lunedì 27 ottobre 2014

Anniversari e addii: Ramiro Pinilla, o della perseveranza



Ramiro Pinilla

 
 
 

Ramiro Pinilla, o della perseveranza 

Il nome di Ramiro Pinilla, morto il 23 ottobre a novantuno anni, non è familiare ai lettori italiani, a meno che non abbiano letto nel lontano 1962 l’unico suo testo tradotto nel nostro paese, Formiche cieche. E tuttavia vale la pena di ricordare la sua esistenza e la sua opera anche a quanti non lo hanno mai sentito nominare, perché Pinilla non è stato solo l’autore di romanzi memorabili, paragonato in patria a Faulkner e a García Márquez, ma anche un uomo dalla storia insolita, capace di compiere scelte tenacemente diverse da quelle della compagnia di giro che oggi vediamo promuovere fino allo sfinimento i propri prodotti, rimbalzando da una Fiera del libro a Twitter, da un festival a un reading.

Pinilla, basco di famiglia spagnola immigrata a Bilbao (quindi un maketo, secondo la definizione spregiativa usata dai baschi “puri”), era un autodidatta, prima macchinista sulle navi mercantili, poi impiegato nell’azienda comunale del gas, quindi confezionatore di testi per una casa editrice specializzata in figurine e autore di biografie scritte su commissione, ma anche scrittore clandestino che riempiva fogli su fogli con una vecchia stilografica, approfittando dei momenti rubati alla famiglia e alle fatiche delle sopravvivenza. Solo nel 1960 questo lavoro silenzioso ha dato i suoi frutti, con l’assegnazione del premio Nadal al suo romanzo Las ciegas hormigas, subito pubblicato dalla Editorial Destino e accolto con grande favore dalla critica: un libro duro, denso, dalla scrittura trasparente e netta, in cui lo scrittore ha gettato le basi di un cosmo paesano allo stesso tempo reale e fittizio, quello di Getxo, la cittadina sulle coste del golfo di Biscaglia dove ha trascorso quasi tutta la vita e ambientato l’intera sua opera.

Il rapporto con un’industria editoriale pronta a mangiarsi in un boccone un outsider provinciale e dignitosamente ingenuo, però, è stato particolarmente infelice: orgoglioso quanto incapace di adattarsi alle ragioni del marketing e alle leggi moderatamente feroci del mundillo letterario, Pinilla ha optato quasi subito per una volontaria esclusione (“pubblicare sì, ma non a qualsiasi costo e tradendo se stesso”, racconterà molti anni dopo), ritirandosi in una piccola casa circondata da un grande orto, chiamata Walden in omaggio al suo libro prediletto, Walden ovvero vita nei boschi di Thoreau. Là, rimasto solo con tre bambini, li ha cresciuti “come una madre” e con immensa gioia, inventandosi un giornale locale poi distrutto dalle bombe incendiarie dell’ETA, allevando polli e vendendo uova, e infine creando una sorta di laboratorio, El taller: non una scuola di scrittura, ma un semplice luogo di condivisione e di ascolto. A Walden, inoltre, Pinilla ha continuato a vivere la sua “altra vita”, scrivendo e autopubblicandosi attraverso Libropueblo, micro casa editrice fondata con un amico e fallita dopo qualche anno, che vendeva a prezzo di costo libri distribuiti solo nella provincia di Bilbao (molto spesso erano gli editori stessi a venderli nei mercatini), comperati da pochi e letti da pochissimi.

Più solitario che mai, senza avere un editore né una prospettiva di pubblicazione, Pinilla ha impiegato vent’anni per completare quello che Ricardo Senabre ha definito “l’impresa narrativa più considerevole sorta tra noi negli ultimi decenni… Un romanzo fondamentale”, e cioè Verdes valles, collinas rojas, una trilogia di duemilacinquecento pagine abitata da oltre cinquanta personaggi, che, intrecciando le vicende di due famiglie di Getxo dalla fine del diciannovesimo secolo sino all’epoca della guerra civile, disegna la storia dell’intero paese basco e delle sue contraddizioni. Tre romanzi il cui solido realismo si fonda sulla vocazione libertaria e sull’interesse per le questioni sociali dell’autore, sulla sua visione critica del nazionalismo, sul suo culto per la memoria, componendo un mosaico complicato eppure leggibile, fatto di migliaia di piccoli pezzi, ognuno dei quali è un piccolo romanzo a sé.

