità del racconto e alla sua adesione ai ritmi capricciosi del ricordo individuale, a farci intendere che L’arcano non è quello che a prima vista potrebbe sembrare. Non un “nuovo romanzo storico latinoamericano”, etichetta applicata da Ángel Rama a Yo, el supremo di Roa Bastos o a Terra nostra di Fuentes, perché Saer non era interessato a una ricostruzione attendibile degli eventi, tanto che tutte le sue incursioni nel passato (oltre a L’arcano, La nubes e La ocasión, considerati, non del tutto a ragione, altrettante cesure nell’insieme dell’opera saeriana, in cui racconti e romanzi tendono a comporre un unicum basato sui medesimi luoghi e personaggi) si potrebbero definire antistoriche. Non un classico romanzo di viaggio e d’avventura, perché non ne possiede l’intenzione di intrattenere e stupire. Non un romanzo picaresco, anche se il protagonista è un orfano alla ventura: alla sua vita errante, infatti, vengono dedicate poche e succinte pagine, che negano spazio all’affacciarsi di un Lazarillo. Non si tratta, infine, di un memoriale, anche se l’autenticità della memoria e il suo legame con l’immaginazione sono uno dei punti cardinali del romanzo. Sin dalle prime righe, L’arcano si rivela piuttosto una perfetta fabula filosofica in cui l’autore dà forma di racconto a questioni che da sempre lo assillano: la natura del linguaggio e la sua capacità di modellare l’essere umano, il rapporto tra spazio e tempo, l’esistenza di un Luogo che contiene tutti gli altri, la precarietà e inafferrabilità del reale, concepito come qualcosa che continuamente ci sfugge e continuamente deve essere ricostruito e ricreato attraverso la scrittura (ma a quel punto è già diventato un’altra cosa, che la si chiami memoria o letteratura…).

Diversi sia dai barbari selvaggi cui i contemporanei del protagonista stentavano a riconoscere il possesso di un’anima, sia da quelli idealizzati nel diciottesimo secolo, gli indios Colastiné sono sì antropofagi, ma solo una volta all’anno, quando organizzano un grande banchetto di carne umana e una sbornia collettiva, seguiti da un’epica orgia che Saer descrive con fredda minuzia; sempre, però, lasciano in vita il prigioniero che trattano con riguardo e che li vede tornare lentamente a una vita industriosa e austera; qualcuno, insomma, capace di guardarli dal di fuori, che funga da legame con un esterno inimmaginabile e perciò temuto, e che, una volta tornato dai suoi, tramandi quanto ha visto. È questo il compito affidato al mozzo, la cui indispensabile alterità viene coltivata con cura (gli indios non gli insegnano la loro lingua fragile e informe, né cercano di farlo diventare uno della tribù) e sottolineata dall’uso continuo del vocabolo def-ghi, qualcosa di simile a “testimone”: un estraneo che deve farsi veicolo di immortalità per la tribù, impegnata in piccoli riti ossessivi destinati a evitare la disintegrazione del mondo conosciuto, l’unico possibile. E anche l’orgia antropofaga è un rito, il più importante, che per riaffermare e consolidare l’esistenza di un universo ordinato e riconoscibile esige un periodico scivolamento nel caos primigenio del desiderio.

L’antico mozzo lo capirà molto tempo dopo, in una patria matrigna dove sarà via via una meraviglia da esibire, ma contaminata al punto da aver dimenticato la lingua nativa, poi il pupillo del prete Quesada, che gli insegna a leggere a scrivere e lo introduce allo studio e alla cultura, quindi un attore girovago che mette in scena con successo l’esperienza fatta oltremare. Solo dopo aver vissuto lungamente da entenado (El entenado è il titolo originale del libro: un termine che indica il figliastro, o anche colui che viene allevato da estranei), il vagabondo può fermarsi, adottare tre orfani e aprire una florida stamperia, approdando, in vista della morte, alla quiete e soprattutto a una scrittura “vera”, dopo averne praticate di false e ingannevoli come il resoconto delle sue avventure raccolto da padre Quesada, o la commedia sui “selvaggi” nata per compiacere l’immaginario degli europei e il loro gusto per l’esotico e il meraviglioso.

Sessant’anni dopo, portato a termine il viaggio che lo ha trasformato da entenado a padre di entenados, rinato più e più volte sino a riconoscersi come narratore, il protagonista compie infine la missione che gli indios gli hanno affidato. Ed è così che nasce un racconto fatto di frammenti, in cui gli anni volano, brillano immagini remote e l’incatenarsi delle riflessioni sovrasta, circonda, illumina i fatti, simile alla “abbondanza del cielo” che abbacinava il mozzo sulle coste vuote delle Indie, come per confermare ancora una volta – nota Florencia Abbate, studiosa acuta dell’opera di Saer – “la funzione redentrice della scrittura del ricordo.

