martedì 25 gennaio 2022

Da leggere: Fabio Morabito


Fabio Morabito


 


L’esorcismo dei nomi 

Per parlare dello scrittore, poeta e saggista Fabio Morabito non si può fare a meno di partire dal dato biografico che lo collega a un ristretto gruppo di scrittori accomunati dall’uso di una lingua diversa da quella materna: nato nel 1955 ad Alessandria d’Egitto da genitori italiani, cresciuto a Milano e residente a Città del Messico sin dall’adolescenza, Morabito coniuga infatti un’intensa e apprezzatissima attività di traduttore letterario (si deve a lui la versione spagnola dell’opera omnia di Montale) all’elaborazione di una vasta opera concepita e scritta in uno spagnolo cristallino.

Considerato ormai uno tra i più importanti poeti latinoamericani e autore di due romanzi, quattro libri di racconti e una magnifica antologia di Cuentos populares mexicanos, Morabito era noto in Italia solo grazie a un bel libro per ragazzi e all’edizione quasi segreta di parte delle poesie. Un’assenza cui oggi pone rimedio la traduzione del suo primo romanzo, Emilio, los chistes y la muerte (Nessun nome per Emilio, Exòrma, pp. 166, e. 15,50), eseguita a quattro mani da Marino Magliani e Adriàn N. Bravi, narratore argentino di nascita e marchigiano di adozione che ha optato da anni per l’italiano e a questo “transito idiomatico” ha dedicato un saggio apparso nel 2017, La gelosia delle lingue (una coincidenza che stabilisce un rapporto speculare fra autore e traduttore).

A una prima lettura Nessun nome per Emilio sembra inserirsi in un filone dalla genealogia illustre, imperniato sul risveglio del desiderio e i riti di passaggio di protagonisti giovanissimi, in cui si inseriscono testi come l’Agostino di Moravia o Battaglie nel deserto, capolavoro del messicano José Emilio Pacheco sull’innamoramento del bambino Carlos per la bellissima madre di un compagno di scuola. È subito evidente, però, che il romanzo non ha modelli e differisce profondamente da quelli cui lo imparenta un’indubbia affinità tematica; in apparenza realistico, è tuttavia contaminato da un’atmosfera onirica e atemporale, accentuata dall’ambientazione in un cimitero dove non arrivano echi dell’esterno e la vegetazione cresce in fitto e selvaggio disordine. Lo sfondo ideale, per un racconto iniziatico che ha i riflessi del mito e include i canonici rischi dell’avventura in terre incognite, il conflitto con il padre e infine la discesa in un tenebroso mondo sotterraneo.

Emilio, dodici anni, è alle prese con la separazione dei genitori, col trasferimento in un nuovo quartiere dove non conosce nessuno e con una memoria totale che lo spinge a imparare compulsivamente i nomi dei morti mentre cerca il proprio, la cui presenza su una lapide farebbe da esorcismo contro la morte. E tra le tombe conosce Euridice, una donna che ha perso da poco il figlio dodicenne, disorientata dal dolore, priva di inibizioni e pronta a stabilire con il ragazzino solitario un rapporto tra l’erotico e il materno, sul quale incombe l’ombra di un incesto simbolico. La presenza della nuova amica, la cui spontanea impudicizia sfiora l’esibizionismo, turba Emilio e lo induce a un’esplorazione che Euridice asseconda, lasciandosi accarezzare e baciare, incapace com’è di negarsi sia a lui che ad altri abitanti del cimitero, come Adolfo, il beffardo giovanotto che pulisce le tombe, o Apolinar, guardiano analfabeta.