Proposta dallo scrittore basco Fernando Aramburu all’editore Tusquets (il cui editor Juan Cerezo ha saputo stabilire un rapporto rispettoso e cordiale con Pinilla), la trilogia è stata pubblicata dieci anni fa, quando l’autore aveva superato gli ottanta, ed è immediatamente diventata un caso letterario, vincendo il Premio Nacional de Narrativa e raggiungendo migliaia di lettori, mentre critica e pubblico scoprivano l’esistenza di uno scrittore straordinario cui si doveva uno dei migliori romanzi spagnoli del nuovo secolo. Da allora, tutta l’opera di Pinilla viene ripubblicata da Tusquets, insieme a titoli nuovi e spesso notevoli, come La higuera, che ha preceduto i più recenti divertissement polizieschi (una trilogia il cui protagonista è un eccentrico libraio detective) ispirati da una intensa frequentazione del cinema e della letteratura gialla. All’ultimo romanzo, quello per il quale stava ancora cercando il finale giusto, lo scrittore ha continuato a pensare anche durante il suo ricovero in ospedale: perché Pinilla non ha mai smesso di scrivere, fino all’ ultimo giorno, e chissà che per i lettori italiani non sia arrivato il momento di conoscerlo e, finalmente, di leggerlo.

 


Una versione ridotta di questo articolo è uscita su Il manifesto nell’ottobre 2014

lunedì 6 ottobre 2014

Da leggere: Roberto Arlt


Roberto Arlt




La luna rossa di Roberto Arlt

Nel 1991 il supplemento letterario del quotidiano Pagina/12 pubblicò un testo di Ricardo Piglia intitolato Arlt: un cadaver sobre la ciudad (oggi lo si può leggere nella raccolta Formas breves, edita nel 2000 da Anagrama), in cui si raccontava del funerale di Robert Arlt: dopo la veglia funebre la bara, troppo grande per passare dalla porta, venne calata dalla finestra della casa e rimase sospesa sul panorama di Buenos Aires, città dove lo scrittore era nato a metà del 1900. Una storia davvero suggestiva, ma probabilmente falsa – lo sottolinea Sylvia Saitta, autrice di El escritor en el bosque de ladrillos. Una biografía de Roberto Arlt –, nonostante Piglia affermi che a svelargliela erano state certe foto viste insieme a Juan Carlos Martini, come lui animatore, negli anni ’80, di una fugace rivista letteraria chiamata El traje del fantasma (titolo, guarda caso, tratto da un racconto arltiano). Pare che la veglia, in realtà, si fosse tenuta a pianterreno del Circolo della Stampa, per non parlare del fatto che l’episodio ricorda in modo sospetto quello, analogo e autentico, accaduto nel 1964 a Montevideo, quando l’enorme feretro di Felisberto Hernández – altro indomabile scrittore eccentrico – planò lentamente in strada grazie a corde e carrucole.

Quell’estremo e forse mai avvenuto librarsi sopra Buenos Aires, però, ha consentito a Piglia di commentare che la bara sospesa nell’aria “è una buona immagine del posto di Arlt nella letteratura argentina. È morto a quarantadue anni e sarà sempre giovane e continueremo sempre a far uscire il suo cadavere dalla finestra. Il rischio più grande che corre oggi la sua opera è quello della canonizzazione. Finora il suo stile lo ha salvato dal finire in un museo: è difficile neutralizzare una scrittura che si oppone frontalmente alla norma di ipercorrettezza che definisce lo stile medio della nostra letteratura”. E in effetti nessuno è più estraneo di lui a quel peccato mortale che Piglia chiama con lapidaria efficacia “stile medio”, tanto che la irruzione perturbante e innovatrice di Arlt nella letteratura argentina, alla cui tradizione fu in fondo estraneo, può essere paragonata solo a quella di Manuel Puig, autore da lui diversissimo, ma con il quale condivide la capacità di essere vistosamente in anticipo sul proprio tempo.