 

 Questo articolo è apparso su Il manifesto nell’ottobre 2015

lunedì 5 ottobre 2015

Da leggere: Oswaldo Reynoso


Oswaldo Reynoso



Un classico vivente

Ottobre, a Lima, è il mese in cui immense processioni attraversano la città, accompagnate dalla musica della banda, dai fumi dell’incenso e del cibo venduto a ogni angolo, dai canti e dagli applausi rivolti al Señor de los Milagros, copia su tela di una figura miracolosa che da trecento anni viene portata a spalla per le strade. L’immagine originale, un Cristo crocifisso dipinto nel diciassettesimo secolo da uno dei tanti schiavi africani, venne giudicata miracolosa dopo che il fragile muro di adobe su cui era dipinta resistette a due terremoti, e oggi il Signore dei Miracoli è il patrono ufficiale dei peruviani “residenti e migranti”, che accompagna in ogni angolo del mondo i suoi fedeli, tradizionalmente vestiti di viola cupo e bianco.

È questa lentissima processione, con la sua solennità barocca e le sue coloriture pagane, a fare insieme da fondale e da cornice a Niente miracoli a ottobre (pag. 279, e. 16), primo romanzo di Oswaldo Reynoso, un autore ancora sconosciuto in Europa e che tuttavia, dice il suo giovane collega Enrique Plana, “è il maestro di ogni scrittore peruviano sotto i cinquant’anni”. Di anni Reynoso ne ha ormai ottantaquattro (appartiene alla cosiddetta Generazione del ’50, come Vargas Llosa, Bryce Echenique e Ribeyro, per citare nomi noti anche da noi) e i suoi testi più famosi e discussi risalgono alla prima metà degli anni ’60; del 1961 è Los Inocentes, libro d’esordio composto da cinque insuperabili racconti sui ragazzi di strada limeños, mentre Niente miracoli a ottobre, appena tradotto da Federica Niola per Sur, è apparso per la prima volta nel 1965. Ed entrambi hanno attirato a suo tempo anatemi critici di insolita violenza: oltre a una fascinazione per “la morbosità, l’immondizia, la perversione, la pornografia, l’abiezione”, all’autore veniva rinfacciato il fatto di essere “un marxista rabbioso” che bisognava escludere dall’insegnamento, il mestiere con cui si è sempre guadagnato da vivere.

Di essere marxista, omosessuale e ateo, Reynoso non aveva mai fatto mistero, ed era inevitabile che, nel cauto cerchio della letteratura peruviana ufficiale, l’irruzione dei suoi personaggi consegnati alla disperazione, alla rabbia e alla rivolta, con la loro intensa corporeità abitata dalla violenza e dal desiderio, facesse deflagrare un’esagerata indignazione. A difendere la novità e il vigore di quei libri furono Arguedas, Vargas Llosa, pochi critici avveduti e Miguel Gutiérrez, fondatore con Reynoso del gruppo Narración (un vero specchio dei primi anni ’70 e delle loro ansie rivoluzionarie). Ma, ben più dei critici, è stato un pubblico giovane, vasto e fedele a garantire innumerevoli ristampe alle piccole case editrici con cui Reynoso preferisce pubblicare anche oggi che viene ritenuto un “classico vivente”, autore di una decina di libri fondamentali tra romanzi, racconti e poesie, apparsi a lunghi intervalli perché riscritti e corretti all’infinito.

Niente miracoli a ottobre si svolge nell’arco temporale di quattordici ore, a partire dalla mattina grigia e viola di una giornata in cui poteri diversi, economico, politico, militare, religioso, esibiscono la propria forza attraverso la processione, mentre una folla di personaggi si muove tra il centro cittadino, affollatissimo di corpi che si strusciano, si affrontano, soccombono, i quartieri appena decorosi della piccola borghesia e le barriadas proletarie, le baraccopoli di una Lima che in quegli anni affrontava l’assalto di migliaia di contadini (un inurbamento cui non corrispondevano le necessità di un vero sviluppo industriale), e che stava per affrontare un nuovo colpo di stato militare e l’avvento della lotta armata del MRTA e di Sendero Luminoso.

Costruito per capitoli basati sul punto di vista, la voce o il monologo interiore dei diversi protagonisti, il romanzo procede turbinosamente verso una progressiva frammentazione, che nel finale diventa estrema e si spezza in singole frasi, a formare una costellazione di violenze piccole e grandi, enumerate, allineate: cariche della polizia, lanci di pietre, donne stuprate, pianti silenziosi, bordelli incendiati, prostitute in parata e l’offerta di un ultimo brandello della sorte di ciascun personaggio. Ecco i Colmenares, famiglia di classe media ansiosa di mantenere il decoro, ma in procinto di scivolare nella desolazione delle barriadas senza acqua né luce: il paziente capofamiglia vaga in cerca di un appartamento che non può permettersi, la figlia scivola insensibilmente nella prostituzione, la madre sfinita invoca il Signore dei Miracoli, il figlio minore si lega a una banda di strada e il maggiore, già vinto, cerca di scuotersi facendo “qualcosa di violento”, sacrilego e imperdonabile.

