venerdì 25 marzo 2016

Da leggere: Héctor Ruiz Núñez e María Seoane






 


Héctor Ruiz Núñez  e  María Seoane




I lapis scrivono ancora

Nel 1983, poco prima che la Giunta militare argentina fosse costretta a indire libere elezioni, la rivista Tiempo pubblicò un’intervista al generale Camps, ex Capo della polizia, che non ebbe difficoltà ad ammettere il proprio antisemitismo e l’ammirazione per Hitler, a giustificare l’uso della tortura come il metodo più rapido per acquisire informazioni, a rivendicare il robo de bebés (“Era necessario impedire che quei bambini crescessero con le stesse idee dei loro genitori”) e a dichiararsi fiero di aver provveduto all’eliminazione fisica di cinquemila sovversivi. Tra quei “sovversivi” c’erano, e nessuno in Argentina lo ha dimenticato, anche gli adolescenti sequestrati nel 1976 a La Plata: studenti tra i sedici e i diciotto anni, quasi tutti membri della UES (la Unión de Estudiantes Secundarios, vicina ai Montoneros) impegnati in una campagna per il ripristino del boleto estudiantil, che garantiva notevoli sconti sui trasporti pubblici.

Nel settembre di quell’anno la polizia aveva concluso un’operazione a lungo preparata – nome in codice: “La notte dei lapis” – portandosi via sei ragazzini individuati con la complicità delle istituzioni scolastiche; ma altri erano stati arrestati qualche giorno prima, e altri ancora li seguirono poco dopo, per andare incontro a una sorte terribile nei campi di detenzione clandestini. Solo quattro su dieci sarebbero sopravvissuti, gli altri sono ancora oggi desaparecidos. La loro storia, resa pubblica per la prima volta dal Nunca más, il rapporto sull’inchiesta della Conadep (Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas, voluta dal presidente Alfonsín), è stata narrata infinite volte: innanzitutto da Pablo Díaz, sequestrato a diciotto anni e detenuto per quattro, che nel 1985 rese una dettagliata testimonianza durante il processo alla Giunta Militare; poi nelle scuole, dove il 16 settembre si celebra una Giornata dei Diritti dello Studente, e infine attraverso uno straordinario libro-inchiesta, La notte dei lapis, frutto del lavoro dei giornalisti Héctor Ruiz Núñez e María Seoane, che ha ispirato anche un film del regista Héctor Olivera. Pubblicato nel 1986 e tradotto in italiano l’anno dopo da Alessandra Riccio, quel libro viene oggi riproposto dalle edizioni Portatori d’acqua (pag. 212, e. 14), con una utilissima introduzione della curatrice, che riepiloga con chiarezza le complesse vicende argentine e non manca di ricordare come la Ley de la Obediencia Debida y Punto Final e i successivi indulti abbiano cancellato per anni ogni possibilità di giustizia, e che solo nel 2003, con l’abolizione della legge da parte di Néstor Kirchner, si è finalmente dato il via a indagini e processi, molti dei quali ancora in corso.

Costruito con grande abilità, La notte dei lapis si basa su testimonianze di prima mano, sentenze e documenti dai quali emerge un disegno preciso, quello di usare la lotta per il biglietto studentesco come puro pretesto per infliggere a “figli” sovversivi e incorreggibili una punizione esemplarmente atroce, ispirata da una sorta di pedagogia del terrore. Rinchiusi insieme alle detenute politiche incinte (Díaz fu il primo a testimoniare sulla sottrazione di neonati), i ragazzi, nudi, bendati e con una corda al collo, subirono per mesi e mesi torture, botte, fame, stupri, finte fucilazioni, nonostante i documenti polizieschi ammettessero che la loro effettiva pericolosità era minima. E tutto, dalla precoce adesione alla sinistra, fino alla detenzione e ai tentativi di farsi coraggio l’un l’altro chiamandosi da cella a cella e perfino cantando, ci viene raccontato senza ombra di retorica, grazie a un testo dall’avvincente andamento narrativo, sobrio, preciso e inevitabilmente straziante, che la prefazione di Goffredo Fofi – in realtà un’invettiva, amara quanto desolata, contro la sinistra “voluttuosamente suicidatasi”, il neo-populismo, il “sonno drogato” di giovani e giovanissimi – ricollega al nostro presente, senza smettere di interrogarsi sulle generose illusioni e gli errori del passato, e, proprio per questo, dando un senso profondo alla memoria. 

