martedì 29 marzo 2022

Da leggere: Agustín Fernández Mallo

 


Fernández Mallo




Il secolo della paura 

Un fisico nucleare che è anche un musicista, un ottimo e prolifico poeta, un saggista insolito, un cinefilo, un appassionato d’arte concettuale e, prima di ogni altra cosa, uno scrittore: nonostante sia breve, una presentazione del genere non esaurisce certo il ritratto di Agustín.

Fernández Mallo, nato a La Coruña nel 1967 e autore di quel Nocilla dream che nel 2006 irruppe nella scena letteraria spagnola con un piglio così audace da indurre la critica a parlare di “Generazione Nocilla”, per riferirsi a un gruppo di giovani scrittori spagnoli nati intorno al 1970.

Sbrigativa e poco attendibile come tutte le etichette (gli autori cui venne applicata avevano in realtà poco in comune, a parte la data di nascita), anche questa è stata ben presto archiviata. Non così, invece, l’opera di Fernández Mallo, che negli anni ha definito la sua inconfondibile identità di narratore grazie ad altri tre romanzi, per approdare infine al monumentale e più che notevole Trilogia della guerra, indicato dal New York Times come uno dei migliori libri del 2018 e vincitore nello stesso anno di un premio letterario importante. Grazie all’editore Utopia il romanzo arriva ora in Italia (traduzione di Silvia Lavina, pp. 456, e. 20), in un momento in cui la guerra, quella vera, divampa in Europa: una coincidenza che gli assegna un senso nuovo e che induce, se non altro, alla curiosità.

Diviso in tre parti che si potrebbero anche leggere indipendentemente, ma che si rivelano collegate da temi ricorrenti e da elementi semantici, il testo dà voce a tre personaggi differentissimi che si confrontano con la guerra civile spagnola, con quella in Vietnam e con lo sbarco in Normandia, avventurandosi però in racconti che non rimandano a un romanzo storico o a una ricostruzione realistica degli eventi. Spiazzante come sempre, infatti, l’autore colloca i suoi protagonisti nel mondo contemporaneo e li mette in relazione con le tragedie passate, guidandoli sui luoghi delle antiche battaglie e facendoli dialogare con ricordi, ombre, fantasmi.

È del presente che le voci narranti ci parlano in prima persona, e del modo in cui il passato lo genera, penetra in esso, lo modella, perché, dice uno dei personaggi, “Come le stelle, che ci illuminano pur essendo già̀ morte, siamo una legione di vivi e morti uniti dalla stessa cosa: la distruzione e la guerra”. Il passato è insomma una rete in cui tutti siamo impigliati, mentre il tempo somiglia a una marea che getta a riva i residui dei mille naufragi e delle apocalissi di cui il romanzo si fa eco. Perché la rete più grande, suggerisce Fernández Mallo, non è internet, ma il dialogo tra vivi e morti in cui siamo ogni giorno impegnati, anche senza saperlo, e sul quale edifichiamo la nostra realtà.

Proprio come Nocilla dream (pubblicato nel 2008 in Italia da Neri Pozza col titolo Il sogno della Nocilla), anche Trilogia della guerra si apre continuamente ad aree diverse dalla letteratura, diventando un artefatto multidisciplinare dove trovano posto le scienze, la politica, la filosofia, l’antropologia, con veri e propri frammenti saggistici inseriti nelle innumerevoli sottotrame che si ramificano da quelle centrali. Un romanzo che si dilata all’infinito, con una struttura frammentata e non lineare tipica delle avanguardie storiche come della letteratura postmoderna, e che è qui costellata di materiali della cultura pop, di riferimenti al cinema e all’arte, di citazioni e “appropriazioni” (una via battuta in prima luogo da Borges, cui Fernández Mallo ha reso omaggio nel 2011 con il brillante e ormai perduto El hacedor (de Borges). Remake, testo mandato al macero su istanza della terribile Maria Kodama, vedova dello scrittore argentino).

I punti di riferimento già presenti in Nocilla dream ci sono tutti, ma Trilogia della guerra oltre a essere più maturo e ambizioso, raggiunge una sostanziale coerenza narrativa, pur non rinunciando alla scommessa su una letteratura fondata sul vorticoso accostamento di luoghi, epoche, momenti, oggetti e folle di personaggi che si accalcano attorno ai tre protagonisti.

Il primo è uno scrittore in visita nella deserta isoletta di San Simón, in Galizia, divenuta campo di concentramento dopo la guerra civile, e da lì parte alla ricerca di uno dei vecchi prigionieri, spingendosi fino in Uruguay e a New York, dove incontra le amabili ombre di García Lorca (le sue poesie “americane” sono uno dei leitmotiv dell’opera) e di Salvador Dalì, che vagano per Central Park come spettrali flâneur.