Ed ecco il ricco don Manuel, obeso, potente e fin troppo grottesco, che ordisce colpi di stato e compra giovani amanti come Tito, capace però di inattese rivolte. Ecco Leonardo, il professore di sinistra, tutto discorsi teorici ma ben poco votato all’azione e probabile alter ego dell’autore, che viene presentato con un filo di ironia. Soprattutto, ecco la città, simile a un allucinato diorama che l’autore si china ad osservare, incarnandosi di volta in volta nei suoi personaggi e facendoci percepire gli odori pesanti, le superfici, i colori, i suoni, quasi a sollecitare tutti i sensi; un cupo spazio urbano percorso da bande giovanili crudeli ma anche innocenti, un luogo in cui il sacro si manifesta con esaltazione, ma dove di sacro non c’è niente (perfino il generale San Martín, il padre della patria, viene deriso nell’incipit, e le tuniche viola delle giovani fedeli nascondono civetterie estreme e curve da palpare), tra correnti non troppo sotterranee di sensualità e di furore, e corpi quasi tangibili: quello molle e caricaturale di don Manuel, quelli efebici degli adolescenti in vendita, quelli già contaminati delle ragazzine, quello della donna sconosciuta che, nel corso della processione, partorisce sul marciapiede.

L’autore sfiora tutti i registri, dalla tragedia alla parodia al pamphlet, legando ogni cosa grazie alla forza della scrittura: perché Reynoso, qui come in Los Inocentes, parte dall’oralità – o meglio dal gergo di strada vivo e spavaldo che si è appropriato della lingua dei colonizzatori e ne ha fatto una creatura mutante e instabile – e la usa per “dare un senso poetico al linguaggio e alla struttura del romanzo” (una vera sfida per qualsiasi traduttore, che può non produrre gli esiti sperati ma che va comunque affrontata).

Viene, naturalmente, da chiedersi che cosa abbia tanto ritardato la scoperta di un autore di tale peso non solo in Europa, ma anche in America latina, dove solo di recente i suoi libri hanno cominciato a diffondersi davvero. C’entrano qualcosa, forse, una singolarità che rifiuta di essere classificata; la dichiarata estraneità di questo vecchio enfant terrible dalla lingua tagliente all’establishment letterario e editoriale; i lunghi silenzi; il volontario isolamento a Pechino, dove Reynoso è vissuto e ha lavorato per dodici anni, in cerca di utopie impossibili, e dove è nato il suo romanzo Los Eunucos inmortales. Quale che sia il motivo, questa prima traduzione italiana ci getta energicamente tra le braccia di uno scrittore sorprendente, che è andato oltre la troppo semplice etichetta di “realismo urbano” per recuperare le lezioni dell’avanguardia, e coniugare così “il principio etico e il principio estetico” che rivendica come fondanti di tutta la sua opera.

  

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel mese di ottobre del 2015

giovedì 24 settembre 2015

Anniversari e Addii: Carmen Balcells


Carmen Balcells





Addio a Carmen Balcells

Carmen Balcells, colei che l’editore catalano Carlos Barral definiva “la superagente letteraria” (“con licenza di uccidere”, chiosava Manuel Vázquez Montalbán) è morta nel sonno lunedì, nella sua bella casa di Sarrià, a Barcellona: aveva ottantacinque anni, e, anche se da molto tempo era costretta su una sedia a rotelle, la sua vitalità e il suo spirito erano tali da indurre chi la conosceva a credere che i funerali della Mamá Grande si sarebbero celebrati in un futuro così lontano da farle sfiorare l’immortalità. E invece il funerale verrà ora celebrato, in forma privatissima e, per sua volontà, senza alcuna veglia funebre, a Santa Fe de Dalt, il villaggio in provincia di Lleida dov’era nata nell’agosto del 1930 in una famiglia di piccoli proprietari terrieri e da dove era partita, forte solo di un modesto diploma, per stabilirsi a Barcellona, la città in cui sarebbe diventata un personaggio leggendario.

Perché non c’è dubbio che la Balcells fosse una leggenda, e sapesse di esserlo. In una delle rare interviste da lei concesse, punteggiate di ghiotti aneddoti e dalla immediata proibizione di riferirli, aveva confessato: “Che esista la leggenda non è un male, purché io non finisca per crederci. Ne ho tratto vantaggio, certo, ma a farmi diventare qualcuno sono state l’audacia e il fatto di sapermi guadagnare la fiducia dei miei clienti”. Audace lo era davvero, oltre che acuta, intelligente, con un enorme fiuto letterario, capace di grandi allegrie e grandi furie, espansiva e riservata allo stesso tempo (pochissimo si sa della sua vita privata), affettuosa con gli autori ma implacabile con gli editori, pronta a incoraggiare, controllare, viziare, sgridare i suoi “clienti”, che mai si azzardò a definire amici, al punto che quando uno di essi, Gabriel García Márquez, a corollario di un rapporto quarantennale le chiese: “Carmen, mi vuoi bene?”, si sentì dire: “A questo non posso rispondere, perché rappresenti il 36,2% del nostro fatturato”.

