lunedì 12 giugno 2017

Da leggere: Juan José Saer

Juan José Saer


Juan José Saer. Una forma più reale di quella del mondo

Solo nel suo appartamento parigino, Pichón Garay aspetta l’amico di sempre, Tomatis, in arrivo dall’Argentina, e intanto esamina un testo travasato in un floppy disk da Marcelo Soldi, “topo d’archivio” venuto in possesso di un vecchio manoscritto in cui si narrano le avventure di una carovana composta da un medico, cinque malati di mente, qualche soldato e alcune prostitute, diretti alla clinica di Buenos Aires che l’alienista Weiss ha consacrato al concetto di cura, rifiutando quello di pura contenzione fisica della follia. È il 1804, l’Argentina non è ancora una nazione, e nella pampa deserta, dominata da un cielo in cui corrono nuvole gigantesche, i viaggiatori procedono tra deviazioni inspiegabili, sciagure, bizzarrie climatiche e incontri ravvicinati con gli indios, puntualmente riferiti, trentacinque anni dopo, dalla voce narrante del dottor Real… Così comincia Le nuvole (pag. 184, e. 16,50) di Juan José Saer, che La Nuova Frontiera presenta nella traduzione di Gina Maneri, eccellente “voce” italiana di uno scrittore impegnato nella ricerca di un’estrema perfezione formale e nella costante riflessione sulla natura della realtà e sulle possibilità di raccontarla, ormai ritenuto un maestro “in qualsiasi lingua”, come teneva a precisare Ricardo Piglia.

Scomparso nel 2005 a Parigi, dove si era trasferito nel 1968, Saer ha visto pienamente riconosciuto il suo valore solo alla fine degli anni ’80, dopo un ventennio di oscurità affrontato con regale noncuranza per le pretese del mercato e con assoluta dedizione al proprio ambizioso progetto letterario, del quale aveva gettato le basi già dall’esordio, avvenuto nel 1960 con i racconti di En la Zona, dove per la prima volta si accenna a un luogo destinato a diventare il fulcro della sua opera: Santa Fé, il Litoral, Entre Ríos (insomma la regione compresa tra i grandi fiumi Paraná e Paraguay, dove lo scrittore era nato nel 1937), reale e allo stesso tempo metafisico, perché “quel che vale per un posto vale per lo spazio intero, e sappiamo che se il tutto contiene la parte, la parte a sua volta contiene il tutto”.

A popolare la Zona sono personaggi legati dall’appartenenza a un territorio, dalla memoria comune, da una lingua amata, da passioni politiche e intellettuali – un gruppo simile a quello riunito intorno al poeta Juan L. Ortíz, cui lo scrittore rimase legato per tutta la vita –, che tornano da un testo all’altro con risalto diverso, entrano ed escono, intrecciano vicende personali e collettive, propongono questioni estetiche e filosofiche, lasciano spazio a lacune spesso colmate altrove, come spiega l’autore in una delle rare interviste (raccolte di recente dal critico argentino Martín Prieto nel volume Una forma más real que la del mundo, Editorial Mansalva), accostando il suo “sistema” alla musica di Bach: “In lui troviamo un sistema ben codificato, e all’interno di questo sistema c’è una serie di innovazioni, di cambiamenti. In ogni ripetizione c’è qualcosa di nuovo. Così è nei miei libri. (…) Per questo in essi appaiono elementi già apparsi nei precedenti, sempre accompagnati da altri nuovi”.

Anche se alcuni testi sembrano in qualche modo uscire dallo spazio consueto e spingere ai margini, o addirittura ignorare, i personaggi ricorrenti, la coerente intertestualità saeriana viene comunque confermata da allusioni, citazioni, presenze: El entenado (L’arcano, La Nuova Frontiera 2015), storia di un mozzo spagnolo prigioniero degli indios Colastiné in epoca coloniale, si svolge appunto nella Zona, e così pure La ocasión, ambientato nel 1870, che ha tra i protagonisti l’antenato di Pichón Garay; La pesquisa (L’indagine, La Nuova Frontiera 2014), incursione nel genere poliziesco, sia pure ribaltato e parodizzato, comincia a Parigi ma si conclude sulle rive del Paranà e, oltre alle abituali figure di Pichón, Tomatis e Soldi, utilizza l’escamotage del manoscritto ritrovato, presente in diversi romanzi della maturità di Saer, incluso Le Nuvole, che, secondo Beatríz Sarlo, si presenta come un racconto “di avventure, di viaggio, di iniziazione, filosofico e di caratteri”.