 

Questo articolo è uscito sul quotidiano Il manifesto nel marzo del 2016

Da leggere: Rodolfo Walsh


Rodolfo Walsh



Ancora e sempre, Rodolfo Walsh

Sono in molti a pensare che l’arrivo a Buenos Aires di Barack Obama, all’alba di mercoledì 23, intenda sottolineare e sostenere il cambiamento di rotta dell’Argentina: una mossa prevedibile e non certo isolata, in un momento in cui i mercati stanno prendendo le misure a un paese pronto a tuffarsi senza rete nel liberismo più sfrenato. Le organizzazioni per i diritti umani, tuttavia, sembrano non aver apprezzato né l’istantaneo appoggio a un governo così pericolosamente di destra, né la scelta di una data fin troppo simbolica, quella del quarantesimo anniversario della più sanguinosa tra le dittature argentine. Lo ha detto chiaramente anche Estela Carlotto (“È una data molto delicata. Che venga il presidente di un paese che ha creato la Dottrina della Sicurezza Nazionale… il paese di Kissinger, che ha formato i repressori dell’America latina”), esprimendo a nome di tutti lo scarso gradimento per un’eventuale visita presidenziale alla ex ESMA, uno dei principali luoghi di tortura e detenzione.

E così, nonostante un ramoscello d’olivo (a lungo negato ai Kirchner, ma subito offerto a Macri) come l’annuncio dell’apertura degli archivi in cui sono custoditi i documenti sulla Giunta e le sue relazioni con il governo degli Stati Uniti, giovedì 24 il presidente si limiterà a una rapida visita mattutina al Parco della Memoria, dove si snoda un monumento composto da trentamila lastre di pietra con i nomi dei desaparecidos e di altre vittime, ordinati per anno. Là, alla data del 25 marzo 1977, figura il nome di Rodolfo Walsh, scrittore e giornalista di origine irlandese nato nel 1927 nella remota provincia di Río Negro e autore, tra l’altro, della celebre Lettera aperta di uno scrittore alla Giunta militare, scritta per denunciare non solo i crimini della dittatura ma anche la sua rovinosa politica economica. Fu proprio quando aveva appena inviato per posta le prime copie della sua Lettera, che cadde in un’imboscata e venne ucciso durante uno scontro a fuoco: del suo corpo, portato probabilmente alla ESMA, non si è mai trovata traccia.

Divenuto anche per questo una leggenda, nel suo paese come altrove, Rodolfo Walsh è stato indubbiamente un personaggio di enorme rigore morale, intelligenza e talento, che, scegliendo una personalissima via al giornalismo, ha lasciato una traccia profonda nella cultura latinoamericana; su di lui tutto è stato detto e scritto e la bibliografia che lo riguarda è sterminata, anche se al lettore italiano sono arrivate, nel corso degli anni, solo alcune traduzioni delle opere più strettamente letterarie, come i racconti polizieschi di Variazioni in rosso o quelli, splendidi e audaci, raccolti in Fotografie, più una superba prova di giornalismo narrativo qual è Operazione Massacro, nato da un’inchiesta sulla fucilazione di un gruppo di civili durante il governo Aramburu. Ora, a trentanove anni dalla morte, il numero dei titoli disponibili aumenta grazie a Il violento mestiere di scrivere (La Nuova Frontiera, pag. 224, e. 12,50, da domani in libreria), curato da Alessandro Leogrande che ha scelto quattordici “pezzi” magistrali, attingendo alla raccolta completa degli articoli di Walsh curata da Daniel Link per le Ediciones de la Flor, e li ha commentati nella lunga e documentata prefazione.

La lucidità dello sguardo di Walsh, la passione per la giustizia, il linguaggio tagliente, lo stile conciso e leggibile (secondo David Viñas, la sua scrittura si distingueva per prodigiosa economia di parole e raffinatezza letteraria), l’irrefutabile presentazione di prove e fatti, non possono che stupire quanti hanno a che fare con l’arruffato giornalismo contemporaneo e con le sue frequenti sciatterie, o con il narcisismo e la cortigianeria che spesso lo segnano. E dunque Anch’io sono stato fucilato, che precede e annuncia Operazione Massacro, o gli scritti sulla Banda della Picana (ovvero le squadracce che, ben prima della dittatura, ricorrevano alla picana, strumento di tortura introdotto negli anni ’30 dal capo della polizia Polo Lugones), o il bellissimo L’isola dei resuscitati, su una comunità di lebbrosi destinata a essere espulsa dal proprio rifugio per lasciare il posto a un casinò, fino all’avvincente resoconto della decifrazione di alcuni messaggi che annunciavano lo sbarco nella Baia dei Porci, sono altrettante testimonianze del fatto che Walsh è stato e rimane un maestro.

