lunedì 28 novembre 2022

Da leggere: Elisa Victoria


Elisa Victoria



Una storia semplice 

Il 1992 è stato, per la Spagna, un anno memorabile che ha segnato il punto culminante della decade socialista, tra avvenimenti internazionali (le Olimpiadi di Barcellona e l’Expo di Siviglia, Madrid capitale europea della cultura) e i grandiosi investimenti destinati a sottolineare i cambiamenti sociali ed economici post-transizione. E poi, mentre il paese smaltiva una sorta di doposbornia da grandi eventi, il 1993 l’aveva travolta con la cronaca quasi ossessiva di un delitto destinato a lasciare lasciato un segno profondo nell’immaginario, ovvero lo stupro e l’uccisione di tre adolescenti, las niñas de Alcácer: una notizia coperta con spietato sensazionalismo dai giornali e dalle prime televisioni private.

Uno sfondo che andrà tenuto presente da chi affronta la lettura di Vocedivecchia (Blackie Edizioni, traduzione di Elisa Tramontin, pp. 257, e. 19,90) di Elisa Victoria, nata nel 1985 a Siviglia, dov’è ambientato questo suo primo romanzo le cui vicende, pur non connotate da una data precisa, esibiscono riferimenti temporali inequivocabili. Dagli schermi televisivi si affacciano, infatti, l’ancora trionfante Felipe González, il già insidioso Aznar e i volti riprodotti all’infinito delle povere ragazze di Alcácer, insieme agli episodi di Baywatch o di Sailor Moon e a tutto un inconfondibile contorno di musica, film, divi, marche, prodotti, consumi, giocattoli oggi quasi dimenticati, come le bambole Chabel, controcanto spagnolo alle Barbie americane. Fuori, intanto, un calore soffocante svuota le strade, sottolineato dalla peggiore siccità del secolo: non ci sono dubbi, siamo nel pieno di un’estate sivigliana del 1993, che si è appena lasciata alle spalle l’euforia dell’Expo.

A raccontare è una bambina di nove anni che vive in un quartiere operaio di periferia e che, anche se porta orgogliosamente lo stesso nome di sua madre e di sua nonna, cioè Marina, viene soprannominata Vocedivecchia dai compagni di scuola, un po’ per la sua intonazione grave, un po’ per i suoi abiti fuori moda, cuciti in casa. Una ragazzina che non ricorda più la faccia di un padre assente da molto tempo, e che sta affrontando i mesi estivi nel modesto appartamento di una nonna scivolata con gioia in una vecchiaia un po’ anarchica e senza tabù, pronta a parlare con la nipote delle funzioni corporali, dei due mariti defunti o della passione per “Felipito” González, tra sigarette e parolacce. Se Marina viene avvolta, giorno dopo giorno, dalla rude dolcezza nonnesca e da un perenne odore di fritto, è per via della grave e misteriosa malattia della madre che, ricoverata in ospedale, comunica con la figlia solo per telefono: lunghe conversazioni fatte di niente, in cui lo spettro della morte possibile, probabile, temuta, si affaccia di continuo.

Una storia semplice, quella delle tre Marine e del loro matriarcato proletario, ateo e anticonformista, raccontata in prima persona da una voce che semplice non è, perché l’autrice ha scelto di travasare i pensieri e i sentimenti dell’infanzia in un linguaggio elaborato e maturo, un flusso di coscienza magistralmente costruito da Victoria, che regala a Marina lo strumento necessario per esprimere compiutamente osservazioni acute, esilaranti e profonde, giudizi caustici, riflessioni sulla violenza e il sesso (temi filtrati attraverso fumetti, film, desideri e sperimentazioni “proibite”), sui mutamenti del corpo, sul costante timore di essere fuori posto ovunque.


A questa voce che prescinde da qualsiasi verosimiglianza e in un certo senso “traduce” i pensieri e i sentimenti infantili, si accompagnano dialoghi che, invece, riproducono in modo quasi mimetico il modo di parlare di una bambina di nove anni e dei suoi coetanei, come se l’autrice volesse ricordarci quanto c’era di segreto e insondabile nei bambini che siamo stati, e come l’infanzia si adatti a dare di sé stessa l’immagine che gli adulti sembrano desiderare o esigere.


Il discorso interiore di Marina, così denso di domande, intessuto di punti di vista spiazzanti, legato a sensazioni fisiche vivide e intense, a tratti crudo ed esplicito, ci fa presente quanto poco sappiamo dell’infanzia, con le sue asprezze, le sue feste, i suoi stupori, le sue crudeltà. E davvero si può dire che Elisa Victoria riesca a demolire ogni compiacente stereotipo e abbia vinto, con questo romanzo d’esordio, una scommessa spesso perduta da chi mette al centro del proprio narrare un protagonista bambino, mentre, sospeso tra inquietudine, timore e desiderio, cerca di immaginare un futuro sconosciuto.
 