A narrare la formidabile seconda parte, quasi una rivisitazione mimetica del “grande romanzo americano” e dei suoi archetipi, è invece un anziano statunitense di nome Kurt (come il protagonista di Cuore di tenebra, poi transitato in Apocalypse Now), ex pilota durante la guerra del Vietnam e astronauta dell’Apollo, anche se nessuno lo sa perché non compare nelle foto. Un simbolo e un interprete di quella madre oscura che è il sistema nordamericano, pronto a generare “mostruosità” come la metamorfosi trumpiana, anticipate in un titolo tratto da una canzone di David Bowie (“Stati Uniti d’America. Topolino è cresciuto e ora è una vacca”).

Una donna che da sola percorre a piedi le spiagge della Normandia è la protagonista di una splendida terza parte, dichiaratamente ispirata a Gli anelli di Saturno di W.H. Sebald, in cui le memorie sanguinose dello sbarco e dei suoi morti si fondono con l’apparizione dei profughi siriani che tentano di arrivare in Inghilterra, dopo che fame e guerre li hanno espulsi dal loro paese per sospingerli sulle rive di un’Europa aggrappata all’illusione di una pace sempre più fragile.

Ciascuno parla di sé, disegna i suoi percorsi e allo stesso tempo sprofonda nella memoria collettiva per avvicinarci obliquamente alle guerre del ventesimo secolo, a quelle di oggi e di sempre, dando vita a una tempesta di immagini e montaggi visuali che scatenano suggestioni profonde, come se lo sguardo del narratore – sostenuto da una serie di fotografie ritrovate o scattate da lui stesso, inserite e commentate qua e là nel testo – rivelasse e collegasse gli aspetti più nascosti e inattesi di luoghi, persone, oggetti, eventi, per penetrare la complessità contemporanea e ricordarci che siamo la somma di tutti coloro che non ci sono più, delle loro azioni, dei loro pensieri, dei loro errori, della loro furia. Non a caso l’incendio e i fuochi artificiali che, alla fine della terza parte, illuminano la spiaggia normanna e le ombre dei profughi sembrano un riflesso di fiamme belliche destinate a non spegnersi mai.

Capace di innescare la riflessione e di favorire associazioni inconsuete, senza mai ricorrere al lamento o all’invettiva ma privilegiando piuttosto l’ironia, la curiosità, l’osservazione attenta, il dettaglio, la lentezza, Trilogia della guerra sa come avvincere il lettore e avvolgerlo in un turbine di vicende, concetti, informazioni, visioni, e, con grande sicurezza e altrettanta abilità, fa combaciare migliaia di minuscoli pezzi per comporre un mosaico di enorme suggestione, dominato da uno spettro che non ci abbandona mai, a tratti invisibile ma sempre pronto a reincarnarsi: perché se il Novecento è stato il secolo della paura, “sospinto da forze cieche e sorde” incapaci di intendere “le grida di avvertimento, i consigli, le suppliche”, come scriveva Albert Camus nel 1946, il nostro sembra non essere così diverso.

 


Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel febbraio del 2022

lunedì 14 marzo 2022

Da leggere: Natalia García Freire e Monica Ojeda

 


Natalia García Freire e Monica Ojeda


                             


Il cuore nero della famiglia

Intervistato nel 2001 dal quotidiano di Quito El Comercio, il pur coltissimo scrittore messicano Carlos Fuentes mostrò di conoscere assai poco la narrativa ecuadoriana, citando solo tre autori attivi fra gli anni ’30 e ’40 e confermando una volta di più l’immagine di una letteratura congelata nel tempo e sostanzialmente invisibile, circondata da un silenzio che solo da poco si è finalmente infranto. Il merito di questa recente “chiamata alla ribalta” internazionale va soprattutto a un gruppo di autrici fra i trenta e i quarant’anni, cosmopolite e audaci, le cui opere hanno saputo imporsi a sufficienza perché oggi, sia pure in lieve ritardo rispetto ad altri paesi, arrivino fino a noi i testi di due ecuadoriane vicinissime per età, molto diverse per tematiche e scrittura, ma entrambe connotate da un’originalità e una forza espressiva difficili da ignorare.