Come L’arcano e La ocasión, Le nuvole appare meno rarefatto dei precedenti romanzi di Saer e, senza rinunciare a una vera e propria “musica della prosa”, intensamente perseguita attraverso frasi dalla partitura complessa e avvolgente, ne abbandona la studiata lentezza, sceglie una trama in cui non mancano le peripezie e lascia affiorare, oltre a immagini magnifiche e quasi oniriche, un umorismo esplicito. Insieme, i tre titoli sembrerebbero comporre una trilogia sul passato e l’identità nascente di una nazione, ma sarebbe del tutto improprio considerarli romanzi storici; nulla di più lontano dalle intenzioni dell’autore, che in un suo saggio su “Zama”, la obra maestra di Antonio Di Benedetto, afferma perentoriamente: “La pretesa di scrivere romanzi storici – o di leggerli – non fa che confondere la realtà storica con l’immaginazione arbitraria di un passato perfettamente improbabile”.

In Le nuvole, Saer non cerca affatto di ricostruire un’epoca, anche se rivela un’approfondita conoscenza dei cronisti e dei viaggiatori nell’America latina del XIX secolo, nonché dei padri fondatori della letteratura argentina; il viaggio della sua piccola “nave dei folli” nel mare della pampa è del tutto metaforico: una perigliosa traversata dei territori della malattia mentale, il cui accesso è negato ai “sani” dalla mancanza di un linguaggio condiviso. Ciascuno dei cinque pazzi (la suora in preda a delirio erotico, i due fratelli che ripetono sempre le stesse parole, il megalomane e logorroico Troncoso, il catatonico Prudencio) ha il suo e lo esprime con il corpo e con la voce, fornendo a Saer un’ulteriore occasione per assediare il concetto di realtà ed esplorare i problemi del narrare: la verosimiglianza, la distanza tra le parole e le cose, la relazione tra il soggetto e il mondo, i misteri della percezione.

Ragione e follia appaiono inestricabilmente connesse tra loro e con un potere economico e politico che non esita a definirle e a servirsene, nonostante sia difficile, in più di un momento, distinguerle l’una dall’altra. Una difficoltà che il dottor Real sperimenta in prima persona, quando, colto da un spaesamento profondo e scosso dal contatto intenso e prolungato con l’alterità dei folli, degli indios, degli animali, del paesaggio e perfino delle stagioni impazzite, rischia di perdere la cognizione di sé, in un luogo dove tempo e spazio non procedono in linea retta, ma hanno un andamento circolare, proprio come la narrazione di Saer, che nella prima parte del romanzo ci rivela le sorti finali dei due medici e dei loro pazienti. Ed è la sua voce a indicarci che l’autore, felicemente allergico al realismo magico e allo stilizzato fantastico borgesiano, in Le nuvole tenta ancora una volta di scardinare il reale, non per negarlo ma per misurarne la profondità, le crepe e le fratture, e forse per ricostruirlo nell’unico modo possibile, attraverso la letteratura. 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel giugno del 2017

domenica 11 giugno 2017

Da leggere: Laia Jufresa

Laia Jufresa


Umami, il quinto sapore

Bogotà39, ovvero trentanove scrittori sotto i quarant’anni scelti fra duecento candidati provenienti da quindici nazioni latinoamericane, per segnalare all’attenzione dei lettori e degli editori l’eccellente salute di letterature che possono contare, tra le altre cose, sull’esplosiva vitalità di una lingua dalle infinite varianti nazionali e locali. A dieci anni dalla prima edizione dell’iniziativa, che nel 2007 aveva segnalato nomi allora agli esordi e oggi molto noti, viene alla ribalta una nuova schiera di autori, e non c’è da stupirsi che la rappresentanza più numerosa sia quella del Messico, visto l’attuale stato di grazia della sua letteratura giovane, abitata da scritture molto diverse ma sempre promettenti: quelle degli ochentistas, cioè i nati negli anni ’80, che vanno inserendosi a poco a poco anche nel panorama internazionale.