 
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di novembre 2022

Da leggere: Angelica Gorodischer


Angelica Gorodischer



Storie di un Impero infinito 

Angelica Gorodischer, nata nel 1928, è morta otto mesi fa a Rosario, città dove è sempre vissuta insieme al marito Sujer (architetto di origine ucraina cui la scrittrice argentina ha “rubato” il cognome per firmare la propria vastissima opera) e dove ha lavorato come bibliotecaria, cresciuto tre figli e scritto i primi racconti senza avere, almeno all’inizio, “una stanza tutta per sé”, tanto da dover riporre ogni giorno sotto il letto la macchina da scrivere. Non ha fatto in tempo, dunque, a vedere l’edizione italiana del suo romanzo Kalpa Imperial, nella bella traduzione di Giulia Zavagna per Rina Edizioni (pp. 344, e. 18), corredata dall’approfondita prefazione di Loris Tassi. E sembra quasi incredibile che questo autentico classico moderno sia stato così a lungo ignorato dalla nostra editoria, nonostante il viatico autorevole di Ursula K. Le Guin che l’ha proposto (e con notevole successo) ai lettori di lingua inglese, traducendolo lei stessa e accompagnandolo con un giudizio entusiasta.

Di Gorodischer, finora, i lettori italiani potevano leggere solo un pugno di racconti noir (Come svoltare nella vita senza farsi ammazzare, Socrates 2008) e qualche novella inserita in antologie collettive: un’omissione imperdonabile, considerata l’ampiezza e l’importanza del percorso di un’autrice che, dopo aver esordito nel 1964 con un racconto poliziesco (premiato da una giuria di cui faceva parte Rodolfo Walsh), ha continuato a produrre per oltre cinquant’anni opere di grande originalità, rinnovandosi di continuo, attraversando generi diversi e mescolandoli.

Kalpa Imperial (il termine kalpa viene dal sanscrito e si riferisce a un ciclo cosmico infinitamente lungo) è considerato da molti il suo capolavoro, pubblicato in due volumi tra il 1983 e il 1984 e scritto durante la dittatura militare: un romanzo “a cornice”, composto da undici capitoli-racconto sul «più grande Impero mai esistito», caduto e risorto innumerevoli volte e abitato da una sterminata galleria di personaggi. Un testo caleidoscopico, che grazie all’accumulazione e all’accostamento di scene, dettagli, oggetti, visioni, paesaggi e architetture, fa pensare a un Arcimboldo letterario.

Le storie che emergono da lunghe frasi piene di svolte e incisi formano comunque un insieme coerente, il cui filo conduttore, oltre al succedersi delle dinastie, è la voce di narratori orali simili a quelli descritti da Elias Canetti in Le voci di Marrakech (Adelphi, 1983), il cui tono sembra sottolineare la natura mitica e l’incommensurabile antichità dell’Impero, della quale nessun documento scritto e nessun archivio può dare conto fino in fondo.

Ogni episodio potrebbe essere letto come una storia a sé, anche se l’autrice ha più volte suggerito di seguire l’ordine dei capitoli e di considerare il testo nella sua unità, per coglierne pienamente il senso e l’atmosfera. E ognuno, tranne l’ultimo, comincia con la formula “Il narratore disse”, che inaugura vicende sempre diverse, ricchissime di aneddoti, giudizi, ammonimenti, dicerie, umorismo nero, corpi come campi di battaglia, e disposte secondo una cronologia incerta e variabile che al tempo lineare sostituisce interruzioni e vuoti, scivolando avanti e indietro lungo i millenni.

Sotto la ricca e composita superficie di Kalpa Imperial – definito da Le Guin «ferocemente immaginativo e imprevedibile» – scorrono, come una sorta di fiume nascosto, riferimenti alla Storia argentina, dalla Conquista agli anni dell’ultima dittatura, cui l’autrice allude in modo talmente sottile che non per tutti sarà semplice riconoscere una memoria critica così “travestita”. Qualsiasi lettore, però, saprà cogliere la presenza di temi universali come la natura e l’esercizio del potere, il modo in cui vengono registrati e trasmessi gli eventi del passato e l’uso che se ne fa, la funzione sociale e politica della narrazione, il nascere e il tramontare delle culture, il rapporto tra popolo ed élites, tra libertà e dovere.

Gorodischer tesse con pazienza un sontuoso arazzo politico e filosofico e, evitando di formulare teorie o fornire spiegazioni («sono qui per raccontare, non per spiegare», diceva), crea un mondo volutamente incompleto in cui, come sottolinea la penultima storia, «non tutto è detto»: la possibilità di immaginare altre condizioni di vita consente infatti di sfuggire a un presente chiuso e meschino e suggerisce la necessità di sovvertirlo.