La più giovane, Natalia García Freire, è nata nel 1991 a Cuenca, nella Sierra andina dov’è ambientato Questo mondo non ci appartiene (pp. 147, e. 15), appena pubblicato da Sur nella bella traduzione di Lara Dalla Vecchia: un primo romanzo sobrio e ipnotico dal linguaggio ricco di chiaroscuri e iterazioni, che conferiscono una cadenza musicale alla voce del protagonista e al racconto della distruzione di una famiglia (la sua) a opera di due misteriosi stranieri. Ormai adulto, Lucas fa ritorno alla casa da cui l’hanno scacciato Eloy e Felisberto – gli usurpatori che hanno ucciso suo padre, vittima consenziente – e in un allucinato flusso di coscienza si rivolge al genitore morto, alternando a squarci del presente la rievocazione del passato, di un’infanzia tradita, del rapporto con la madre e con le silenziose domestiche.

La casa è in rovina, nel giardino un tempo splendido pascolano le mucche, ma sotto la decomposizione e il declino freme un universo invincibile, che da sempre affascina Lucas: quello degli insetti, osservati con reverente meraviglia, ammirati ed amati al punto che la compagna fedele del protagonista è un ragno femmina, enorme e velenoso. È attraverso una sorta di comunione con loro che Lucas cerca di costruirsi un’identità da opporre a quella paterna, ed è da farfalle, bruchi, larve, coleotteri, artropodi che nasce l’aspirazione a liberarsi della propria pelle per approdare a un’altra forma di vita, scissa in corpi infinitesimali destinati a una perpetua rinascita, veri padroni della terra.

L’autrice concede al lettore ben poche informazioni: non sappiamo in che epoca si svolga la vicenda (anche se tutto fa pensare all’inizio del ventesimo secolo), dove si trovi esattamente la casa, chi siano in realtà gli stranieri e il perché della sottomissione quasi entusiasta del padre. Le ombre dell’edificio fatiscente, il brulichìo di creature minuscole, il rigoglio di un indifferente giardino dell’Eden che sa di poter resistere a qualsiasi profanazione, riprendendo ogni volta il sopravvento, sottolineano insieme ai sapienti vuoti della trama il carattere metaforico e simbolico della narrazione, vicina a quel “gotico andino” in cui si inscrivono le boliviane Liliana Colanzi e Giovanna Rivero, ma anche María Fernanda Ampuero, un’altra e celebrata ecuadoriana che presto verrà presentata ai lettori italiani.

Al di là del puro e semplice piacere della lettura, il romanzo si presta a molte e diverse interpretazioni ed evoca una vasta ed eterogenea tradizione letteraria, da Poe a William H. Gass fino a Juan Rulfo e a José Donoso, creatore di case labirintiche e cupe che racchiudono il declino delle grandi famiglie borghesi. La figura più suggestiva che si intravede dietro Questo mondo non ci appartiene è però quella di Maria Sybille Merian, studiosa e magnifica pittrice della natura vissuta tra il XVII e il XVIII secolo, cui García Freire rende esplicitamente omaggio e che ha ispirato il personaggio della madre di Lucas, assorta nei suoi studi di botanica ed entomologia, estranea alla religiosità ipocrita del marito e così diversa dal modello femminile imposto dal patriarcato da venire rinchiusa in manicomio.

Se García Freire allude a un passato andino e arcaizzante, Monica Ojeda, che come lei – ma in termini assai differenti – parla dell’infanzia inascoltata e dell’esistenza del male, ambienta il suo Nefando (Alessandro Polidoro Editore, pp. 200, e. 17) in una Barcellona contemporanea popolata di turisti senza vergogna, di borseggiatori e di truci indépes catalani, dove cinque studenti latinoamericani e un hacker sivigliano vivono da estranei nello stesso appartamento. Tranne Irene, Emilio e Cecilia Terán, che vengono dall’Ecuador e hanno condiviso un padre violentatore, una madre indifferente e un’infanzia spaventosa all’insegna degli abusi più orrendi, documentati in una serie di video, gli altri non hanno niente in comune, o quasi: Kiki è impegnata nella stesura di un romanzo pornografico, Cuco partecipa a traffici loschi e Iván frequenta un inutile corso di scrittura creativa e vive con tormento la propria incerta identità sessuale.