Ma, al di là degli affari, l’amicizia esisteva, e solida: per anni la Balcells ha raccolto le confidenze dei suoi “clienti” e ha condiviso con loro trionfi e dolori, consigliandoli maternamente su ogni cosa, dall’acquisto di una casa alla soluzione di una crisi coniugale. Ma soprattutto è stata colei che aveva cambiato radicalmente il rapporto tra scrittori e case editrici, da quando nel 1960, in pieno franchismo, aveva fondato la sua agenzia letteraria dopo un breve apprendistato in quella di un fuoruscito rumeno, Vintilă Horia, adottando subito una decisa, quasi feroce politica di difesa degli autori e dei loro diritti. “C’è un prima e un dopo Carmen Balcells, nel nostro universo,” dice Juan Marsé, ricordando quegli anni, mentre Manuel Vázquez Montalbán la definiva “la liberatrice degli autori”, aggiungendo: “Finché non è arrivata lei, gli scrittori firmavano contratti a vita con gli editori, percepivano compensi miserevoli e a volte, come premio, ricevevano un maglione o un formaggio Stilton”.

Ma Carmen Balcells era, soprattutto, colei che in un certo senso aveva inventato il cosiddetto “boom latinoamericano” (anche se questa definizione, lo ripeteva spesso, non le piaceva e non restituiva la complessità di quello che per lei restava il fenomeno “più fresco, innovatore e rigenerante che abbiamo mai avuto”), spingendo gli editori spagnoli a diventare meno provinciali e a volgersi verso un orizzonte più ampio che includesse “l’altra riva”, quella atlantica, e trasformando per qualche anno Barcellona nella capitale letteraria del mondo occidentale. Tra i suoi “clienti”, oltre a grandi nomi come Augusto Roa Bastos, Ana María Matute, Juan Marsé, Eduardo Mendoza, Juan Goytisolo, Alfredo Brice Echenique, Isabel Allende, Javier Cercas, Julio Cortázar, Carme Riera, si contano sei premi Nobel, da García Márquez a Vargas Llosa, da Asturias a Cela, da Aleixandre a Neruda; ma l’importante, diceva la Balcells, era intuirlo venticinque o trent’anni prima, di aver per le mani un futuro premio Nobel. Lei l’aveva capito più di una volta, per esempio quando il poeta José Caballero Bonald le aveva suggerito di dare un’occhiata al libro (già rifiutato da Carlos Barral) di uno sconosciuto giornalista colombiano, chissà mai che non ne venisse fuori qualcosa: Carmen lo aveva fatto (il libro era intitolato Cent’anni di solitudine), e si era affrettata a includere il colombiano nella propria scuderia. Allo stesso modo, aveva convinto Vargas Llosa a lasciar perdere i lavori “alimentari” e a trasferirsi a Barcellona per scrivere, scrivere e basta. Ed era volata fino a Montevideo per convincere l’eccentrico Onetti, sconosciuto in Europa, a diventare uno dei suoi “clienti”, autori di grande qualità e spesso di ottime vendite, anche se un Gabo che macinava milioni di copie poteva convivere con un Juan Benet, scrittore sofisticatissimo, difficile, di immenso valore, ma certo non altrettanto vendibile.

Potente e rispettata, spesso temuta, quasi sempre amata, la “superagente” aveva fatto sentire la sua influenza anche quando il governo Aznar (con il quale, lei che si proclamava di sinistra, non aveva niente da spartire) aveva promulgato la prima legge sulla proprietà intellettuale dell’era democratica. E allo stato spagnolo aveva venduto nel 2010, per tre milioni di euro, buona parte del suo prodigioso archivio: duemila scatoloni stipati di manoscritti originali e corrispondenza con gli autori e gli editori, insomma un pezzo di storia del Novecento letterario.