Con una di queste scritture ci si potrà misurare nei prossimi giorni a Ivrea, che ospita il festival La Grande Invasione; tra gli ospiti, infatti, c’è anche Laia Jufresa, trentacinque anni e due libri al suo attivo: uno di racconti, El Esquinista, del 2014, e un primo romanzo, Umami, uscito nel 2015 e appena apparso in italiano per le edizioni Sur (pag. 247, e. 16,50). Un esordio recente quanto fortunato, il suo, grazie a una scrittura incantevole, solo in apparenza semplice e ricca di umorismo, invenzioni, giochi di parole, neologismi e “sapori” messicani, che la traduttrice Giulia Zavagna ha affrontato nel modo migliore, riuscendo a preservarne la sapienza e la fluidità.

A colpire è innanzitutto il titolo, che fa riferimento al “quinto sapore” dal nome giapponese, difficile da definire, ma capace di esaltare o variare gli altri quattro. Umami si chiama, nel romanzo, uno dei cinque villini (gli altri quattro sono Acido, Amaro, Dolce e Salato) che fanno parte del piccolo complesso La Campanaria, a Città del Messico, fatto costruire da Alfonso, antropologo specializzato nello studio dell’alimentazione pre-colombiana, sul terreno ereditato dai genitori nei lontani anni ’70: un microcosmo la cui esigua popolazione è al centro del racconto. Ma umami è, tutto sommato, riferibile anche al gusto sottile e sfuggente della prosa di Laia Jufresa (nome catalano, nazionalità messicana, adolescenza trascorsa in Francia, studi alla Sorbona e lunghi soggiorni in paesi diversi, dalla Spagna alla Germania), fatta di immagini brillanti e di riuscitissimi monologhi interiori, legati da fili tenui e robusti come ragnatele.

Ricca di sfumature e di dettagli minimi, la narrazione abbraccia un periodo di quattro anni (dal 2000 al 2004) ed è strutturata in capitoli che non seguono un ordine cronologico ma alternano tempi diversi, procedendo in un certo senso “al rovescio” e dando spazio a lacune che vengono via via colmate. E a cambiare ogni volta sono, oltre al tempo della storia, anche le voci narranti: Alfonso, il più anziano, profondamente segnato dalla perdita dell’adorata moglie Noella, portata via dal cancro dopo un lungo e felice matrimonio senza figli; l’adolescente Anna, figlia di una coppia di musicisti, che decide di dedicare un’estate alla coltivazione di una milpa, il tradizionale campicello dove crescono insieme zucca, mais e fagioli (quello del cibo, della sua produzione, preparazione e condivisione, come pure del suo rifiuto, è uno dei leit motiv del libro); Luz, la sorellina di Anna, l’unica che in tutto il romanzo ha sempre la stessa età (quasi sei anni) e parla da un eterno presente, perché è morta annegata in un lago nordamericano. Per raccontare Marina – giovane pittrice anoressica che vive nella casa Amaro e crea nomi pazzi per colori che nessun altro vede – e tutti gli altri, siano protagonisti o comprimari, viene invece utilizzata una terza persona attentissima al punto di vista dei differenti personaggi, a partire da Laura, la madre di Anna e Luz, e da Pina, ragazzina che, con il padre Beto, elabora faticosamente l’abbandono senza spiegazioni di una madre sventata. Una storia-puzzle, insomma, la cui polifonia appare perfettamente risolta e avvince fino all’ultima pagina, facendo emergere dal tema di fondo, quello della perdita e del lutto, un bisogno di consolazione che prende forme diverse e riesce a tingersi di una sotterranea allegria.

Umami è, in conclusione, un romanzo fatto non tanto di trama, quanto di voci e di caratteri, in primo luogo femminili (Alfonso, unico personaggio maschile in primo piano, è in realtà “parlato” da Noella, e sembra esistere soprattutto per darle la parola), messi a punto con un’abilità e una precisione sorprendenti, che disegnano diverse età della vita e rendono quasi tangibili corpi adolescenti che crescono e mutano, da esplorare e scoprire come fanno Anna e la sua amica Pina, corpi devastati dalla malattia, bloccati dal dolore oppure pieni di slancio, corpi di bambine e di donne che stringono fra loro relazioni solidali e vengono separati da inimicizie improvvise. Una foto di gruppo difficile da dimenticare, che induce a un pronostico: forse Laia Jufresa non è ancora una grande scrittrice, ma è molto probabile che lo diventi.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel giugno del 2017