Non è facile definire il genere cui appartiene Kalpa Imperial, anche se spesso si attribuisce all’autrice il titolo di Gran Dama della fantascienza di lingua spagnola, alquanto improprio, dato che il romanzo (come altre opere di Gorodischer, a parte forse Trafalgar, sulle avventure di un viaggiatore intergalattico più simile a Gulliver che a un astronauta) non rispetta le convenzioni della science fiction e prescinde da tecnologia, mondi alieni, società future. E il testo non è così facilmente collocabile neppure nel fantasy (non prevede la magia, i poteri soprannaturali, la presenza di creature fatate), o in una tradizione rioplatense che va da Lugones a Borges e da Bioy Casares a Cortázar, in cui lo strano, il bizzarro e l’insolito si innestano sugli eventi quotidiani e, più che contribuire all’invenzione di nuovi mondi, mettono in dubbio la natura della realtà.

È vero che in esergo Gorodischer ringrazia Tolkien, Andersen e il Calvino di Le città invisibili, lasciandoci capire che intende inscriversi nel fantastico e che la sua immaginazione si nutre di miti, leggende, fiabe e utopie; bisognerebbe, tuttavia, resistere alla tentazione di imprigionare in un qualsiasi canone (non importa se “alto” o “basso”) un’autrice che con grande libertà e originalità mette in discussione ogni modello e fonda la sua pratica letteraria su una radicale ibridazione dei generi, mostrandosi capace di assorbire e metabolizzare influssi di ogni tipo, come, per esempio, quelli del neobarroco latinoamericano (la cifra di Gorodischer è l’iperbole, con lunghe enumerazioni, sovrabbondanza di dettagli e un erotismo senza censure) o dei “mondi secondari” alla Tolkien.

Nonostante i dettagli geografici, i paesaggi suggestivi e le descrizioni di città in perpetua trasformazione, simili a organismi viventi che si sviluppano, si espandono, mutano e decadono, è evidente che l’autrice rifiuta la minuziosa cartografia tipica degli universi fantasy e con essa la costruzione di identità nazionali ben definite, limitandosi alla costante distinzione tra un nord colonialista e oppressore e un sud magmatico e turbolento, la cui adesione a valori diversi da quelli imperiali può imprevedibilmente trionfare. Le è estranea, inoltre, la netta opposizione tra Bene e Male, che nei suoi racconti sono sempre pronti a rifluire l’uno nell’altro e a varcare il labile confine che li divide.

Più che con Tolkien e con i suoi emuli, Kalpa Imperial sembra avere qualcosa in comune con le complesse Storie di Nevèrÿon di Samuel R. Delany (tradotte da Roberta Rambelli nel 1978 per Armenia, e purtroppo mai riproposte), dense di riflessioni sul potere, sulla nascita del linguaggio, sulla storia della civiltà, sulle identità sessuali. E con il Delany di Nevèrÿon Gorodischer condivide senza dubbio l’ormai rarissimo dono di un sofisticato umorismo, che, insieme a una scrittura travolgente, fa di Kalpa Imperial una lettura irrinunciabile.

Una chiara intenzione utopica e antiegemonica, legata ai movimenti culturali e sociali degli anni ’60 e ’70, sembra poi collegare la narrativa dell’autrice, oltre che a Delany, all’Ursula Le Guin di La mano sinistra delle tenebre (Libra, 1971) o alla Joanna Russ di Female Man (Editrice Nord 1989), con le quali condivide l’interesse per il superamento della dicotomia maschile-femminile e un tenace femminismo che, sostengono alcune studiose, si manifesterebbe esplicitamente nella sua opera solo a partire dalla raccolta di racconti Mala noche y parir hembra (1983).

Un’attenta rilettura delle prime opere di Gorodischer, invece, ci mostra che le donne siano sempre state al centro della sua narrativa, in cui le identità di genere vengono spesso rappresentate come fluide e indefinite (nel suo primo romanzo Opus dos, del 1967, come in alcuni racconti immediatamente successivi, il sesso del personaggio protagonista e voce narrante non viene mai specificato). In Kalpa, poi, dai bassifondi dell’Impero emerge una potente figura femminile destinata a governare, superando per fama e saggezza tutti gli altri sovrani, mentre nell’ultimo racconto incontriamo una principessa en travesti in fuga dalla regale matrigna, come una sorta di Biancaneve che, però, sa difendersi da sola e non ha bisogno di protettori.

Due attenti studiosi dell’opera di Gorodischer come Michèle Soriano e Alexis Yannoupolos sostengono infine che, se l’Impero rimane simile a sé stesso e non si evolve in una società migliore, nonostante i continui rivolgimenti, il sollevarsi di popoli interi e il frequente avvento di sovrani riformatori, è perché l’autrice se ne serve come metafora di un patriarcato immutabile che tende a perpetuare all’infinito i rapporti di potere. E Kalpa Imperial, allora, oltre a raccontarci storie meravigliose ci sta dicendo che se l’ordine patriarcale non verrà messo profondamente in discussione, nessun cambiamento sarà davvero possibile, nessuna ingiustizia verrà davvero sanata.

 

 

Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul quotidiano Il manifesto nel novembre del 2022