Quando, nel 2000, aveva annunciato il ritiro e consegnato l’agenzia nelle mani dei suoi fidati collaboratori, nessuno ci aveva creduto davvero, e infatti nel 2004 aveva ripreso le redini, delusa e dispiaciuta per il saccheggio compiuto da Andrew Wylie, il glaciale proprietario di una potentissima agenzia rivale che le aveva sottratto clienti importanti come Bolaño e Cabrera Infante. Nel 2013, però, era tornata ad annunciare il pensionamento per il giugno del 2015 (e nessuno, di nuovo, ci aveva creduto), indicando come successore il giovane Guillem d’Efak, un mallorquino formatosi negli Stati Uniti che fino ad allora si era occupato di poli museali e editoria elettronica, e che giusto tre settimane fa ha lasciato l’agenzia. Non c’è dubbio, però, che Carmen Balcells, per quanto vulcanica e piena di progetti, fosse stanca: abbastanza stanca da firmare, nel 2014, un preaccordo con il detestato Wylie, in vista di una fusione che in realtà era una vendita mascherata, e che avrebbe dato vita alla più grande agenzia del mondo, con una lista di oltre millecinquecento autori, tra i quali tredici premi Nobel: un gigante la cui apparizione preoccupava molti e rallegrava altri, convinti che solo così fosse possibile affrontare altri giganti, da Amazon alle concentrazioni editoriali come la Random Penguin, che controlla ormai una grossa fetta dell’editoria in lingua spagnola e continua a espandersi, come dimostra il recentissimo acquisto del gruppo Santillana, uno dei più grandi e importanti di Spagna, con numerose ramificazioni in America latina. Nessuno aveva previsto, però, che le trattative per mettere le basi della nuova agenzia si sarebbero arenate in fretta, perché la Balcells non voleva abbassare il prezzo (almeno tre milioni di euro) né vendere più del 45% prima di due anni; era, inoltre, molto riluttante a “far pulizia”, ossia a licenziare un certo numero di collaboratori, come chiedeva l’acquirente, e per questo aveva rimesso sul mercato la sua creatura, affidandola all’Atlas Capital che le aveva sottoposto nuove offerte, tra le quali quella di Andrew Nurberg, un grande agente inglese, e, si dice, di Riccardo Cavallero, uscito dalla Mondadori. Nel frattempo è stata annunciata l’apertura, proprio in questo mese di settembre, della nuovissima agenzia Wylie España, con sede a Madrid e direzione di Cristobal Pera, editoriale di lungo corso, ex responsabile della Random in Messico, dove ha lavorato a stretto contatto con García Márquez, e che mantiene un ottimo rapporto con i suoi eredi. Una mossa che puntava, tra le altre cose, a ottenere una rapida resa della Balcells.

Ora la morte improvvisa della meravigliosa Carmen sembra sparigliare le carte su più fronti: le sorti dell’agenzia sono tutte da decidere, e così pure quelle di una seconda parte dell’archivio, che include i diari della vecchia signora, redatti dal ’54 fin quasi ai nostri giorni, e altri materiali preziosi, il cui contratto di vendita allo Stato non è ancora firmato (la Generalitat catalana, intanto, ne reclama energicamente il ritorno a Barcellona, ma la Balcells non amava affatto gli indipendentisti e forse, in vita, non avrebbe avallato una decisione del genere). Comunque vadano le cose, con la morte di Carmen Balcells si chiude un’epoca straordinaria, irripetibile: ma a lei, una donna fuori del comune, curiosa e instancabile, che guardava al futuro e da esso continuava ad aspettarsi sorprese e meraviglie, non sarebbe piaciuto sentirselo dire.

 

 Questo articolo è apparso su Il manifesto nel mese di settembre del 2015

lunedì 24 agosto 2015

Da leggere: Victor Català


Victor Català


  

Victor Català, uno scrittore en travesti

Non sono poche le scrittrici che, nel corso del tempo, hanno scelto per le più diverse ragioni uno pseudonimo maschile; nel caso di Caterina Albert i Paradìs, nata sulle coste della Catalogna nel 1869, la ragione e l’occasione per trasformarsi in Victor Català vennero dallo scandalo suscitato da La infanticida, un suo monologo premiato a Olot nel 1898, durante il certamen dei Joc Florals: davvero era stata una ragazza di provincia, figlia di un noto possidente e deputato repubblicano, a scrivere quel testo violento, quasi feroce, in cui una giovane contadina narrava l’uccisione della figlia partorita in segreto, dopo una gravidanza nascosta agli occhi dei familiari? E chissà cosa avrebbero pensato i giudici, se avessero saputo che, prima di mettersi a scrivere, la coscienziosa signorina Albert si era informata presso un mugnaio sulle possibilità di sopravvivenza di un neonato, in caso lo gettassero nella gora del mulino.

Da quel momento in poi, Caterina Albert decise di adottare un nom de plume che l’avrebbe accompagnata e in un certo senso protetta per il resto della sua lunga “doppia vita” (se ne sarebbe andata, quasi centenaria, nel 1966): quella di signorina borghese che dopo la morte del padre si assunse l’onere di amministrare terre e beni, da vero capofamiglia, e quella di autrice che tra il 1901 e il 1950 produsse, sia pure con lunghi intervalli di silenzio, due raccolte di versi, vari monologhi teatrali, dieci volumi di racconti e due romanzi, uno dei quali, Solitud, viene considerato una pietra miliare tanto della letteratura catalana quanto dell’eterogenea corrente modernista che, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, trasformò profondamente l’architettura, la letteratura e l’arte della Catalogna, finendo per inglobare istanze autonomiche e indipendentiste ben più esplicite di quelle accennate pochi anni prima dal cosiddetto Rinascimento catalano, volto soprattutto al recupero e al “restauro” di una lingua maltrattata.