Non sono mancate, per fortuna, le versioni italiane dell’opera di Roberto Arlt, anche se Il giocattolo rabbioso (1926), I lanciafiamme (1929) e I sette pazzi (1931) sono arrivati da noi solo negli anni ’70, e se abbiamo dovuto aspettare il 2013 per leggere L’amore stregone (1932), l’ultimo dei suoi quattro romanzi; la stessa sia pur discontinua attenzione non è toccata ai cinque volumi di racconti usciti fra il 1933 e il 1940 (in passato, solo due brevi raccolte ce ne hanno proposto una scelta), e nemmeno alle celebri Aguafuertes Porteñas dedicate a Buenos Aires e ai suoi abitanti: migliaia di testi brevi apparsi ogni giorno sul quotidiano El Mundo a partire dal 1928, che assicurarono al loro autore una considerevole popolarità.

Oggi la lacuna viene in parte colmata dalla prima traduzione italiana delle Acqueforti di Buenos Aires, a cura di Marino Magliani e Alberto Prunetti (Del Vecchio editore, pag. 304, e. 15), che ne hanno selezionato, tradotto e annotato una settantina, e da Scrittore fallito (Edizioni Sur, pag. 231, e. 15), un’antologia di racconti scelti e tradotti da Raul Schenardi, che ha privilegiato gli inediti e ha attinto in modo particolare alla raccolta “africana” El criador de gorila (quindici racconti esotici, fantastici e avventurosi pubblicati per la prima volta nel 1941), superando brillantemente i non pochi ostacoli posti dal lessico e dalla sintassi di Arlt. E appare ovvio, per chi già conosca l’autore, che i due libri vadano letti in parallelo, perché temi, personaggi, ossessioni, ambienti, visioni, incubi, suggestioni e polemiche rimbalzano continuamente da un testo all’altro, tendendo fili evidenti tra l’autore di racconti e la “firma” di El Mundo (lo stesso Arlt, del resto, in una Aguafuerte del 1929 dedicata alla professione che gli dava da vivere e che gli permise di viaggiare come inviato in Cile, Brasile, Uruguay, Africa e Spagna, dichiara: “Per essere un bravo giornalista bisogna essere un bravo scrittore”).

Va detto che per molto tempo le Acqueforti, raccolte in volume già nel 1933, sono state considerate una produzione minore e non strettamente letteraria, materiale deperibile nato per essere rapidamente consumato da operai, impiegati e casalinghe che prediligevano il formato tabloid, le prime pagine vistose e il taglio semplice di El Mundo, giornale creato alla fine degli anni ’20 in una nazione che ancora beneficiava di una crescita economica straordinaria e dell’ingresso nella vita politica di una classe media e di un proletariato nati da un gigantesco melting pot, del quale anche Arlt era figlio (suo padre era prussiano, sua madre triestina). A questo pubblico abbastanza alfabetizzato da poter accedere alla vasta offerta di una industria editoriale in piena espansione, Arlt si rivolgeva direttamente e in prima persona, stabilendo con esso un dialogo costante e senza nascondersi dietro una oggettività per lui impossibile. Ruvido, sarcastico, curioso, trasformava i suoi lunghi vagabondaggi per Buenos Aires in istantanee del paesaggio urbano, in ritratti ironici dei difetti cittadini, in visioni del futuro, in minimi ma succosi excursus filologici sulle radici del lunfardo – derivato in buona parte dai dialetti italiani –, in rapide incursioni nel mondo dell’arte e delle lettere, in una satira aggressiva dell’ipocrisia e del culto collettivo per l’apparenza, e soprattutto nella denuncia della corruzione politica e dei problemi di una metropoli in turbolento sviluppo, conferendo alle Acqueforti una dimensione politica più o meno esplicita, ma sempre presente, anche se Arlt è incline più a un furore individuale che all’adesione a una qualsiasi ideologia (la sua vicinanza ai letterati marxisti del Gruppo di Boedo fu, in effetti, intermittente e occasionale).

