martedì 15 agosto 2017

Anniversari e addii: Juan Goytisolo

Juan Goytisolo e Monique Lange


Juan Goytisolo, lo scrittore errante

Juan Goytisolo voleva essere seppellito in Marocco, il paese dove aveva scelto di risiedere (e dove possedeva una casa nella Medina di Marrakech, vicinissima alla piazza Jâmiʻ al-fanâʼ, che aveva contribuito a far dichiarare Patrimonio dell’Umanità), e si raccomandava che non riportassero il suo corpo a Barcellona, la sua città natale, per rinchiuderlo nella tomba di famiglia, una pretenziosa riproduzione in miniatura del Duomo di Milano, che per lui era il simbolo di “tutto l’orrore della classe borghese e sfruttatrice” rifiutata e combattuta sin da ragazzo. Desiderava, inoltre, che la sua sepoltura fosse estranea ai simboli di qualsiasi fede religiosa, ed è per questo che uno tra i più grandi e singolari scrittori spagnoli contemporanei, morto il quattro giugno, riposa ora a Larache, nel vecchio cimitero laico dove nel 1986 venne sepolto Jean Genet, che per lui era stato un punto di riferimento “più morale che letterario”.

I due si erano conosciuti durante l’esilio francese di Goytisolo, nato nel 1931 ed espatriato nel ’56 per stabilirsi a Parigi – in Spagna le sue opere erano proibite, tanto che fino al 1975 vennero pubblicate da editori messicani –, e a farli incontrare era stata Monique Lange, che lavorava per l’editore Gallimard, del quale lo scrittore era autorevole consulente per l’area ispanica (“Juan Goytisolo è stato il primo scrittore spagnolo del suo tempo a interessarsi della letteratura latinoamericana, a leggere e promuovere i nuovi romanzieri, e a farli tradurre in francese. Fu, anche, uno dei primi a capire che la letteratura di lingua spagnola era una sola, e a sforzarsi di riunire di nuovo queste due comunità di scrittori delle due rive dell’oceano…” ha scritto di lui Mario Vargas Llosa). Amici fino alla fine, i due scrittori, e uniti fino alla fine anche Goytisolo e Monique, romanziera squisita e intellettuale di raro acume scomparsa nel 1996, che per trent’anni gli fu accanto e lo sposò nel 1978: un rapporto saldo quanto insolito, visto che negli anni ’60 Juan decise di dichiarare apertamente la propria omosessualità, in tempi in cui “la letteratura spagnola era muta dalla cintola in giù”, come ha sottolineato il critico letterario Manuel Alberca.

Per Goytisolo quel disvelamento così netto, quasi brutale, rappresentò un momento di rottura, accompagnato non solo da soggiorni in Nordafrica sempre più prolungati (si fermerà definitivamente a Marrakech solo dopo la morte di Monique), ma anche da una brusca svolta che ne rifondò l’opera, a partire dalla stesura del romanzo Señas de identidad, il suo “esame di coscienza”, pubblicato nel 1966.

Fino ad allora Goytisolo era collocabile nella corrente del “realismo sociale” spagnolo, come testimoniano i romanzi e i racconti scritti tra il ’54 e il ’62, e poi in qualche modo rinnegati (“politicamente inefficaci, le nostre opere erano, oltretutto, letterariamente mediocri; credendo di fare letteratura politica non facevamo né una cosa né l’altra”, scrisse nel saggio Literatura y eutanasia), anche se l’impegno politico e l’indignazione per l'ingiustizia non vennero mai meno, facendone un testimone prezioso delle guerre in Bosnia e in Cecenia, un avversario acerrimo del nazionalismo e del neoliberismo, un critico severo delle ortodossie religiose, dell’ipocrisia omofobica e di un mondo “intrappolato tra consumismo e terrore”.

