lunedì 13 marzo 2023

Da leggere: Amparo Davila


Amparo Davila


 


Il corpo oscuro delle storie 

Una donna misteriosa, di cui si sa soltanto quel pochissimo che diceva di sé: un’infanzia borghese ricca di fantasie e di letture, trascorsa in uno spettrale paesetto; il matrimonio fallito con un famoso pittore; il lavoro come segretaria di un intellettuale celebre, Alfonso Reyes; gli anni dedicati alla maternità e a impieghi di scarso lustro… Una vita lunghissima e appartata, quella di Amparo Davila (nata a Pinos nel 1928 e scomparsa nel 2020), connotata dal silenzio e dall’esercizio di una scrittura che la rende quasi unica nel panorama letterario del suo paese, anche se qualcosa la accomuna ad altre scrittrici messicane nate nella prima metà del ventesimo secolo: pur differentissime tra loro, non sono poche quelle che, come Davila, ci hanno lasciato un’opera di grande valore, ma sono uscite in fretta dall’orizzonte editoriale.

A riscattarle e a dar loro un’ampia visibilità è stata una nuova e approfondita rilettura critica, che oltre a indicarle all’attenzione del pubblico contemporaneo le ha rese un punto di riferimento per altre e più recenti scritture: nel caso di Davila, per esempio, il fascino che esercita sulle autrici messicane di oggi si manifesta attraverso reinvenzioni (Veronica Gerber ha rielaborato uno dei suoi racconti più famosi) o presenze fantasmatiche (Isabella Blum l’ha inserita come personaggio in un suo romanzo, e lo stesso ha fatto Cristina Rivera Garza), che recuperano e citano temi e figure caratteristici dei suoi testi.

A partire del 2009, quando il Fondo de Cultura Economica ha raccolto tutta la sua narrativa in Cuentos reunidos, i racconti di Davila hanno avuto più edizioni e sono stati tradotti in molti paesi, compresa l’Italia, dove Safarà pubblica a giorni Morte nel bosco (pp. 271, e. 19,50), tradotto come il precedente L’ospite (2020) da Giulia Zavagna, che ha affrontato brillantemente il compito di restituire in italiano, senza tradirlo né banalizzarlo, uno stile fondato su atmosfere e immagini singolari.

I trentasette racconti dei due volumi costituiscono l’intera opera in prosa di Davila (autrice anche di alcune raccolte di poesie), scritta nell’arco di cinquant’anni: pochi titoli che però sono bastati per creare attorno all’autrice un alone di leggenda e per metterla al centro di analisi numerose quanto discordanti. C’è chi la paragona sbrigativamente a Shirley Jackson, chi la collega a Borges e a Kafka, e quasi tutti segnalano la sua appartenenza al territorio del fantastico o del «gotico femminile», né manca chi parla di un’evidente parentela col surrealismo, mentre si fa avanti un’interpretazione che lega le sue protagoniste – siano mogli stanche o donne solitarie, prigioniere di matrimoni soffocanti e amori da poco – alla sotterranea rivolta contro ruoli e norme che pretendono di modellarne i corpi e le esistenze.

Davila, però, sembra sfuggire a ogni tentativo di trafiggere con uno spillo il corpo oscuro delle sue storie, quasi fossero insetti inquietanti o mostruosi; un dettaglio, una svolta spiazzante finiscono sempre per sottrarla a classificazioni ed etichette, vanificando la collocazione in un genere preciso. Quel che il lettore non potrà fare a meno di notare è l’estrema coerenza dell’autrice, che ricorre invariabilmente ad ambientazioni modeste e riconoscibili (interni domestici, uffici, giardini ben recitati) e disegna una normalità fatta di eventi minimi per poi insinuarvi un elemento inspiegabile e destabilizzante, così da introdurre a poco a poco il disagio, la paura, lo scivolamento verso la follia o la morte.