Anche travasata nel “mezzo” giornalistico, la sua scrittura rimaneva profondamente narrativa, legata a un discorso letterario del tutto peculiare, in cui avevano fatto irruzione la lingua parlata e il gergo dei bassifondi. Una lingua spezzata e originale, inquieta e ribollente, estranea alla raffinatezza europeizzante dei circoli letterari argentini, così come erano loro estranei i materiali cui Arlt si rifaceva: il romanzo e il teatro popolari, il melodramma, la cronaca nera, il cinema, la stampa “a sensazione”, le enciclopedie a dispense, l’esotismo dei resoconti di viaggio. Da questo magma affiorano costanti che vanno oltre lo sguardo attento di un antropologo urbano, oltre l’indignazione delle risentite Acqueforti, e rimandano al narratore e all’autore di teatro, sottolineando come tutta la sua opera sia un provocatorio continuum di temi, linguaggi, scelte stilistiche (per esempio quella della frammentazione, che spezza i capitoli dei romanzi in sequenze brevi e provviste di titolo, quasi delle Aguafuertes incatenate), argomenti e personaggi.

La lettura di Scrittore fallito evidenzia in modo particolare la contiguità tra l’Arlt giornalista e l’Arlt scrittore, a cominciare dal racconto che dà il nome alla raccolta (una sfrenata parodia dei letterati che “scrivono bene”, si inventano avanguardie senza peso né sostanza e sono letti solo da rispettabili parenti) e che potrebbe corrispondere idealmente all’Acquaforte L’inutilità dei libri, in cui la figura dello scrittore tradizionale, così come la tradizionale e stereotipata immagine della letteratura che distribuisce risposte e verità, vengono attaccate e demolite. Ed ecco tornare, nel racconto Eugenio Delmonte e i 1300 fidanzati, il rabbioso ritratto delle donne (e delle loro terribili madri) che vedono nel matrimonio una “sistemazione”: nelle Acqueforti se ne incontrano a dozzine, rappresentate con lo stesso rancore che ha guadagnato ad Arlt la fama di misogino, forse non del tutto meritata, perché alle popolane che lavorano duramente, oppresse da uomini fannulloni o violenti, viene riservata un’intensa compassione, quasi che attraverso la figura della accalappiatrice lo scrittore volesse criticare non tanto le donne, tutte le donne, quanto la loro condanna sociale a trovare nel matrimonio un’identità e una risorsa economica.

Ma ad accomunare racconti e Acqueforti è soprattutto la visione della città: una Buenos Aires dove tutto cambia da un giorno all’altro, fatta di sterminate periferie abitate da un vero e proprio “popolo degli abissi” che ha come unico codice di comportamento quello della lotta per la sopravvivenza, e pratica una devianza che agli occhi dello scrittore appare, a volte, come l’unica forma di ribellione possibile e dotata di senso. E a un tratto, nell’Acquaforte Gru abbandonate nell’isola di Maciel rivediamo le sagome da paesaggio cubista e le atmosfere sinistre del magnifico racconto La luna rossa, in cui una muta folla di uomini e animali si incammina in silenzio per le strade di una città deserta, per assistere al sorgere di un disco sanguigno che annuncia la guerra e gridare il proprio rifiuto. La città, intesa come corpo vivo e mostruoso, oscuro e divorante, trascolora dal reale al fantastico, diventa metafora di una modernità minacciosa che toglie ogni significato alla parola “progresso”, così fiduciosamente borghese, e sorge dalle pagine delle Acqueforti e dei racconti insieme “alla luna rossa bloccata dai grattacieli vermigli”, mentre la folla capisce che “questa volta l’incendio era divampato in tutto il pianeta, e che non si sarebbe salvato nessuno”. Un paranoico presagio di catastrofe che è il cuore della poetica di Arlt, e che ce lo rende più che mai contemporaneo.

 

 Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto nell’ottobre del 2014