Allo smarrimento di Euridice e alla sua fisicità irrefrenabile (non a caso fa la massaggiatrice e aiuta le clienti ad “ammorbidirsi” per affrontare le pretese di mariti brutali) corrisponde l’ansiosa, incerta sperimentazione di un Emilio che scambia baci anche con il chierichetto Rodolfo, bellissimo e insidiato da molti, compreso un becchino minaccioso e feroce. A differenza che nel mito, però, Emilio-Orfeo (armato di un assurdo “rivelatore di barzellette”, giocattolo e insieme oggetto magico) riesce a restituire in qualche modo alla vita la sua Euridice e torna dagli inferi per iniziare il viaggio verso l’età adulta.

Quella di Morabito è una scrittura essenziale, elegantissima e limpida, che “pensa” ogni parola in nome di una sobrietà legata, forse, anche all’uso di una lingua appresa e dominata a perfezione, ma insidiata da un’altra che, è l’autore stesso a dirlo, “vive in una sorta di subcosciente linguistico”. Ed è con elusiva minuzia che ci viene narrato un microcosmo soffocante, articolato intorno al corpo e al suo carico di desiderio e dolore, al confronto con l’eros e la morte, all’ambiguità della relazione tra maschile e femminile, all’affiorare della violenza e dell’abuso, al faticoso e inevitabile disintegrarsi dell’infanzia.

Nel finale, tra il giallo-arancio dei cempasúchitl (cioè i tageti, fiori del Día de muertos), emerge l’inclinazione dell’autore ad autocitarsi, grazie al riuso, con minime varianti, di un suo racconto del 2006 intitolata Hormigas e dedicato all’incontro col chierichetto, che evoca a sua volta a una memoria d’infanzia citata nel primo dei brevi testi su lettura, scrittura e traduzione contenuti in El idioma materno (2014), un altro incantevole e inclassificabile libro di Morabito. Non è l’unico caso in cui lo scrittore rimanda a frammenti scritti in precedenza, trasferendoli da un genere a un altro: non un semplice gioco autoriale, ma un modo per stabilire un dialogo fra le sue opere e assegnare ulteriori significati a temi che gli sono cari, mostrandoli in una luce diversa. E questa fedeltà alle proprie costanti, che sembra disegnare un universo chiuso ma non escludente né impenetrabile, finisce per apparirci come la chiave di una poetica coerente e “circolare” di cui Emilio è senz’altro un esempio.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel gennaio del 2022

Da leggere: Ivan Maureira Ortiz


Ivan Maureira Ortiz


 


Una ferrea dieta di atrocità fiabesche 

Un padre distratto, ossessionato e abbagliato dal cinema di Walt Disney; una gringa che per Disney lavora e che porta il significativo cognome di Burbank; l’orfano Gabriel, che diffida del mondo esterno fino al momento in cui il destino gli assegna, in prima elementare, una meravigliosa compagna di banco; Anastasia, tata decisa a fare del suo protetto un serial killer; un bambino abusato che diventa abusatore; una galleria di indegni “cattivi” da sopprimere…

Su questi personaggi che incrociano i loro destini entrando e uscendo dai capitoli del breve romanzo Non leggere i Fratelli Grimm (Edicola, pp. 110, e. 13), opera prima del cileno Ivan Maureira Ortiz, aleggia l’ombra di un assassino autentico, il francese Emile Dubois, giustiziere dei ricchi fucilato nel 1907 a Valparaíso e trasformato in santito dalla devozione popolare. È al suo intervento miracoloso, infatti, che vengono attribuire le morti di cui è responsabile Gabriel, programmato per il delitto da Anastasia cui le fiabe dei Grimm hanno insegnato, nel corso dei lunghi anni trascorsi all’orfanotrofio, che tutto è lecito, pur di vendicare le ingiustizie della vita.