Coniugando etica e tecnica narrativa, e muovendosi lungo il labile confine tra grande giornalismo di inchiesta e letteratura (per lui, due facce di una stessa medaglia), ha ampiamente anticipato il new journalism nordamericano e messo al contempo le basi del nuevo periodismo latinoamericano, restando inarrivabile ma lasciandoci eredi più che degni, come Leila Guerriero, Alma Guillermoprieto, Sergio González Rodríguez o Lydia Cacho, oggi impegnati, proprio come lui, “a rendere testimonianza”, a raccontare storie con abilità e coraggio, a cercare di capire. E questo, tra i molti meriti di Rodolfo Walsh, non è certo il minore.

 

 Questo articolo è uscito sul quotidiano Il manifesto nel marzo del 2016

mercoledì 16 marzo 2016

Da leggere: Juana Bignozzi


Juana Bignozzi




Juana Bignozzi, malinconica e indignata

“In Argentina, come in quasi tutto il mondo, gli anni ’60 furono assai ricchi di novità di ogni genere. All’epoca la politica e la cultura venivano considerate e si presentavano a molti giovani intellettuali come le due facce di una stessa medaglia. In tutti i campi, alla gioventù toccò un ruolo da protagonista, ben più di quanto accada attualmente. La possibilità di un cambiamento profondo della società, e di conseguenza della vita, sembrava molto più vicina che in qualsiasi altro periodo”. Così scrive il poeta e critico Jorge Fonderbrider in un saggio che ripercorre le vicende della poesia argentina dagli anni 60 ai 90, e, nel dar conto del fervore e della varietà che connotavano il panorama culturale sesentista, fa innanzitutto riferimento a El Pan Duro, associazione di giovani poeti fondata da Juan Gelman, che prevedeva l’autopubblicazione e interventi nelle strade dei quartieri operai, nelle fabbriche o nei teatri: un’avventura che durò meno di un decennio e fu tuttavia sufficiente a identificare il gruppo come principale portabandiera della poesia politica (il nume tutelare di Gelman era il comunista Raúl González Tuñón, con i suoi combattivi poemas civiles), fondata su una lingua semplice e accessibile e su versi liberi e irregolari, fatti per la lettura ad alta voce.

Nonostante gli intenti comuni e le indubbie coincidenze di stile e di linguaggio, però, El Pan Duro non era poi così omogeneo, come testimonia la presenza eterodossa di Juana Bignozzi, entrata a farne parte nel 1959 (aveva allora ventidue anni), ma senza rinunciare alla spiccata autonomia estetica, personale e politica che la accompagnerà fino alla morte, avvenuta nell’agosto del 2015. La sua non è, infatti, una poesia popolare e di esplicita propaganda, secondo il canone della “generazione del ’60”, e si distingue piuttosto per le scelte lessicali raffinate, la sintassi tutt’altro che lineare, la levigata musicalità, il continuo intreccio fra autobiografia e militanza, le allusioni colte e i riferimenti alla pittura, vissuta come una sorta di lente attraverso la quale guardare il mondo. E soprattutto, come l’autrice non mancava di sottolineare, non si tratta di poesia politica in senso stretto, ma di “poesia ideologica”, fondata sui miti e gli ideali trasmessi da genitori anarchici divenuti comunisti negli anni del peronismo, esponenti di una “aristocrazia operaia” con la casa piena di libri nonostante l’estrema povertà, e la cui unica figlia era destinata a una vita lontana dai ruoli femminili tradizionali (“Nessuno mi ha mai calpestato. Non sono nata per essere calpestata. Nessuno nella mia famiglia mi ha mai detto di dire sì”, raccontò Juana in un’intervista).