È da Señas de identidad, in poi che tutto cambia e che Goytisolo rivendica non solo la “felicità fisica” di un’omosessualità che non gli impedisce di mantenere un’intensa relazione affettiva con Monique (alla quale dedicherà, dopo la precoce scomparsa, un piccolo libro struggente, intitolato Elle), ma anche una libertà letteraria proiettata verso la ricerca costante del nuovo – “senza idea di novità non c’è autentica opera” – e sciolta dai lacci della tradizione. La differenza tra il periodo del realismo e quello successivo è enorme, e la confermano mirabili provocazioni come Reivindicación del conde don Julián, Juan sin Tierra, Makbara, Paisajes después de la batalla, La saga de los Marx, Telón de boca, El exiliado de aquí y de allá, in cui si consolida via via una perpetua sperimentazione, mentre saltano i confini tra poesia e prosa e si afferma un intreccio di tempi e spazi differenti, di richiami all’oralità (molti dei suoi romanzi, diceva Goytisolo, erano fatti per essere letti ad alta voce), di mescolanza tra “colto” e “popolare”, di allusioni a un canone che non è quello consacrato dalle storie della letteratura spagnola, ma viene da lui esteso, nei testi narrativi come nell’ampia produzione saggistica, ad autori eterodossi, a pensatori emarginati eppure fondamentali, lontani da quella tradizione conservatrice, nazionalista e cattolica culminata nel trionfo del franchismo.

Grande conoscitore del mondo arabo, di cui parlava perfettamente la lingua, proponeva all’Occidente un diverso rapporto, fondato sulla conoscenza e il dialogo, con le tante facce dell’islam, e non esitava a dichiarare il suo rigetto del wahabismo (si rifiutò sempre, infatti, di visitare l’Arabia Saudita), espresso in maniera definitiva in un illuminante articolo apparso nel 2003 sulla Revista de Occidente. Considerando il multiculturalismo un’illusione, optava piuttosto per la conoscenza e il rispetto nei confronti dell’antica e tutt’ora viva pluralità di culture che si nasconde sotto la superficie in apparenza omogena di quelle nazionali; e la lunga lontananza dalla Spagna (cui sempre tornava, però, e sulle cui vicende si manteneva minutamente informato), la vita errante e la scelta di avere molte patrie e nessuna, erano anche un modo per testimoniare l’esistenza, all’interno della cultura spagnola, di questa pluralità soffocata e disprezzata, il cui riconoscimento gli sembrava necessario e inevitabile.

Quanto a lui, si dichiarava “di nazionalità cervantina”, in omaggio a un Cervantes riletto come autore eversivo ed eternamente moderno, e aggiungeva, parlando di sé: “Nato a Barcellona, non mi esprimo in catalano. E neppure sono basco, nonostante il mio cognome. Anche se scrivo e pubblico in spagnolo, non vivo da decenni nella penisola e mi colloco ai margini della corporazione. Per questo mi hanno prima etichettato come francesizzante, anche se in francese ho scritto solo un pugno di articoli. Ora mi chiamano, molto cortesemente, moro, perché padroneggio l’arabo dialettale del Marocco e mi sono stabilito a Marrakech”.

La Spagna, oltre a riservargli molte critiche ingiuste e molte incomprensioni (non solo in vita, se si pensa al meschino e velenoso necrologio stilato sul proprio blog da Juancho Armas Marcelo, cattedratico e scrittore, e apparso sul quotidiano El Mundo) lo ha comunque onorato e riconosciuto, soprattutto negli ultimi anni della sua vita – i più difficili, i più tristi, segnati dalle difficoltà economiche e da molte sofferenze –, con dozzine di saggi e studi sul suo lavoro e con i premi nazionali più importanti, come il Cervantes. In Italia, dove un tempo editori quali Einaudi e Feltrinelli avevano proposto la sua opera, oggi si può leggere ben poco di suo: un’altra conferma di quanto avesse ragione, quando sosteneva che la censura “prima era politica, ma quella di oggi, quella commerciale, è ancora più terribile, perché gli editori pensano che se un’opera non venderà più di duemila copie non vale la pena di pubblicarla. E con questo criterio si rischia di perdere metà della letteratura migliore”. Come la sua.