Sottoposto a una ferrea dieta di atrocità fiabesche, il giovane Gabriel soddisferà pienamente le aspettative della sua tata, trasformandosi in esempio vivente dell’illimitato potere delle storie e di quanto sia pericoloso e incauto prenderle alla lettera. Ma anche gli adepti di Walt Disney (che “ripulì le fiabe originali di ogni elemento che potesse disturbare la morale e ostacolare le vendite, trasformando i cruenti racconti della tradizione orale in qualcosa di simile alla birra analcolica”) a volte si stancano di essere buoni: per scoprirlo basta arrivare al finale di questo paradossale e brillante esercizio di humor nerissimo, che è anche una suggestiva parabola sul narrare, e soprattutto sull’infanzia e sulle conseguenze del dolore che le si infligge.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel gennaio del 2022

lunedì 17 gennaio 2022

Da leggere: Jorge Ibargüengoitia

 


Jorge Ibargüengoitia 



Come uccidere un tiranno 

Una piccola isola nel Mar dei Caraibi a forma di cerchio, con duecentocinquantamila abitanti connotati da grandi differenze etniche, sociali ed economiche (poveri e poverissimi i discendenti degli autoctoni e degli ex schiavi africani, favolosamente ricchi quelli degli antichi colonizzatori spagnoli), concentrati soprattutto nella capitale Puerto Alegre. Questa è Arepa, luogo non solo immaginario ma impossibile (“perché la società che lo abita presuppone una ricchezza che non potrebbe esistere in un’isola così piccola, il maresciallo di campo è un tiranno costituzionale, i personaggi di classe media parlano come nel Guanajuato e il popolo va per le strade ballando la conga”) in cui lo scrittore messicano Jorge Ibargüengoitia ha ambientato il secondo dei suoi sei romanzi, ovvero Ammazzate il leone, pubblicato nel 1969 e ora riproposto da La Nuova Frontiera (pp. 192, e. 16) nella ormai storica traduzione di Angelo Morino, già apparsa in anni lontani per Feltrinelli e Sellerio.

Sin dal brevissimo prologo in cui l’autore presenta l’isoletta, è evidente che il romanzo si inserisce in un consolidato filone noto come “novela del dictador” e caratteristico della letteratura latinoamericana, in cui a partire dal diciannovesimo secolo ha trovato inevitabilmente posto una vasta galleria di caudillos, dittatori, “uomini forti” e satrapi assortiti. A governare Arepa, che per ottantotto anni ha lottato contro la dominazione spagnola, è proprio uno di loro: il maresciallo Manuel Belaunzarán, “l’Eroe giovinetto delle guerre di indipendenza”, che nel 1926 è giunto alla fine del suo quarto periodo alla guida del paese e intende modificare la costituzione per aggiungerne un quinto e diventare presidente a vita.

La sua decisione, che comporterà l’assassinio dello sfidante e una vittoria trionfale in elezioni prive di votanti, agita il partito moderato (rivale, ma in realtà sottomesso) e mette in moto una buffonesca, delirante cospirazione costellata di goffi attentati che approderanno a un colpo di scena casuale quanto sorprendente, come sorprendente è tutto il romanzo, sostenuto dal micidiale sarcasmo che ha fatto di Ibargüengoitia (scomparso nel 1983 in un incidente aereo, a cinquantacinque anni), uno dei più singolari scrittori di lingua spagnola del novecento e ha reso la sua opera quasi un unicum nel panorama letterario messicano.

Ammazzate il leone è innanzitutto una satira sfrenata dai tempi teatrali perfetti, e la cosa non stupisce se si pensa che l’autore scrisse a lungo per il teatro, da lui abbandonato dopo che la censura aveva messo al bando la sua ultima commedia, El atentado, a causa dello scarso rispetto verso la figura di Álvaro Obregón (1880-1928), generale rivoluzionario e poi presidente della Repubblica deciso a farsi rieleggere in deroga alla Costituzione. Deluso e risentito, Ibargüengoitia approdò così alla narrativa, da lui definita “il mezzo di comunicazione più adatto a un asociale come me: […] nel commercio librario non esiste nulla di paragonabile a quelli che russano la sera della prima”, e il suo fortunatissimo primo romanzo lo connotò immediatamente come autore capace di una spietata riflessione sulla Storia patria, imbalsamata dal discorso ufficiale e trasferita in testi scolastici magniloquenti o in romanzi carichi di eroici stereotipi nazionalisti.