In realtà, però, i Terán non sono gli unici ad aver affrontato situazioni conflittuali o violente, come scopriremo a poco a poco attraverso capitoli brevi, legati fra loro ma così compatti da sembrare quasi racconti conclusi e indipendenti. Accostati l’uno all’altro, i frammenti ci forniscono non solo ritratti efficacissimi, benché incompleti, dei personaggi e del loro passato, ma anche la storia di un videogioco chiamato “Nefando” e nascosto nel deep web. È un narratore di cui non sappiamo nulla, se non che è ecuadoriano come i Terán, a collegare testimonianze e ricordi, interpellando gli abitanti dell’appartamento a proposito di Nefando e dei suoi ideatori. Che sono i Terán, naturalmente: loro è stata l’idea, poi realizzata da Cuco, e sempre loro hanno fornito i video porno da inserire nel gioco, che li ritraggono durante le sevizie paterne. Un modo per affrontare il danno subìto e per “creare” a partire da esso.

Crudo ed esplicito, tagliente eppure intensamente poetico, mirabilmente scritto, Nefando è il secondo romanzo di Ojeda, una delle più interessanti tra le autrici latinoamericane della sua generazione e certo tra le più abili e mature, la cui opera è già considerevole nonostante la giovane età (è nata nel 1988), visto che in pochi anni ha prodotto due libri di racconti, due raccolte di versi e altri due romanzi, l’ultimo dei quali, Mandibula, pubblicato in Italia l’anno scorso sempre da Alessandro Polidoro. Come e più che altrove, Ojeda conferma qui la sua considerevole capacità di orchestrare in modo impeccabile una polifonia di voci che si incrociano (il traduttore Massimiliano Bonatto ne ha reso assai bene le peculiarità), si contraddicono e chiedono al lettore un’attenzione costante, mettendolo a confronto con un segreto e insinuando che toccherà a lui scioglierlo e stabilirne il senso, in continuo dialogo con un testo ibrido fatto di interviste, flashback, incursioni nel web, scene di videogiochi, capitoli del romanzo di Kiki, scarabocchi, flussi di coscienza, in un’alternanza tra prima, terza e seconda persona.

L’esercizio stilistico, vertiginoso e ben riuscito, sostiene la complessità dei contenuti e la rispecchia; il romanzo, infatti, non si limita ad affrontare senza remore temi come la pornografia infantile, la ricerca del piacere attraverso la violenza, la riduzione dell’altro a oggetto da usare, il cuore nero della famiglia, l’incesto, ma riflette costantemente sulla possibilità di trasformare qualunque esperienza in linguaggio estetico per esporla allo sguardo di tutti, compreso chi non vuole o non sa vedere. Il che significa, prima di ogni altra cosa, parlare di letteratura, ripensarla, intraprendere un’indagine metaletteraria sulla rappresentazione del male e, infine, rimandare a un’ampia «biblioteca» che si discosta dal canone e non esita a frequentare anche territori marginali o disprezzati. Un romanzo-saggio, dunque? Sì, anche questo. O forse, al di là delle emozioni che suscita, soprattutto questo.

 

 

Questo articolo sul quotidiano Il manifesto nel marzo del 2022

lunedì 7 marzo 2022

Da leggere: Roque Larraquy

 


Roque Larraquy 





Morire per la scienza, oppure per l’arte?

 

“È ormai un dato di fatto che il cancro si può curare completamente con la soluzione antitumorale del Professor Beard dell’Università di Edimburgo, Inghilterra. (…) Il Sanatorio Temperley è l’unica struttura autorizzata dal dottor Beard per l’applicazione di questo trattamento nella Repubblica Argentina”. Un annuncio di questo genere può far pensare alle innumerevoli cure miracolose che oggi si annidano negli anfratti di internet, ma è apparso sulla rivista «Caras y Caretas» (una specie di «Domenica del Corriere» argentina) nel lontano 1907, e se vale la pena di ricordarne le cialtronesche promesse è perché, dopo averlo ritrovato in chissà quale archivio, lo scrittore e sceneggiatore Roque Larraquy ne ha preso spunto per il suo romanzo La madrivora, tradotto in diversi paesi, candidato al National Book Award nel 2018 e appena arrivato in libreria per le edizioni Alter Ego nella brillante versione italiana di Carlo Alberto Montalto (pp. 168, e. 15).

Insieme a Rapporto sugli ectoplasmi animali di Buenos Aires (Gallucci 2016) e al recente La telepatía nacional (Eterna Cadencia, 2020), La madrivora fa parte di una sorta di trilogia e conferma il talento di un autore che in poco più di un decennio ha coerentemente sviluppato una narrativa inconfondibile, ambientata ai primi del Novecento e connotata da una satira feroce delle pseudoscienze e di una destra inquietante e oscura, di cui assume il punto di vista per meglio demolirlo attraverso finzioni tanto più grottesche e umoristiche, quanto più asciutta è la voce narrante.