  

Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul quotidiano Il manifesto nel giugno del 2017

lunedì 14 agosto 2017

Da tradurre: Pablo Tusset

Pablo Tusset


A proposito di turismofobia, Pablo Tusset e il detective Sakamura

“Nella città di Barcellona la vita quotidiana comincia a essere profondamente alterata, dal punto di vista dei suoi abitanti. Da una parte, il turismo etilico del fine settimana o anche di un’unica e prolungata notte, con il suo strascico di liti, rumore e una vasta semina escatologica. Dall’altra, il volume e il peso di un turismo che porta a spasso le proprie carni per tutta la città, in costume da bagno e sandali. E, in accordo con la domanda, il centro urbano che si configura in un’immensa superficie commerciale di abiti e cibo spazzatura. In quanto ai monumenti, è facile localizzarli dalle pazienti code che li avvolgono, i gruppi che si accalcano, le macchine fotografiche che si alzano a mo’ di saluto al sole”.

Così, in un articolo apparso su El Paìs nel novembre del 2005, Juan Goytisolo raccontava la sua città, dove non viveva più da anni ma che visitava spesso, tra l’uno e l’altro dei suoi viaggi di lavoro o di scoperta in paesi lontani. Scomparso pochi mesi fa, il grande scrittore ha fatto in tempo ad assistere agli ulteriori sviluppi di una trasformazione accelerata dall’avvento di Airbnb e delle grandi navi da crociera, e al rimodellarsi di una Barcellona incredibilmente diversa da quella dov’era nato nel 1931 e che aveva visto prima sotto le bombe italiane, poi vessata dal franchismo, quindi in pieno fermento culturale e in impaziente attesa della scomparsa del dittatore, affamata di cambiamenti e di diritti durante la transizione, e infine reinventata per le Olimpiadi del ’92: una città modernissima, memore delle sue lotte e fiera delle sue conquiste sociali, ma soprattutto decisa, come sempre, a realizzare buoni affari.

E quale affare più ricco e promettente del turismo di massa, che però, dichiara uno scrittore famoso come Julio Llamazares, per troppo successo e per assenza di regole rischia di trasformarsi “nell’ultima piaga dell’umanità”, e che proprio in questi giorni ha fatto deflagrare il malcontento e le contraddizioni maturati a poco a poco nella capitale catalana, scatenando un fragoroso dibattito che sembra capace di offuscare perfino l’imminenza del referendum indipendentista, e che si dipana tra polemiche, slogan, piccoli sabotaggi, proteste, multe, divieti, provocazioni e, a sorpresa, anche storie da ridere come Sakamura y los turistas sin karma (Editorial Destino, pag. 285, e. 25,75), il nuovo romanzo che Pablo Tusset e il suo editore hanno mandato in libreria ai primi di giugno.

Nonostante il tempismo perfetto, non si tratta di un instant book, perché Tusset ha cominciato a pensarci dopo aver trascorso quasi un decennio in un piccolo paese vicino a Gerona, dove era andato a smaltire l’enorme successo di Lo mejor que le puede pasar a un cruasán (mezzo milione di copie vendute, un film e un’infinità di traduzioni), il suo primo romanzo, uscito nel 2001 e pubblicato anche in Italia (Il meglio che possa capitare a una brioche, Feltrinelli). Al suo ritorno, lo scrittore ha trovato un’altra Barcellona: “A un tratto era piena di pappagallini verdi, gli adulti portavano i pantaloni corti e i turisti si erano moltiplicati”. Ma nel frattempo era cambiato anche lui, informatico di professione e romanziere per vocazione, per scherzo e perché sì; aveva, per esempio, scritto una novela nerissima, amara e comunque divertente, En el nombre del cerdo (Nel nome del porco, Feltrinelli), e pubblicato un paio di romanzi “seri” firmati col suo vero nome, David Cameo, senza per questo rinunciare al suo lato più sfrenatamente umoristico, che l’ha portato a inventarsi un anziano ispettore giapponese dell’Interpol, protagonista di una prima avventura intitolata Sakamura y los muertos rientes (Destino 2011), e ora riapparso in un sequel distopico dove Barcellona è divenuta Barna City, città-stato e capitale dell’Estrema Europa.