Estranei inafferrabili invadono tranquille abitazioni piccolo borghesi, si impadroniscono delle stanze, lanciano richiami dagli specchi, impediscono il sonno, affiorano negli sguardi di una ragazza timida rivelandone la nascosta ferocia, o costringono una madre di famiglia a scoprire che il suo austero marito si è trasformato in un nuovo, piagnucoloso figlio bambino. Ma il terrore, l’urlo finale, l’annichilimento, non sono necessariamente di origine paranormale e ultraterrene: grazie all’abile reticenza dell’autrice, non sappiamo mai se i personaggi non stiano in realtà affrontando le proprie ombre interiori, o il senso di minaccia generato da un mondo sul quale non hanno controllo e dove tutto viene tramato e deciso da poteri sconosciuti, in un imprecisato “altrove”.

Forse la narrazione di Davila è, in fondo, uno specchio paranoico che non si stanca di riflettere un orrore del quale sospettiamo l’esistenza, ma che riusciamo a intravedere solo con la coda dell’occhio. E non c’è dubbio che pochi autori riescano, come lei, a evocare un terrore che lo scrittore e critico messicano Severino Salazar ha definito postmoderno, in un’epoca in cui “ogni solida certezza è svanita nell’aria, e la violenza interna ed esterna va libera per le strade delle città e dei paesi”.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano il manifesto nel febbraio del 2023

Da leggere: Alejandra Pizarnik

 


Alejandra Pizarnik




Viaggiare su un foglio bianco 

L’argentina Alejandra Pizarnik, suicida a trentasei anni nel 1972, è una figura di primo piano nella letteratura di lingua spagnola del Novecento, e non solo grazie alle sei mirabili raccolte di versi, apparse tra il 1955 e il 1971, e a una singolare novella (La contessa sanguinaria), travestita da recensione di un romanzo altrui. Alla sua notorietà ha contribuito, infatti, anche la leggenda oscura, fatta di sofferenza, trasgressione, fragilità, malattia mentale e attrazione per la morte, che ancora la circonda e che ha lungamente orientato la lettura dell’opera, finché, a partire dagli anni ottanta, la pubblicazione di nuovi materiali (prose, corrispondenza, diari) ce l’ha mostrata come un mutevole universo in espansione, tanto che la più attendibile biografa di Pizarnik, Cristina Piña, ha affermato: “Ogni generazione va incontro a una Alejandra diversa”.

A reperire gran parte degli inediti sono state Olga Orozco e Ana Becciu, che subito dopo la morte dell’autrice hanno catalogato una mole considerevole di poesie, audaci prose dal tono umoristico e osceno, manoscritti affollati di eleganti scarabocchi, taccuini trasformati in objets d’art da collages e disegni, e infine i venti quaderni dei diari, migliaia di pagine scritte nell’arco di diciotto anni, tra il 1954 e il 1972, che dopo aver viaggiato tra due continenti, passando per mani diverse, sono approdate alla biblioteca della Princeton University.

A renderle pubbliche ha provveduto l’Editorial Lumen, in due versioni: quella del 2003, che ha suscitato numerose critiche per i tagli e le censure (relativi soprattutto ad aspri conflitti familiari e alla sessualità dell’autrice) operati su richiesta della famiglia, e quella “definitiva” del 2013, più che raddoppiata ma non ancora completa, perché la curatrice dichiara di aver rispettato “l’intimità̀ dell’autrice e della sua famiglia, e di alcune persone menzionate”. Una scelta che induce una volta di più alla discussione sul labile confine tra pubblico e privato, e contraddice l’opinione del grande teorico della diaristica, Maurice Blanchot, per il quale tutto ciò che è stato scritto va pubblicato. Tra quella che Becciu definisce “curiosità morbosa” e la richiesta di “sapere tutto” avanzata da lettori e studiosi, si inserisce però la decisione della stessa Pizarnik, che rese pubblica una minima parte dei quaderni (una scelta di brani relativi ai quattro anni più felici della sua vita, trascorsi a Parigi), ma solo dopo averli riscritti, trasformando in maschili i suoi amori femminili e cancellando gli spunti più intimi, per imboccare la strada del diario "da scrittore".

È alla seconda e più ampia edizione che si è attenuta La noce d’oro, piccola casa editrice nata di recente, che ha suddiviso le 1104 pagine dell’originale in due volumi e manda ora in libreria il primo, Il ponte sognato. Diari 1954-1960 (traduzione di Roberta Truscia, pp. 432, e. 20,90), con la postfazione di Ana Becciu, unica curatrice dell’opera postuma. Grazie all’audacia di un editore esordiente, arriva così ai lettori italiani un testo che, come suggerisce l’ispanista Federica Rocco, si pone come centrale e in un certo senso contiene tutti gli altri.