Di Solitudine (Elliott, pag. 231, e. 18,50) – apparso a puntate nel 1904 su una delle principali riviste del Modernisme e poi in volume nel 1905, e proposto in Italia dall’editore Carabba nel 1918 – esce ora una bella traduzione di Ursula Bedogni, uscita vincitrice dalla battaglia con un testo quanto mai impegnativo, ricco di espressioni dialettali, barbarismi, ripetizioni, frasi sincopate che cercano di riprodurre il catalano rurale. Ci viene così restituita la possibilità di conoscere un classico che va senz’altro collocato in un preciso contesto culturale, storico e sociale per poterlo apprezzare in ogni suo aspetto, ma che si offre alla lettura innanzitutto come un romanzo costruito con estrema sapienza, una sorta di grandioso e frammentato poema in prosa dominato dalle descrizioni di paesaggi vertiginosi e fondato su immagini di una tale forza evocativa (indimenticabile quella della cappella traboccante di sinistri ex voto, sovrastati dalla statua grottesca di un santo panciuto e irridente) da indurci a ricordare che Albert/Català fu anche una pittrice di notevole bravura.

Cresciuta in una piccola città della Costa Brava, L’Escala, ed educata in casa come molte ragazze dell’epoca – aveva frequentato solo le elementari – Caterina riuscì comunque a respirare l’aria del tempo grazie alle risorse e all’incoraggiamento di una famiglia colta e attenta, e non è certo in errore chi la colloca nell’orbita del Modernisme, al quale la avvicinarono preoccupazioni etiche ed esigenze di rinnovamento estetico, il catalanismo respirato in famiglia, e infine la capacità di cogliere le nuove tensioni tra individuo e società, scatenate, in Catalogna più che in altre parti della Spagna, dall’industrializzazione e dall’espansione urbana. L’ansia modernizzatrice della borghesia, che da una parte guardava all’Europa e dall’altra si identificava sempre di più con le rivendicazioni del nazionalismo catalano, cresceva di pari passo con la partecipazione politica della classe operaia, orientata verso idee socialiste ed anarchiche, ed entrambe formavano un energico contrasto con quell’arcaico mondo contadino osservato con attenzione dal consistente filone ruralista del Modernisme, spesso in cerca di miti autoctoni e di una sorgente linguistica remota e pura, come nel caso di Joan Maragall, massimo poeta catalano dell’epoca, che con Caterine Albert intrattenne una lunga e vivace corrispondenza fitta di discussioni e disaccordi.

Ma il ruralismo di Victor Català, come del resto quello di altri romanzieri modernisti (per esempio Raimon Casellas o Prudenci Bertrana) era ben più crudo e pessimista di quello del poeta Maragall, e lo dimostrano gli straordinari racconti di Drames rurales, del 1902, e soprattutto Solitudine: testi che non hanno nulla di idilliaco o romantico, attraversati da follia, violenza, crudeltà, delitti, stupro, paura. Quella di Mila, giovane protagonista del romanzo sposata quasi per inerzia con Matias, un uomo da poco che la porta a custodire un eremo sperduto fra le montagne, con l’unica compagnia di un pastore, un bimbetto e un vecchio cane, è una storia drammatica, raccontata con durezza e vigore: un’acquaforte piena di ombre e di simboli, che va oltre il realismo e il naturalismo per narrare l’avventura interiore di una donna toccata “dalle infiltrazioni della solitudine”, una solitudine scelta e non subìta, da cui attingere la forza necessaria per liberarsi dai lacci di una vita a due umiliante e mortifera. E il rapporto di Mila con il paesaggio che la circonda e che allo stesso tempo è “dentro” di lei – all’inizio creatura passiva e mossa solo da brandelli di pensiero, intimorita dalla grandiosa e mutevole visione delle montagne, e poi via via chiamata a ricongiungersi con una se stessa che ignorava –, diventa allora un viaggio iniziatico verso la consapevolezza, irto di prove da superare e di incontri dolorosi, ma anche di scoperte vitali.