Trasformata in un parco tematico che vive solo in funzione dei turisti, Barna City ha cambiato nome a strade e piazze, ora intitolate a cantanti pop, attori e stelle del rock, eliminando le statue degli eroi locali (che ai turisti non interessano) e sostituendole con quelle dei personaggi di Tolkien, mentre la Sagrada Familia (opera inconclusa di un certo Tony Gaudì) è riconvertita in un aquapark con un immenso tobogan in costruzione. È in questa città fasulla all’ennesima potenza, dove tutto corrisponde al più puro distillato dell’immaginario turistico, che a un tratto due impudenti visitatori giapponesi cominciano ad attaccare vecchi e bambini, imponendo a Sakamura di lanciarsi in un’indagine complicata che include un hipster surgelato, una giovane hacker incapace, un misterioso gatto poliziotto di nome Telefunken, e infine due grandi cattivi, ovvero un certo Moriarty e il suo amico Pablo Tusset, fattosi personaggio del suo stesso romanzo. Il tutto, com’è naturale, con accompagnamento di turisti a migliaia, anzi a milioni… ma soltanto di turisti si tratta, o di qualcosa di molto più inquietante?

Esilarante e sfrenato, il romanzo di Tusset è in realtà un surreale fumetto senza immagini, stipato di riferimenti letterari, musicali, cinematografici, e apertamente parodistico: un Blade Runner alla catalana in salsa all inclusive (ma che non esita a mettere alla berlina, oltre al turismo e alla tecnologia, anche le aspirazioni indipendentiste), in cui si disegna il ritratto di una Barcellona preapocalittica e posguapa, così come, a suo tempo e con ben altri esiti letterari, un piccolo classico quale Nessuna notizia da Gurb di Eduardo Mendoza aveva narrato la Barcellona postolimpica. Di ridere, comunque, non si può fare a meno, leggendo questo romanzetto tra il demenziale e il goliardico, ma tutt’altro che sciocco e con qualche temibile accenno profetico, che offre anche uno spunto ottimista, se non altro perché fa presente che dal turismo di massa possono nascere, oltre alla gentrificazione, a enormi profitti per gli speculatori internazionali e alla devastazione dei quartieri e delle comunità che li abitano, anche prodotti culturali appetibili. Tusset (che peraltro viaggia poco, perché non vuole essere “uno di loro”), si rifiuta del resto di dichiararsi pessimista: sì, ammette, al centro e alla rambla i barcellonesi hanno dovuto rinunciare, ma continueranno a tirare avanti benino, finché sapranno ricavarsi “un angolo tutto per loro”. 

 

Una versione più ampia di questo articolo è apparsa sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2017

giovedì 10 agosto 2017

Da tradurre: Rivero e Spedding

 

                Giovanna Rivero                                                                                                                                        Alison Spedding



Nuove autrici boliviane (o quasi)

La letteratura boliviana, quasi sconosciuta ai lettori italiani e, fino a non molto tempo fa, poco nota anche ai lettori latinoamericani e spagnoli, sta conoscendo in questi ultimi anni una diffusione di gran lunga più ampia che nel passato, grazie all’irruzione di un notevole numero di autori nati tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’80, in buona parte intenti a esplorare temi individuali e intimi, piuttosto che a ritrarre, come in passato, i processi sociali e politici di un paese dalla storia difficile e tumultuosa, segnato da grandi diseguaglianze e dallo sfruttamento spietato dei popoli indigeni.

Tra gli scrittori impegnati a sperimentare una nuova libertà tematica e formale (e molto meno lontani dalla politica di quanto si dica), le donne, escluse in buona parte e per lungo tempo dal canone letterario nazionale, hanno un posto in prima fila. Una delle più interessanti, maestra riconosciuta delle giovanissime che premono alle porte, è Giovanna Rivero, nata nel 1972 e da qualche anno residente negli Stati Uniti, dove insegna in una di quelle Università che, scriveva Ricardo Piglia, offrono a tanti scrittori latinoamericani un modo per guadagnarsi la vita senza rinunciare a scrivere. Autrice soprattutto di racconti, ma anche di due romanzi, Rivero – purtroppo mai tradotta in italiano – costruisce con uno stile complesso, spezzato e denso di metafore, storie come quelle raccolte in Para comerte mejor (Per mangiarti meglio, del 2015), di discreta ferocia e di bellissima scrittura, che sfiorano la fantascienza e l’horror, il fantastico e la Storia, ma soprattutto modulano un approccio “laterale” e insolito a questioni sociali e politiche.