Grazie a questo retroterra familiare, sempre evocato nei suoi versi, Juana Bignozzi divenne un’intellettuale coerente e rigorosa, e, pur avendo lasciato il partito comunista, “che per non aver letto la storia del mio paese/si è trasformato in polvere non innamorata ma morta”, conservò un fermo rispetto per il proprio passato e seppe proiettarsi verso il futuro, convinta che l’enormità della disuguaglianza contenesse inevitabilmente lo spazio per un cambiamento radicale.

Del tutto sconosciuta in Italia, l’opera della Bignozzi appare oggi nella nostra lingua grazie a Stefano Bernardinelli, traduttore e curatore di Per un fantasma intimo e segreto (Lietocolle, pag. 131, e. 13), antologia che attinge alle raccolte pubblicate tra il 1967 e 2014, a cominciare dal memorabile Mujer de un certo orden, per finire con Las poetas visitan a Andrea del Sarto, in cui il pittore racconta la propria storia di ragazzo povero in un lungo e stupendo monologo, e l’Angelo dell’Annunciazione del Petit Palais avignonese, disposto a rivolgersi anche alle ragazze della periferia industriale, proclama: “perduto il destinatario e svuotato il messaggio/continuerò ad annunciare perché fui mandato in questo mondo per/inquietare e nessuno mi potrà zittire”.

“Malinconica e indignata”, come la definisce Beatriz Sarlo, eppure pungente e divertita, in patria Juana Bignozzi è stata per molto tempo un’autrice segreta, forse per via dei lunghi periodi di silenzio e dei trent’anni trascorsi a Barcellona, dove si era stabilita nel 1974 insieme al marito (un esilio prima politico e poi economico), guadagnandosi la vita come stimatissima traduttrice dall’italiano e dal francese. La riscoperta da parte di giovani poeti e di lettori entusiasti è avvenuta dopo la pubblicazione di La ley tu ley (Adriana Hidalgo, 2000), che include buona parte delle sue poesie, e il definitivo ritorno a Buenos Aires ha consolidato l’ammirazione per una donna più che mai formidabile e per i suoi ultimi versi, illuminati dalla “luce dell’età” e da uno sguardo che, scrive Bernardinelli, delinea “il ritratto di una generazione, delle sue sconfitte, della problematica sopravvivenza delle sue idee”, ma appare più riflessivo che nostalgico e affronta in modo meravigliosamente ironico la banalità quotidiana di un presente senza utopie. Una voce unica, insomma, che finalmente anche i lettori italiani potranno ascoltare, per un primo incontro con quella che viene considerata la migliore poetessa argentina del secondo ’900.

 

Questo articolo è stato pubblicato su Alfabeta nel marzo del 2016

sabato 5 marzo 2016

Da leggere: Jorge Baron Biza


Jorge Baron Biza



Il deserto e il suo seme

“Nei momenti che seguirono l’aggressione, Eligia era ancora rosea e simmetrica, ma di minuto in minuto i muscoli del viso cominciarono a incresparsi (…). Sotto i tratti originali si generava una nuova sostanza: non un volto privo di sesso, come avrebbe voluto Arón, ma una nuova realtà, svincolata dall’obbligo di assomigliare a un volto”.

Così, con l’immagine di un viso femminile che, per azione del vetriolo lanciato da una mano maschile, si trasforma in un paesaggio in perpetua evoluzione, “governato da leggi sconosciute”, comincia Il deserto (La Nuova Frontiera, pag. 251 e. 17) dell’argentino Jorge Baron Biza: un romanzo fuori del comune, la cui apparizione sulla scena letteraria argentina, nel 1998, ha suscitato un notevole scalpore, sia perché rinnovava la memoria di un dramma realmente accaduto, sia per la qualità straordinaria di una prosa capace di avventurarsi, a tratti, nell’invenzione di una vera e propria interlingua che si ispira al cocoliche (il pidgin degli immigrati italiani nella zona rioplatense) e modella il lessico spagnolo sulle costruzioni sintattiche dell’inglese o del tedesco, lingue parlate da alcuni personaggi. Una vera sfida, questa inserzione di brani che sembrano alludere all’impossibilità di una lingua letteraria, cui un traduttore d’eccezione come Gina Maneri ha saputo trovare soluzioni brillanti ed equilibrate.