È interessante notare che da Solitudine e dai Drames rurales (racconti invariabilmente abitati da coppie infelici) emerge una cupa visione del matrimonio come contratto stipulato a sfavore della donna, se non a suo danno: e non è un caso che l’unico personaggio maschile positivo del romanzo, contrapposto a Matias e al ferino vagabondo chiamato l’Anima, sia il pastore (“padre” di tutti, fonte inesauribile di storie, fiabe e saggezza), che in memoria della moglie perduta non sarà mai marito o amante di nessuna, ma che per Mila diventa guida e sostegno. Ben consapevole di quanto difficile e ingiusta fosse la condizione femminile, la signorina Albert non scriveva testi educatamente femministi come quelli delle sue contemporanee Dolors Monserdà e Carmen Karr, animate da una vocazione umanitaria e pedagogica che intendeva “indirizzare al bene” le donne delle classi inferiori; dalla sua letteratura, però, affiora un femminismo ben più radicale che evoca piuttosto, come suggerisce Francesco Ardolino nella prefazione, la Nora di Casa di bambola (Ibsen, del resto, fu molto amato dal Modernisme) o la Sibilla Aleramo di Una donna.

Ma le possibili letture di Solitudine sono molte e destinate a cambiare ulteriormente con il tempo e con i punti di vista (è sempre Ardolino a far presente che quelle più recenti mirano a “inserire l’opera all’interno della cornice del romanzo gotico”); non cambia, invece, la certezza di trovarsi di fronte a una autentica obra maestra che può stare alla pari con i più grandi romanzi del ’900, e il cui recupero merita la massima attenzione.

  

Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto nell’agosto del 2015

sabato 18 luglio 2015

Da leggere: Alejandra Pizarnik


Alejandra Pizarnik




Alejandra, la figlia dell’insonnia 

Poche riedizioni, pochi recuperi, tra i molti cui l’editoria attuale ci ha abituato, appaiono altrettanto opportuni di quello che consente oggi un ritorno in libreria di La figlia dell’insonnia (Crocetti pag. 190, e. 14), ampia scelta dei versi di Alejandra Pizarnik a cura di Claudio Cinti, con un testo del poeta surrealista argentino Enrique Molina e il breve prologo che Octavio Paz scrisse per una delle raccolte più importanti dell’autrice, Albero di Diana. Già pubblicata nel 2004, l’antologia era ormai introvabile, e il suo ritorno è in sintonia con l’interesse crescente, nel nostro paese, nei confronti di una figura quasi leggendaria attorno alla quale si è addensata un’enorme mole di indagini critiche, interpretazioni e studi, ma che viene spesso affrontata in modo superficiale e stereotipato, al punto che solo oggi, a quarantatré anni dalla morte, la foresta di luoghi comuni cresciutale intorno è stata in parte disboscata, grazie anche alla pubblicazione dell’epistolario (alla prima edizione del 1998 se ne sono aggiunte altre due via via più ricche) e dei monumentali Diari in edizione definitiva (1100 le pagine del volume uscito nel 2013 per mano di Ana Becciu, che dell’opera di Alejandra è la curatrice), finalmente liberi dalle prudenti censure che nel 2001 avevano espunto moltissime annotazioni considerate eccessivamente intime.

È accaduto troppo spesso che l’affascinante personaggio di Alejandra Pizarnik si sia sovrapposto, fino a nasconderle, alle nove raccolte di poesia e alle straordinarie prose (davvero scoperte solo nel 2002, quando Ana Becciu le ha riunite in volume) prodotte tra il 1955 e il 1971, anno in cui la sua parabola creativa si chiuse con La contessa sanguinaria (Playground 2005), una stupefacente nouvelle gotica, e con l’ultima antologia, L’inferno musicale, più che mai connotata dalla fusione tra prosa e poesia, spezzata in brevi frammenti. A segnare il principio di questo “divoramento” dell’opera da parte del dato biografico è stata ovviamente la fine di Alejandra Pizarnik, che, dopo diversi ricoveri in cliniche psichiatriche, grazie a un breve “licenza” concessa dai medici tornò nella sua casa di Buenos Aires, piena di bambole e fantocci smembrati, di animaletti in legno e metallo, di mobili insolitamente piccoli e di carte, carte dappertutto: ritratti di scrittori defunti, labirintici disegnini, quaderni, fogli, libri. “Un cosmo magnetico di oggetti” – così lo definì Antonio Requeni – all’interno del quale Alejandra venne trovata morta il 22 settembre del 1972: cinquanta pastiglie di Seconal avevano definitivamente cancellato l’insonnia che la tormentava sin dall’adolescenza, contribuendo a farne una creatura notturna, sempre più estranea alla luce del giorno (per lei le quattro del mattino, scrisse qualcuno, “erano l’ora della merenda”).