La critica dell’ambizione, dei tradimenti, dell’avidità e dell’opportunismo di “eroi” veri o presunti, reali o immaginari, condotta con gli strumenti di un perfido e intelligentissimo humor nero (che era poi un modo di essere e di vedere la realtà, senza per questo banalizzarla o sminuirla) è infatti uno degli assi portanti di almeno tre dei testi di Ibargüengoitia: quello del debutto (I lampi di agosto del 1965, edito in italiano da Sellerio), ispirato alle memorie spesso cialtronesche dei generali rivoluzionari, lo straordinario Los pasos de Lopez del 1981, che ammicca alla commedia e all’opera buffa, e Ammazzate il leone, in cui riprende il tema dell’assassinio di Obregón, avvenuto proprio alla vigilia della nascita di Ibargüengoitia, in piena guerra cristera.

Chi conosce la storia del Messico non potrà fare a meno di individuare in quest’ultimo romanzo precisi riferimenti agli attentati subiti da Obregón tra il 1927 e il 1928, in un clima di feroce contrapposizione tra il governo e la Chiesa con il suo braccio armato, la Lega per la Difesa della Libertà Religiosa. I tre falliti tentativi di uccidere il crudele e astuto Belaunzarán (“una volta bello, ma invecchiato dagli anni, dai grattacapi dello statista, dalle donne e dai litri di cognac Martell scolati in vent’anni di potere”) da parte di una borghesia stolida, incapace e attenta solo ai propri privilegi, corrispondono quasi esattamente a contro il presidente messicano, ma vengono qui trasformati in una sorta di esilarante “comica” cui contribuiscono bombe mal confezionate nascoste nello sciacquone del bagno e aghi avvelenati da piantare, durante un fox-trot, nel corpaccione del tiranno. E non c’è dubbio che Belaunzarán e Obregón, come i loro opachi gregari Cardona e Callés (poi fondatore del PRI, il Partido Revolucionario Institucional), si rassomiglino molto, mentre il partito moderato ricorda il PAN (Partido Acción Nacional), dichiaratamente di destra.

Tra oppositori fucilati, suicidi per amore, cadaveri in ghette e marsina catturati da una rete colma di pesci moribondi, prestanti eroi che atterrano sull’isola con un biplano personale ma poi devono squagliarsela su una barchetta a remi, cinici ambasciatori stranieri, parlamenti fantoccio e martiri involontari, la trama non concede un attimo di tregua, offre infinite occasioni di amaro divertimento ed espone i fatti con un’oggettività sottolineata dall’uso del presente indicativo e da una prosa senza fronzoli, fondata su frasi brevi e secche, che consente di osservare i personaggi e il loro agire senza la mediazione di un narratore onnisciente, perché l’autore ne ignora con ostentazione pensieri ed emozioni e si limita ad esporre ciò che dicono o fanno.

Ibargüengoitia conduce con mano ferma la sarabanda, tirando i fili al momento giusto, disegnando una serie di riuscitissimi ritratti individuali in seno a quello che potremmo definire un romanzo corale ed evocando gesti, espressioni e ambienti con dettagli minimi e irresistibili. Da pessimista senza illusioni, che riesce a venir fuori da certi abissi solo grazie al senso dell’umorismo, parla indubbiamente del Messico e dell’America latina tutta, con i suoi eterni caudillos sospesi fra tragedia e grottesco, e tuttavia Ammazzate il leone, grazie anche all’ambientazione in un “mondo fuori del mondo” e a certe invincibili costanti dei regimi autoritari, concede al lettore la possibilità di prescindere da una lettura in chiave di storia nazionale e gli assegna una così ampia libertà interpretativa da rendere il testo incredibilmente contemporaneo, in un mondo in cui, a ogni latitudine, i Belaunzarán continuano non solo a esistere, ma a prosperare.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel gennaio del 2022