Apertamente e, a volte, beffardamente politici sono invece i romanzi di Alison Spedding, nota quasi soltanto in Bolivia, dove si è stabilita quasi quarant’anni fa: prodigiosamente eccentrica – c’è chi la definisce un’anarco-femminista, e chi la chiama gringa renegada –, nata in Inghilterra nel 1962 e laureata in antropologia a Cambridge, Spedding insegna alla Higher University of San Andrés di La Paz e ha al suo attivo una congrua produzione accademica, ma anche alcuni stupefacenti romanzi scritti direttamente in spagnolo, grazie ai quali viene considerata a tutti gli effetti una scrittrice boliviana, e tra le migliori. Oltre a una trilogia provocatoria, debordante e bizzarra che costeggia generi diversi – romanzo storico, thriller e fantascienza – e la cui protagonista è un’india aymara di nome Saturnina, Spedding ha pubblicato l’anno scorso Catre de fierro, un imponente romanzo corale che racconta quarant’anni di storia boliviana, dal ’52 al ’90, attraverso le vicende di due famiglie, creando intorno a loro un universo immaginario, Saxrani (il rimando alla Comala di Rulfo o alla Santa Maria di Onetti, ma anche a Faulkner, è immediato), e facendo ampio ricorso al suo sapere etnologico e alla conoscenza delle lingue indigene. Alcuni critici l’hanno definito il migliore romanzo boliviano del 2016, e c’è chi aggiunge: “è davvero paradossale che ci sia voluta un’inglese per scrivere il più grandioso ritratto di quella Bolivia decadente che rifiuta di abbandonare i suoi privilegi e i suoi complessi”.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2017

Da leggere: Liliana Colanzi

Liliana Colanzi


Liliana Colanzi, la parola è una tigre

“Diceva mio nonno che ogni parola ha il suo padrone e che una parola giusta fa tremare la terra. La parola è un fulmine, una tigre, un uragano, diceva il vecchio guardandomi con rabbia, mentre si serviva alcol di farmacia, ma guai a chi usa le parole alla leggera”.

Così comincia Chaco, uno degli otto racconti racchiusi in Il nostro mondo morto (gran vía, e. 13,50), uno dei libri più belli che ci siano arrivati quest’anno dall’America latina: centoventi pagine assai ben tradotte da Olga Alessandra Barbato, otto storie originali e potenti, e infine la scrittura di una giovane autrice, Liliana Colanzi, che sulla “parola giusta” deve aver lavorato a lungo, riuscendo ogni volta a trovarla e a usarla con estrema consapevolezza.

Nata nel 1981 proprio nel Chaco, a Santa Cruz de la Sierra, nella regione in cui più numerose erano le leggendarie misiones dei gesuiti, Colanzi ha finora pubblicato due libri di racconti, anzi due e mezzo, perché La Ola, uscito in Cile nel 2014, unisce a quattro testi della sua prima raccolta, Vacaciones permanentes, altri all’epoca inediti e che ora sono confluiti in Il nostro mondo morto: un gioco involontario ma significativo, questo del filo che lega un libro all’altro, come a testimoniare la coerenza e la compattezza di un discorso narrativo, ma anche a segnalarne l’evoluzione.

Nel suo secondo libro, già tradotto negli USA e in Francia, Colanzi riprende e sviluppa alcune sue costanti (le rivolte dell’adolescenza, le madri spietate, la fuga, la lontananza, la morte, l’alterità indigena, il legame con l’infanzia, il contrasto tra il mondo urbano e quello rurale), intrecciandole a temi nuovi e costeggiando spesso un fantastico asciutto e inquietante. L’esplorazione della violenza, della marginalità e di una strisciante follia si incarna in bambini, indios, vagabondi, personaggi che interpellano invano una realtà vacillante, mentre miti, sogni e visioni riemergono in momenti e luoghi imprevedibili come un viaggio in bus o in taxi, o in mezzo al traffico cittadino, e si confondono con immagini e profezie del futuro.