A raccontare le stupefacenti vicende del Sanatorio è il cinico dottor Quintana, che con le sue annotazioni secche e precise, alterate a tratti dall’esaltata passione per la capoinfermiera Menéndez, ci introduce in una comunità di medici pronti a tutto, sia per l’ansia di verifica ereditata dal positivismo, sia per gli incentivi proposti dal proprietario inglese della clinica e dal suo direttore, cui si deve l’idea di servirsi dell’annuncio su «Caras y Caretas» per attirare i soggetti da sottoporre a un esperimento ispirato alla querelle des têtes tranchée, che dopo l’avvento della ghigliottina imperversò nella Francia del diciottesimo secolo. Ed è sempre sua la decisione di reclutarli tra le classi popolari, abbastanza “invisibili” e socialmente irrilevanti da garantire al Sanatorio l’immunità necessaria.

Partendo dall’ipotesi, formulata per primo dal medico tedesco Sömmerring, che le teste appena mozzate restino in vita per alcuni secondi e siano in grado di pronunciare una frase, i medici di Temperley ricorrono a una sofisticata ghigliottina per catturare le eventuali parole postume e scoprire cosa c’è “oltre la soglia”. I corpi dei “donatori”, residui senza importanza, vengono poi rapidamente eliminati grazie alla madrivora, un vegetale che genera larve pronte a divorare qualsiasi cosa, compresa la pianta da cui provengono. Ed è quasi inutile sottolineare come l’insistenza nell’ottenere una “confessione” finale dai corpi sacrificati, e ancor più il modo di smaltirli senza lasciare tracce, facciano intravedere (forse al di là delle intenzioni dell’autore, dichiaratamente ostile a qualsiasi allegoria) un’immagine non troppo sfocata della strage compiuta dalla dittatura negli anni ’70.

La congiunzione tra la narrativa e le versioni più improbabili e spericolate della scienza è piuttosto frequente nella letteratura argentina, e la critica non ha mancato di citare, a proposito dell’opera di Larraquy, autori come Holmberg, Lugones, Quiroga, il Bioy Casares di Dormire al sole, il César Aira di El congreso de Literatura e, non ultimo, il José Pablo Feinmann di Il cadavere impossibile. Ma il rimando a una ben individuata tradizione letteraria sottolinea, invece di appannarla, l’originalità di La madrivora, che, pur non inscrivendosi nel fantastico, elude ogni vincolo col realismo grazie a una netta intonazione comica e all’efficace parodia del nazionalismo più arrogante e delle peggiori scelte di una scienza che rinuncia a curare per sviluppare, invece, tecniche tanatologiche asservite al potere, o dettate da una hybris sconfinata (lo facciamo perché possiamo e perché ci è venuto in mente per primi, dicono i medici del Sanatorio).

Sulla prima parte del romanzo si innesta poi un secondo racconto collocato nel nuovo secolo, che si affida alla voce di un bioartista argentino ossessionato dall’idea di trasformare sé stesso in una celebrata e costosa opera d’arte, senza arretrare davanti alla manipolazione estrema del corpo proprio e altrui. Non esiterà, infatti, a trasformarsi chirurgicamente nel sosia del suo socio e complice, sulla scia di Liberace e della coppia Lady Jaye-P. Orridge, e convincerà l’ex amante Sebastián a lasciarsi divorare una gamba dalla madrivora per amore dell’arte e la gloria dell’Argentina.

Tra l’esposizione di bambini con due teste e di mobiles costruiti con mani rubate alla morgue (il titolo della macabra opera è Le mani di Perón), la critica di Larraquy al connubio tra arte e mercato si fa spietata, collegandosi abilmente al delirio pseudoscientifico della prima parte attraverso elementi come la recuperata madrivora, l’identità di Sebastián – bisnipote del dottor Quintana e custode dei suoi scritti – e il leitmotiv di frasi e parole chiave che trasmigrano dal diario del 1907 al racconto di un secolo dopo, acquistando nuovi significati. La connessione tra i due episodi, però, sta soprattutto nella centralità di corpi sostituibili all’infinito, merce “a perdere” che la sperimentazione scientifica o artistica trasforma in materia prima e infine in scarto.

Al di là della comicità provocatoria e delle allusioni storiche, politiche e culturali che il lettore potrà, se crede, individuare una per una, quel che più seduce in La madrivora è comunque l’equilibrio tra contenuto e forma, capace di stabilire un dialogo ineccepibile tra passato e presente e di insinuarvi una riflessione etica e politica che non interferisce con i tempi perfetti del racconto, ma che indubbiamente si oppone a una lettura affrettata e superficiale.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel febbraio del 2022