sabato 15 aprile 2023

Da leggere: Armonia Somers

 


Armonia Somers




Una misteriosa Armonia 

Strano, bizzarro, insolito, singolare: così, o con altri sinonimi capaci di esprimere differenza e alterità, si potrebbe tradurre l’aggettivo spagnolo raro. In letteratura, però, il termine si è trasformato in sostantivo a partire da Los raros, testo del 1886 in cui Rubén Darío ritrae poeti e scrittori inclassificabili e «diversi», creando una categoria che alla luce del presente va senz’altro ripensata. Buona parte dei nomi indicati da Darío, infatti, col tempo si sono trasformati in altrettanti classici, e lo stesso si può dire di alcuni degli autori novecenteschi individuati a metà del secolo scorso da un celebre critico ed editore uruguayano, Ángel Rama.

Nel prologare Aquí. Cien años de raros, fondamentale antologia da lui compilata nel 1966 per la Editorial Arca, Rama sottolineava come la letteratura del suo paese, aderente alle convenzioni del realismo, fosse attraversata da una segreta linea «immaginativa», la cui prima radice sarebbe da rintracciare nell’influente presenza del franco-uruguayano Isidore Ducasse, meglio noto come Conte di Lautréamont. Animati da «legittima diffidenza» verso la tradizione, scrittori quali Juan Carlos Onetti o Felisberto Hernández avevano imboccato la strada di un’audace complessità fondata su «ingredienti insoliti», diventando estranei a un canone che lentamente li ha riassorbiti, anche se non tutti e non del tutto, perché se Onetti è da tempo insediato nel «centro», altri si trovano ancora in una sorta di limbo marginale, non più ostracizzati, ma confinati nell’appartato territorio dei cosiddetti «segreti meglio custoditi».

Tra loro, fino a qualche anno fa, c’era anche Armonia Somers, il cui primo romanzo venne accolto nel 1950 da innumerevoli polemiche a causa dell’allegorica ma esplicita messa in scena del desiderio femminile, e per la presenza, inoltre, di uno pseudonimo che suscitò infinite ipotesi, nessuna delle quali contemplava la possibilità che La mujer desnuda, un testo «ermetico, osceno, macabro, feroce», fosse opera di una donna. Solo molti anni dopo, quando Somers aveva ormai pubblicato romanzi e racconti ancora più «oltraggiosi» per forma e contenuto, l’identità dell’autrice fu svelata: il suo vero nome era Armonia Etchepare Locino, nata nel 1914 a Pando in una famiglia povera ma non incolta (il padre era un sarto anarchico, la madre aveva aspirazioni letterarie), e trapiantata da adolescente a Montevideo.

Dapprima semplice maestra rurale, Armonia era diventata una pedagogista assai nota, autrice di importanti saggi sulla devianza giovanile: una figura istituzionale e rassicurante, dunque, provvista però di un inquietante «doppio» letterario; solo grazie all’ energica rivalutazione compiuta da Rama cominciò a essere apprezzata e a diventare oggetto di analisi entusiaste ma discordanti, che l’hanno di volta in volta collegata al surrealismo, all’espressionismo, al gotico, al femminismo più radicale, al perturbante freudiano o alle correnti postmoderne. Frustrato ogni azzardo tassonomico, la critica sembra d’accordo nell’attribuirle almeno un’etichetta, quella di «inclassificabile» dalla scrittura onirica e crudele, che non arretra davanti all’eccesso, sa stabilire analogie insolite, sovverte tempo e spazio, utilizza tecniche narrative che vanno dal flusso di coscienza al frammento, azzarda spericolate costruzioni sintattiche, elabora un linguaggio brillante e denso di metafore, allegorie, simboli, riflessioni filosofiche, centrando pienamente, secondo Elio Gandolfo, l’obiettivo di «raccontare una storia come non era mai stata raccontata in precedenza».

Quasi leggendaria ma ancora sfuggente e misteriosa, a settantatré anni dal suo esordio e a quasi venti dalla morte, Somers arriva ora ai lettori italiani per la prima volta con La donna nuda (pp. 140, e. 14), grazie alla nuovissima casa editrice Ventanas, fondata da Laura Putti, che si è intrepidamente misurata con la non facile traduzione di un testo rimaneggiato nel 1967, quando l’autrice volle rivedere in profondità un romanzo germinale, annuncio delle sue opere future (culminanti nello sfolgorante Sólo los elefantes encuentran mandrágoras, spesso paragonato al Paradiso di José Lezama Lima), in dialogo involontario ma percettibile con la pittura di Leonora Carrington e Remedios Varo, amabili streghe surrealiste, e soprattutto con scritture femminili differenti dalla sua ma altrettanto anticipatrici e disposte a osare, come quelle di Silvina Ocampo, Maria Luisa Bombal, Marosa di Giorgio o Clarice Lispector.