Anche se c’è chi vuole credere a un’overdose involontaria, non sono in molti a dubitare che la Pizarnik abbia portato a termine un suicidio a lungo evocato, suggellando così il proprio mito futuro e dando l’ultima pennellata a quell’immagine “maledetta” che lei stessa aveva contribuito a disegnare: lo ricorda Sylvia Molloy, che la conosceva bene e che la racconta impegnata in una “autoraffigurazione permanentemente bisognosa di testimoni”, ma che allo stesso tempo ci fa notare come tra le componenti di tale autoraffigurazione ci fossero anche un’indubbia e maliziosa buffoneria, una sorprendente vocazione per il dandysmo, un’inclinazione a trasformare ogni gesto in performance che implicava una sorta di riscrittura del corpo (quel corpo odiato quando era un’adolescente bruttina, balbuziente e asmatica, e poi “lavorato” fino a farlo diventare quello di una pallida, stravagante bohémienne), sempre proiettato verso lo sguardo altrui. Elementi, questi, che divergono notevolmente dall’immagine consueta di una Alejandra tragica, attratta dalla morte, assorta nel rimpianto di una infanzia perduta, fragile, convinta di non poter essere amata: una figura che corre il rischio di diventare – dice César Aira, suo singolare biografo – “una specie di ninnolo decorativo sullo scaffale della letteratura”.

Ma che Alejandra Pizarnik sia ben altro che un “ninnolo” e resti in buona parte un labirinto pieno di sorprese ce lo dimostra la lettura incrociata della sua opera da sempre visibile – ovvero la poesia, resa almeno in parte accessibile al lettore italiano dalla bella scelta di Cinti e dalla sua raffinata traduzione, e la prosa, da noi immeritatamente sconosciuta, che con la sua coloritura oscena, comica e a tratti violenta sembra anticipare quel neobarocco, rioplatense nel quale si potrebbero collocare, oltre al suo teorico Nestor Perlongher (che preferiva chiamarlo neobarroso, da barro, ossia fango) anche Lamborghini e Copi – e di quella per molto tempo invisibile, ossia la corrispondenza e soprattutto i diari, la cui natura letteraria è indiscutibile, non solo perché in buona parte dedicati all’accumulo e all’analisi di citazioni tratte dalle infinite letture dell’autrice, quasi a creare un enorme deposito di materiali cui attingere, ma anche perché si tratta di testi destinati, e in modo non inconsapevole, allo sguardo altrui. Uno sguardo che prima o poi, l’autrice non poteva ignorarlo, si sarebbe posato su quella calligrafia minuta per raccogliere un’ulteriore testimonianza della estraneità di Alejandra, già proclamata dalla sua poesia: estranea al paese dove era nata ma dove non aveva radici (i suoi genitori, ebrei russi, vi arrivarono poco prima della sua nascita), nella cui tradizione letteraria non si riconosceva del tutto – preferiva la filiazione ideale dal surrealismo francese, che l’avrebbe influenzata profondamente, oppure da Kafka e dai racconti chassidici –, e nelle cui vicende politiche e sociali non si sentì coinvolta, restando estranea alle correnti che negli anni ’60 attraversarono la letteratura latinoamericana e rompendo – come Silvina Ocampo, come Sara Gallardo – i condizionamenti di uno sguardo maschile che ancora rinchiudeva le donne letterate nel recinto dell’emotività, del sentimento, delle vicende domestiche. Straniera si sentiva, addirittura, in seno a quel linguaggio che era la sua ossessione e dentro il quale cercava rifugio e nascondiglio, cercando di governare e comporre le parole nel modo più semplice, pulito e perfetto, in versi sempre più brevi che, come in Estrazione della pietra della follia, si travestono a volte da prosa, formando piccoli blocchi compatti. Straniera a se stessa, infine, tanto che i suoi versi sono in continuo dialogo con un “tu” che è in realtà un “io” interpellato o ammonito, mai raggiunto, mai ricomposto, frantumato in un’originaria e simbolica pluralità di nomi: perché Alejandra si chiamava in realtà Flora, detta Buma, detta Blimele, e neppure il cognome era davvero il suo (all’arrivo della famiglia in Argentina, infatti, era stato modificato da un errore di trascrizione).

Alla poesia, i Diari e le lettere fanno da controcanto, svelando dolori, difficoltà, passioni quasi ossessive (come quella, ultima, per l’anziana Silvina Ocampo), e confermando il desiderio per il corpo femminile, il rapporto difficile con la famiglia e con la madre, gli eccessi, le lunghissime insonnie, le amicizie fedeli (Cortázar, Olga Orozco, la Molloy, lo psicanalista Léon Ostrov), le molte maschere, prima fra tutte quella di bambina orfana della propria infanzia, che Pizarnik non poteva fare a meno di indossare. Ma in primo luogo ci mostrano un retrobottega letterario complesso e quanto mai interessante, cui farebbe da perfetta epigrafe la risposta data da Alejandra durante un’intervista del 1972: “Anche se essere donna non mi impedisce di scrivere, credo che valga la pena di partire da una lucidità esasperata. Per cui affermo che essere nata donna è una sfortuna, come lo è essere ebreo, essere negro, essere poeta, essere argentino, ecc. È chiaro che la cosa importante è quel che facciamo delle nostre sfortune”.

  

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel luglio del 2015