Figlio di Raúl Barón Biza – eccentrico milionario argentino che aveva sperperato una enorme fortuna e scritto una serie di libri “immorali”, a metà tra pornografia e nichilismo – e di Clotilde Sabattini, esponente politica e pedagogista (suo padre era il leader radicale Amadeo Sabattini), sin da bambino Jorge era stato travolto dal turbolento rapporto tra i genitori, culminato nel 1964 in una causa di divorzio. E fu per definirne i termini che i due, accompagnati dai rispettivi avvocati, si incontrarono a Buenos Aires nell’appartamento di Raúl, dove lui gettò un bicchiere di acido solforico contro la moglie, per poi uccidersi con un colpo di pistola. È a questo punto che Jorge fa iniziare il suo romanzo, mentre i lineamenti della madre, nel taxi su cui il figlio ventenne la sta accompagnando all’ospedale, si alterano fino a dare l’impressione che “la materia di quel volto si fosse del tutto liberata dalla volontà della sua proprietaria e potesse tramutarsi in qualunque forma nuova, tingersi delle sfumature riservate ai crepuscoli più intensi e danzare in tutte le direzioni…”.

Da qui in avanti Jorge Baron Biza racconterà a se stesso e agli altri, tramite una scrittura di singolare potenza, la storia di quel volto, del suo evolversi verso apparenze prima vegetali, che per colori e forma ricordano frutti e fiori fantastici, e poi geologiche, quando l’irrigidirsi dei tessuti crea paesaggi composti da rocce e crateri. La devastazione delle ustioni, ma anche quella provocata dagli infiniti interventi per nascondere il teschio che affiora da quel viso un tempo grazioso e “ingenuamente sensuale”, viene minutamente, spassionatamente osservata e descritta da Jorge, cui è toccato il compito di assistere la madre e accompagnarla a Milano, in una clinica dove per due anni verrà fatto tutto il possibile, senza, però, che quel “tutto” sia abbastanza. Clotilde vivrà ancora per quattordici anni, sforzandosi inutilmente di riprendere un’esistenza normale e di tornare al lavoro e alla politica, finché nel 1978 si getterà dal balcone dello stesso appartamento dov’era stata sfigurata (dieci anni dopo anche la figlia Maria Cristina, sorella minore di Jorge, morirà suicida), e dove conviveva con il ricordo del marito, conservando ogni suo più piccolo oggetto.

All’uscita del libro, buona parte della critica e dei lettori si concentrarono sul suo contenuto autobiografico, vista la notorietà dei protagonisti e il clamore suscitato da una tragedia di cui l’Argentina aveva parlato a lungo, suggellata per di più da una catena di suicidi conclusa nel 2001 proprio da Jorge, che a cinquantanove anni si getta dal balcone del suo appartamento di Cordoba, sopraffatto, come scrive Alan Pauls nella lunga postfazione, da un corpo che non ce la faceva più: una morte che contribuisce a dilatare la leggenda nera della sua famiglia. Ma un’ottica del genere è lontana dal rappresentare la complessità e l’audacia del romanzo, suscettibile di ben altre letture. Lo stesso Baron Biza sottolineò più volte che “Il deserto” (il cui titolo originale, assai più evocativo, è El desierto y su semilla, ovvero “Il deserto e il suo seme”) è ben distinto dall’autobiografia, e che “la sofferenza non legittima la letteratura. Ciò che legittima la letteratura è il testo”.

Non si può, infatti, non tenere conto della presa di distanza compiuta dall’autore, non solo attraverso espedienti come quello di cambiare nome ai personaggi – i Barón Biza diventano i Gageac, Clotilde si trasforma in Eligia, Raúl in Arón, Jorge in Mario –, ma anche grazie a consumate strategie che ci riportano nel territorio di una letteratura scritta in prima persona e di ispirazione autobiografica, sì, ma lontanissima dal libro di memorie o dal semplice regolamento di conti con il passato e con la figura eccessiva, sfrenata, violenta del padre, quanto con quella fin troppo diligente, “così lavoratrice, con i suoi vestiti sobri, la sua pedagogia”, di una madre assente, completamente assorbita da una vocazione pubblica che aveva fatto di lei, oltre che un’eminente figura di educatrice, anche una sorta di anti-Evita.