L’ avventura di Rebeca Linke, che nel giorno del suo trentesimo compleanno raggiunge una casa di campagna dove decapita se stessa con uno stiletto, per poi rimettersi la testa sul collo «con un colpo deciso, come un casco da combattimento» e inoltrarsi in un bosco simile a un cetaceo spiaggiato, è affidata a un narratore reticente che non offre spiegazioni e adotta il punto di vista dei personaggi, si tratti della protagonista o degli abitanti di un paesetto placidamente patriarcale, sconvolti dalla sua apparizione. Dopo il gesto cruento che ne segna la rinascita, Rebeca indossa nomi nuovi (Eva, Giuditta, Semiramide, Maddalena, Friné, Gradiva…) e, noncurante del violento desiderio collettivo scatenato dalla sua nudità, intraprende un percorso utopico e brevissimo sotto il segno dell’erotismo e dell’innocenza primigenia, alla ricerca di una libertà destinata a soccombere tra fuoco e acqua, mentre il fiume la sottrae alla furia maschile. Un fallimento, il suo, che testimonia comunque la necessità di spezzare la disciplina imposta dall’ordine borghese, dalla religione, dal contratto sociale e sessuale che assegna all’uomo la proprietà e l’uso del corpo femminile.

Costruita con immagini fulminee ed effetti quasi pittorici, prodiga di rimandi intertestuali (tra i tanti, la Genesi, il mito, gli echi di Poe, Lautreamont e César Vallejo, fino al Frankenstein di Mary Shelley), la trama prescinde da un approccio lineare e letterale, nascondendo i propri segreti, indica l’autrice in una delle sue rare interviste, «come i piccoli e pericolosi ragni che vivono dietro i quadri», pronti a saltare e a inoculare perplessità, dubbio, straniamento, ma anche un sorprendente piacere estetico.

Se esiste il mestiere di scrivere, dice Somers, esiste anche quello di leggere, e conclude: «Credo di aver pensato che i lettori dovrebbero, per una volta, ascendere verso l’autore, anche a costo di una qualche sofferenza. Forse ho ammannito una pietanza troppo complicata, che non sono riusciti a digerire. Ma non me ne pento, non mi dispiace. La digerisca chi può». E chi non può, si potrebbe aggiungere, si lasci tranquillamente divorare da un testo di solida e magnifica eccentricità, e accetti di perdersi, di correre dei rischi, di inoltrarsi in un labirinto di possibilità interpretative.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano il manifesto nell’aprile del 2023

mercoledì 5 aprile 2023

Anniversari e addii: María Kodama

 


María Kodama




Al servizio del Genio (e viceversa)


«Io ero al servizio del talento letterario di un uomo, l’ho servito con obbedienza, ho servito una mente maschile, dunque per molti maschi sono la ragazza dei sogni, sono anche la loro potenziale vedova. Sono stata la segretaria di Levin, la sua archivista, moglie, redattrice, agente… Non mi sono risposata, ho continuato a servirlo dopo la sua morte e lo servirò fino alla mia morte. Lui, inoltre, mi ha lasciato un capitale simbolico, che io con una gestione attenta, ho accresciuto». Così, nello splendido ultimo libro di Dubravka Ugresic pubblicato da La nave di Teseo (La volpe, 2022), parla la protagonista di L’arte dell’equilibrio, incrocio tra racconto, cronaca e saggio sull’incontro dell’autrice con la Vedova di un anziano scrittore.

Parole simili potrebbe averle dette qualsiasi Vedova illustre – la maiuscola è d’obbligo –, dall’immaginaria Mrs.Driffield di Lo scheletro nell’armadio di Somerset Maugham, fino a quelle realmente esistite ed esistenti, eredi non solo dei diritti, ma del ruolo di curatrici postume: vestali, dunque, e a volte martiri volontarie, ma anche menadi, «creature temibili, onnipresenti e disposte a fare a pezzi chiunque osi toccare il legato del defunto», secondo la definizione di Marcos Eymar (e qui va notato che ai Vedovi, compresi i più discutibili, viene di solito riservata minore e più indulgente attenzione).

Anche María Kodama, scomparsa il 26 marzo a ottantasei anni nella sua casa di Buenos Aires, ha pronunciato frasi del genere nelle innumerevoli interviste e apparizioni pubbliche che la vedevano volare da un continente all’altro per parlare di Jorge Luis Borges, incontrato sulla soglia di una libreria (così dice la leggenda), quando lei aveva sedici anni e lui cinquantaquattro, e da allora mai più abbandonato, fino alla morte avvenuta nel 1986 a Ginevra, dove lo scrittore è sepolto sotto una scritta in inglese antico corredata da immagini guerriere, in stridente contrasto con la spoglia lapide della sua “vicina” Griselidis Real, su cui si legge:«Ecrivaine, peintre, prostituée».