I diari, quanto e più della corrispondenza selezionata da Bordelois e Piña (Lumen, 2017), non hanno mancato di generare interpretazioni e domande, proiettando nuova luce su un progetto che non si esaurisce nel percorso poetico, inaugurato nel 1955 con La tierra mas ajena, sulla cui copertina l’autrice porta i nomi di Flora Alejandra: il primo ricevuto alla nascita, il secondo scelto da lei e primo segnale di un significativo sdoppiamento. Sin dalle prime pagine affiora una questione che attraversa tutta la scrittura di Pizarnik, ovvero la sensazione di non essere davvero padrona della lingua in cui si esprime: in casa dei Požarnik – immigrati a Buenos Aires nel 1933 da Rivne (ora in Ucraina), e divenuti Pizarnik per un errore di trascrizione – si parlava in russo e in yiddish, e Alejandra aveva appreso a scuola uno spagnolo povero e convenzionale.

È anche l’ossessione per la parola giusta, quindi, che la porta a tessere nei diari una vasta rete intertestuale, in un dialogo con gli autori letti, citati e commentati (tra i tanti, Proust, Kafka, Vallejo, Nerval, Rimbaud, Lautréamont, Artaud, Novalis e i romantici tedeschi) che appare funzionale all’apprendistato letterario e accompagna la sperimentazione delle forme di scrittura che Pizarnik sente più vicine, come testimoniano i numerosi cambiamenti di registro e di genere, con passaggi improvvisi (a volte in un medesimo brano) dalla narratività alla poesia, o dal dialogo al flusso di coscienza.

Forte di una lunga consuetudine con la psicoanalisi, Alejandra compone il più introspettivo dei diari, è assorta in un’esplorazione di sé che non concede spazio al mondo esterno, e non si lascia sfiorare né dai luoghi in cui vive (mai descritti, mai raccontati), né dalle turbolenze politiche e sociali. Questo continuo scrutarsi, però, più che il frutto di un narcisismo adolescenziale sembra mosso ancora una volta dall’intenzione letteraria, perché il diario mira palesemente a fondare una figura autoriale, ad affermarne la singolarità e, secondo Piña, a cercare legittimazione in “un lignaggio di maledettismo e rivolta, fondato sul dolore”.
L’autrice procede così alla costruzione del personaggio che vuole diventare, per sé e per il mondo, e lo fa tramite differenti performances, presentandosi di volta in volta come figlia incompresa, bambina malata di abbandono, creatura androgina e promiscua, intellettuale che non esita a pronunciarsi, nevrotica che si nutre di psicofarmaci ed evoca il suicidio, artista che insegue la perfezione. Identità multiple che a volte adottano la prima persona, a volte si rivolgono col “tu” a un’altra Alejandra, oppure la raccontano come fosse un’estranea, sdoppiandosi all’infinito per contemplarsi dall’esterno.
In primo luogo, però, Pizarnik è colei che afferma: “Possibilità di vivere? Sì, ce n’è una. È un foglio bianco, è lasciarmi cadere sul foglio, è uscire da me stessa e viaggiare su un foglio bianco”. Farsi scrittura, confondersi con essa: il testo diventa metafora ed espressione del corpo, tema fondante dei diari come della poesia, insieme all’infanzia, alla morte, alla solitudine, alla notte, all’amore insoddisfatto, all’ansia di essere riconosciuta e accettata. Una comunanza di temi che non è assoluta: nei versi manca il valore quasi mistico che nei diari è attribuito al sesso, e non c’è traccia del tenace desiderio di scrivere un romanzo, espresso più e più volte nel corso degli anni. Chi affronti il diario, tuttavia, non può non rendersi conto che la grande opera in prosa a lungo e inutilmente progettata è in realtà questa, e che Pizarnik, forse consapevolmente e forse no, quaderno dopo quaderno ha scritto “la novela de si misma”, il romanzo di se stessa.
 
 
Questo articolo è apparso sul quotidiano il manifesto nel febbraio del 2023