Ci è voluto del tempo perché i contorni reali della storia di Eligia e Arón (strettamente intrecciata, tra l’altro, a quella politica e sociale del loro paese) sfumassero fino a lasciar percepire lo spessore letterario di un testo in cui capitoli di un macabro sublime, dove il senso del colore e della forma ricordano a chi legge che Baron Biza era anche un eccellente critico d’arte (la carne della madre è un quadro di Arcimboldo, un paesaggio surrealista, una creazione astratta), si alternano al racconto quasi impersonale dell’inferno privato di Jorge/Mario, precocemente alcolizzato, deciso ad optare per una sorta di autoanestesia che si risolve in passività assoluta – l’opposto, quindi, della violenza paterna –, perso per le strade di una Milano abbagliata dal miracolo economico, notturna, nebbiosa, le cui stradine sembrano riprodurre il disordine del volto di Eligia. Una città fatta di bar e locali notturni, di nuovi ricchi oltraggiosamente arroganti, di figure marginali come Dina, la prostituta che di Mario si innamora e che lo coinvolge in inquietanti, e tuttavia ridicole, sedute erotiche con i suoi clienti (ancora carne che si adatta, carne pronta a tutto); una città sgombrata dalle rovine della guerra ma non dalla sua memoria, ritratta in un modo che è piaciuto a Gillo Dorfles, colpito dal romanzo al punto da recensirlo nel 2003 sul Corriere della Sera, benché ancora non esistesse una traduzione italiana.

Il caos della carne di Eligia non si riflette, però, solo nella topografia milanese, ma anche in quello delle notti che suo figlio trascorre bevendo in compagnia di gente equivoca, e nel suo successivo vagare per l’Italia in treno, senza soldi e senza meta, in cerca di quella bellezza che sembra l’unica cosa capace di acquietarlo. Ma la corrispondenza più evidente è quella con il caos dell’Argentina, paese martoriato da colpi di stato e dittature, da rivolte e da miti necrofili, come quello che riguarda il bellissimo e incorrotto cadavere di Evita, trafugato e infine nascosto, come per una tremenda simmetria, nel cimitero di Milano, a poca distanza dalla clinica dove giace il corpo devastato di Eligia/Clotilde, la sua nemica e rivale. Al di là del discorso sulla cedevolezza e la resistenza della carne, sul rapporto tra volto e identità, tra esterno e interno che lega il corpo di Eligia alla vicende della sua famiglia e del suo paese, Il deserto è, però, innanzitutto il tentativo di Jorge, ormai maturo e segnato dalla precarietà di una vita trascorsa in silenzio, guadagnandosi il pane come invisibile “manovale” dell’industria editoriale (fu ghost writer, correttore di bozze, recensore, traduttore, cronista), di riappropriarsi di se stesso attraverso lo sguardo che va a posarsi sul viso della madre, studiandolo frammento per frammento: una sorta di tenebroso romanzo di formazione, il suo, che cerca un impossibile punto di approdo al di là della tragedia, trasformando la vita in letteratura.

 

Questo articolo è apparso su Il manifesto nel marzo 2016

giovedì 3 marzo 2016

Da leggere: per chi ama il "rosa": Florencia Bonelli


Florencia Bonelli




Per chi ama il “rosa”, passioni e storia patria dall’Argentina 

Prima o poi doveva succedere: dopo aver spremuto l’immenso catalogo del rosa inglese e americano, l’industria editoriale italiana ha deciso di lanciare le sue reti anche altrove, in cerca di titoli per un mercato in perenne mutamento, ma che non conosce crisi (non a caso la nascita della Harper Collins Italia ha coinciso, nel 2015, con l’acquisto da parte del gruppo americano della Mondadori-Harlequin, depositaria per un trentennio del marchio Harmony). Uno dei frutti di questa pesca miracolosa è la recentissima apparizione negli Omnibus Mondadori di Il profumo dell’orchidea, romanzo fiume dell’argentina Florencia Bonelli, una bella signora ultraquarantenne con diciotto titoli e due milioni di copie al suo attivo, che in patria può contare su un esercito di furibonde appassionate, pronte ad accorrere da ogni parte del paese alla Fiera del libro di Buenos Aires per incontrare l’autrice e rinsaldare il legame già instaurato via e-mail (la Bonelli risponde personalmente a tutte le sue fans). Più simili a groupies che a lettrici, alcune si presentano con le unghie dipinte nei colori delle copertine preferite, altre portano fiori alla loro divinità personale, e tutte insieme formano una comunità in insaziabile attesa dei nuovi titoli: un fenomeno non da poco in un paese dove l’offerta rosa è assai nutrita, vista la quotidiana proposta di infinite telenovelas.