Borges l’aveva sposata in Paraguay cinquanta giorni prima di morire (quando, tra l’altro, in Argentina il suo primo matrimonio con Elsa Astete era ancora valido), ma Kodama era da tempo la sua compagna e insieme avevano viaggiato per il mondo, raccogliendo gli omaggi dovuti a una fama straordinaria quanto tardiva, destinata inevitabilmente a riverberarsi su quella misteriosa ragazza dall’aria esotica, figlia di un chimico giapponese e di un’argentina di origine svizzero-tedesca, nonché la prima tra le molte donne amate dallo scrittore (perennemente enamoradizo, ma inorridito dal sesso e controllato da una madre tiranna) a non respingerlo e a offrirgli un amore in cui il corpo non aveva importanza né peso.

Non ci sono dubbi sulla passione quasi religiosa di Kodama per il Genio, e ancor più sulla sua inflessibilità di guardiana dell’opera, eppure la polemica ha sempre accompagnato, non troppo in sordina, una vedovanza aggressiva, prodiga di cause giudiziarie che sfociavano in sequestri di libri e richieste di risarcimento (quando reclamò parte del compenso dovuto al poeta Osvaldo Ferrari per il suo libro Diálogos con Borges, un tribunale francese deliberò a suo sfavore, affermando che «l’universo dei diritti di María Kodama ha i suoi limiti e non è in perpetua espansione») e accusata non solo di protagonismo sfrenato, ma anche di uno sfruttamento più che disinvolto dei testi borgesiani.

Convinta di essere la voce di Borges e la sua unica interprete autorizzata, negli anni la Vedova ha consegnato agli editori una sorprendente quantità di inediti, compresi quelli scartati e rinnegati dall’autore, o i rimasugli sepolti in fondo a un cassetto, e non ha esitato a intervenire in modo spregiudicato su testi esistenti, sopprimendo dediche o eliminando poesie scritte per antichi amori: è stata, insomma, una albacea ossessionata tanto dal controllo e dal possesso, quanto dalla propria visibilità. Non per niente le Nouvel Observateur arrivò a sostenere che la Vedova tenesse in ostaggio l’opera di Borges, e in molti hanno insinuato (o affermato con certezza, come fece Norah Borges de Torre, incantevole pittrice e sorella del defunto) che Kodama aveva allontanato dagli amici e dalla famiglia il vecchio scrittore, imponendogli un trasferimento in Europa quando era quasi moribondo e facendosi nominare erede universale, in contrasto con un testamento che inizialmente prevedeva lasciti anche per i familiari.

Pronta a lamentarsi per «l’invidia» suscitata dal suo ruolo, Kodama non esitava a insultare vigorosamente «i mostri», ossia coloro che, in passato, Borges aveva accolto tra i suoi affetti: la fidata governante Fanny era una ladra, María Esther Vázquez – a lungo e invano amata dallo scrittore – una bugiarda odiosa, e Adolfo Bioy Casares, legato a Borges da oltre cinquant’anni di amicizia, «un Salieri, un codardo, un rifiuto umano» (l’intervista al quotidiano La Nación che conteneva queste dichiarazioni suscitò l’indignazione e la disapprovazione pubblica degli scrittori argentini). Se per alcuni era una bruja, una strega, altri, come Vargas Llosa o Jean-Pierre Bernés – curatore dell’opera omnia di Borges per Gallimard, detestato da Kodama perché non voleva cederle le registrazioni dei colloqui con lo scrittore – ne hanno lodato la devozione e le cure.

Che sia amata o detestata, corteggiata o disprezzata, Kodama, divenuta negli anni una sorta di riconoscibile icona pop, resta una figura controversa, e molti sono gli interrogativi posti dalla sua morte, anche se a vegliare sull’opera di Borges c’è un agente duro e abile come Andrew Wylie. Non sappiamo quale sarà l’epitaffio di María, ma a scriverne uno ha involontariamente provveduto il critico spagnolo Jorge Carrión, in un articolo del 2016 per il New York Times: «È un errore pensare che la gestione delle eredità letterarie da parte delle vedove non sia letteratura», tanto che in un lontano futuro Kodama, «appropriazionista» quanto e più del suo glorioso marito, verrà forse ricordata dai critici come «un’artista punk, una stratega concettuale che si vendicò dell’eteropatriarcato, del canone maschile, della stupida fede della nostra epoca nell’autorialità».

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano il manifesto nel marzo del 2023