La quotidianità assume sfumature sinistre, soprannaturali: un bar parigino ospita un cannibale; nel buio di un cinema, un diabolico “occhio” assiste alla prima, desolata eppure esplosiva esperienza sessuale di una ragazza; nella sua piccola bara, un cadavere infantile continua (forse) a respirare; una invisibile Onda, perpetuamente in agguato, scatena nel gelo del nord un’epidemia di suicidi e insegue la protagonista fino alla città tropicale dove suo padre sta morendo; in un’astronave approdata su Marte, una ragazza consuma la sua crisi sentimentale e rimpiange la rinuncia alla maternità.

Di racconto in racconto, l’autrice azzarda con successo una doppia ibridazione; la prima è quella tra generi – la fantascienza, il gotico, le storie del terrore – rivisitati con perizia, e a volte solo evocati con lievi tocchi e immagini di grande suggestione (la ragazzina india abbagliata in pieno deserto dalla rivelazione dell’universo, tra omini verdi e cerimoniosi, oppure la giovane scrittrice alla finestra, che intravede i suoi personaggi al di là dal vetro). Il secondo “innesto”, invece, è quello di una recuperata “bolivianità” sul cosmopolitismo comune a tanti scrittori latinoamericani sradicati ed erranti (la stessa Colanzi, che ha studiato a Cambridge e alla Cornell University, vive e lavora negli Stati Uniti, come suo marito Edmundo Paz-Soldán o come i bravissimi Rodrigo Hasbún e Giovanna Rivero, per restare in ambito boliviano), e comunque nutriti di cinema, letture e musica a diffusione planetaria.

“Non ho avuto piena coscienza di quello che significava essere boliviana o latinoamericana, finché non ho lasciato il paese. Vivere fuori dalla Bolivia mi ha aiutato a volgere lo sguardo su atteggiamenti e convinzioni che erano nell’aria mentre crescevo e che nessuno metteva in discussione (il razzismo, il classismo, il machismo), e a osservarle con stupore, ma anche con grande curiosità”, ha detto Colanzi in un’intervista, e i frutti di questo sguardo sono ben evidenti in "Il nostro mondo morto", in cui affiora una Bolivia diversissima da quella di cui ci viene abitualmente rimandata l’immagine, sospesa tra i luoghi comuni di perdute mitologie rivoluzionarie, del sottosviluppo e dell’attuale populismo “caudillista”.

Colanzi non intende presentare la Bolivia a chi non la conosce, né denunciare o analizzare esplicitamente i suoi problemi e le sue contraddizioni, e meno che mai seguire le orme del canone letterario nazionale (il suo background è, del resto, sofisticato quanto ampio, e va ben oltre i confini boliviani), nonostante l’aperto omaggio a Jaime Saenz che conclude l’ultimo racconto. Si avvicina al proprio paese, piuttosto, come a un magnifico serbatoio colmo di culture, lingue, storie, cosmogonie, piani temporali che si sovrappongono e si intersecano, e al quale si può attingere all’infinito, per estrarne materiali che vanno a mescolarsi con quelli della più “globale” contemporaneità.

È così che Colanzi ci offre, oltre a una fabulazione suggestiva e costruita con stupefacente sicurezza, l’obliquo, insolito ritratto di una Bolivia plurale, fatta di voci e tradizioni diverse, che è parte di lei: un paese tutto interiore legato a incubi, nostalgie, esperienze e memorie intime e personali, ma visto con sufficiente distacco da consentire la presenza di percettibili coloriture politiche. E, non ultimo tra i pregi del libro, Il nostro mondo morto è una tra le prove letterarie di questi ultimi anni che più apertamente ci spinge a una riflessione su che cosa significa, oggi, essere uno scrittore latinoamericano. Anche se, va detto, questa era forse l’ultima tra le intenzioni di Liliana Colanzi. 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2017