Florencia Bonelli, che nel 1998 ha lasciato la professione di commercialista per la scrittura, viene ormai considerata la nuova Corín Tellado, asturiana scomparsa nel 2009 e regina incontrastata del rosa in lingua spagnola. Un paragone lusinghiero ma azzardato, se non altro perché “la Corín” in sessantatré anni di attività ha prodotto quattromila romanzi e secondo calcoli non aggiornati avrebbe venduto oltre quattrocento milioni di copie in Spagna e in America Latina, tanto da risultare l’autore di lingua spagnola più letto dopo Cervantes. Le differenze tra le due, però, non si esprimono soltanto in cifre: Tellado era una provinciale schiva e appartata che sfornava a getto continuo storie brevi e ambientate in un contesto quotidiano e contemporaneo, castissime ma capaci di giocare sul non detto (Guillermo Cabrera Infante, che alla sua prosa dedicò un piccolo saggio, la definì “un’innocente pornografa”), così da sfuggire alla censura franchista.

La cosmopolita Florencia Bonelli somministra invece alle sue lettrici sostanziose ed esplicite dosi di erotismo, avventure rocambolesche, scenari spesso esotici, colpi di scena degni del feuilleton e, soprattutto, una dettagliata ambientazione storica come quella di Il profumo dell’orchidea, quattrocento pagine senza alcuna pretesa di stile (frasi brevi e semplici, vocabolario basico) per descrivere la rovente passione clandestina tra un celebre soprano e un tenutario di bordelli nella Buenos Aires del primo ’900, il tutto con la costante colonna sonora del tango, nato nei vicoli dei quartieri malfamati e in origine destinato solo a compadritos e prostitute, tanto è vero che la protagonista, abituata ai palcoscenici dei teatri dell’Opera europei, viene costretta con ricatti e minacce a cantarlo in un postribolo.

A parte rare eccezioni – tra esse la trilogia Caballo de fuego, il cui protagonista Eliah, confessa la scrittrice, ha i tratti di Gabriel Garko, ben riconoscibili nelle immagini di copertina –, i romanzi della Bonelli sono dunque da collocare nella fortunatissima categoria dell’historical romance, roccaforte inglese e americana ormai espugnata da autrici delle nazionalità più diverse, anche se in tante si nascondono dietro pseudonimi come Brianna Callum o Ebony Clark e collocano le proprie eroine nell’Inghilterra della Reggenza.

La produzione di Florencia Bonelli e delle sue molte epigone (da Gloria Casañas a Viviana Rivero, da Silvana Serrano a Gabriela Exilart) possiede però caratteristiche che non rimandano a una semplice imitazione del collaudato modello anglosassone, ma piuttosto alle origini della letteratura argentina, segnata da romanzi come Amalia di José Mármol o La novia del hereje di Vicente Fidel López, in cui l’influsso tardivo del romanticismo europeo si sposa alla violenta epopea fondativa di una nuova nazione: testi colti e popolari al tempo stesso, in cui per porre le basi di un immaginario nuovo e soprattutto “americano” si ricorreva non solo all’avventura, ma anche a tragiche passioni.

Da allora, man mano che la breccia temporale tra gli eventi e il tempo del racconto si è andata ampliando, il passato è stato parte così importante e viva della narrativa argentina da insinuarsi in generi e scritture differentissimi, in risposta a quello che la studiosa Maria Rosa Lojo ha definito il bisogno di guardarsi indietro per tentare di capire le cause del disastro presente e ridefinire se stessi. Un bisogno che a partire dagli anni ’80 si è trasformato anche nella domanda (subito accolta e lucrosamente sfruttata dall’industria editoriale) di prodotti culturali fruibili da un pubblico non specializzato, come testimonia la grande fortuna di divulgatori della storia nazionale quali Félix Luna, o di artigiane come Cristina Bajo e María Esther de Miguel, autrici di solidi romanzi storici in cui il sentimento ha un ruolo di primo piano. E l’incarnazione più facilmente consumabile e forse più amata di questo vasto interesse per il proprio passato sono appunto i romanzi rosa come quelli della “Flor”. Ma attenzione a riderne o a parlarne male: le Amigas Bonellistas, guardia pretoriana on line dell’idolatrata scrittrice argentina, hanno le orecchie lunghe e sono molto suscettibili.

 

Questo articolo è stato pubblicato su pagina99 nel febbraio del 2016