Un romanzo di formazione nella Bolivia degli anni ’80
Della letteratura boliviana poco si sa, in Europa quanto nei paesi di lingua
spagnola, nonostante un’indubbia ricchezza che, accanto a testi ormai ritenuti canonici,
offre incontri imprevisti come quello con Hilda Mundy, autrice di un unico libro
nel solco dell’ultraismo (tanto più sorprendente in un paese che con l’avanguardia
ha avuto poco a che fare), o con la prosa alcolica e sconvolgente di Victor Hugo
Viscarra, la cui voce arriva da una marginalità estrema vissuta fino all’ultimo
per le strade di La Paz. Ben poche sono le traduzioni, dunque, in Italia come altrove,
anche se da noi sono arrivati almeno Jaime Saenz, il più importante scrittore boliviano
del ’900 (Crocetti ha pubblicato l’imponente Felipe Delgado, romanzo singolarissimo
di oltre 600 pagine), Jesús Urzagasti (sempre di Crocetti è l’edizione
italiana della sua obra maestra, Tirinea), il poeta Pedro Shimose,
proposto da Sinopia, e pochi altri, quasi sempre tradotti con grandissima competenza
da Claudio Cinti.
Mai tradotti, invece, gli esponenti della generazione più giovane che sta mettendo
fine a un troppo lungo isolamento: autori come Liliana Colanzo, Maximiliano Barrientos,
Wilmer Urrelo, Sergio di Nucci, Giovanna Rivero o Rodrigo Hasbún (il più conosciuto
fra gli scrittori sotto i quaranta, nonché uno dei ventidue “eletti” dalla rivista
Granta nel 2010) non sono ancora apparsi nella nostra lingua, nonostante alcuni
di loro vengano ormai pubblicati in buona parte dell’America latina e in Spagna.
In tanto silenzio sul passato e il presente di una letteratura immeritatamente periferica, l’unica vera eccezione è rappresentata da colui che all’estero viene oggi considerato lo scrittore boliviano per eccellenza, pubblicato da una grande casa editrice come Alfaguara (sempre più internazionale da quando è stata acquistata dalla Penguin Random House) e tradotto in molti paesi: Edmundo Paz Soldán, nato nel 1967 a Cochabamba, che a venticinque anni ha lasciato la Bolivia per gli Stati Uniti, dove si è laureato a Berkeley, è diventato professore alla Cornell University e a partire dal 1990 ha prodotto una dozzina di raccolte di racconti e dieci romanzi, oltre ad alcuni saggi e alla discussa antologia Se habla español. Voces latines en USA, compilata con il cileno Alberto Fuguet. Arriva adesso in libreria, tradotto da Carla Rughetti, il suo Río fugitivo (pag.463, e.18), pubblicato da Fazi Editore presso il quale era già apparso La materia del desiderio, una novela che, insieme ad altre come Aldedor de la torre e Palacio Quemado, si concentra sulla situazione politica e sociale della Bolivia, filtrata attraverso la storia personale, familiare e sentimentale dei protagonisti. A questo realismo apertamente schierato, che evita però l’ideologia e l’indigenismo, Paz Soldán si è in parte sottratto in Sueños digitales o El delirio de Turing, frutto della sua fascinazione per la tecnologia e per la rete che ridisegnano e modellano la quotidianità, fondendola a un paesaggio urbano e latinoamericano in cui il potere cerca di cancellare le tracce del passato grazie a un ritocco costante, una sorta di continuo e sofisticato Photoshop che renda accettabile e consumabile la sua immagine. E questa strada lo scrittore è tornato a percorrere – ma uscendo una volta per tutte dai confini boliviani – nel suo ultimissimo romanzo, Iris, che, ispirato dalle atroci prodezze di un gruppo di soldati americani in Afghanistan, si propone come fantascienza pura, ritratto della presente ma anche temibile anticipazione del futuro. Tra i romanzi “boliviani” e Iris si collocano poi alcune delle opere migliori di Paz Soldán, come Norte, Los vivos y los muertos e molti dei racconti più recenti: storie che appartengono al nord del continente, sia quando parlano della perdita dell’identità e del linguaggio di immigrati diversi (il serial killer, il pittore folle, la studentessa), sia quando raccontano la violenza segreta della provincia USA, alle prese con una epidemia di suicidi adolescenziali.
In questo panorama ampio e vario, in cui ogni libro – riuscito o meno – rappresenta una tappa di maturazione e, pur nella diversità dei registri e delle trame, resta fedele ad alcune costanti (elementi di suspense, storie parallele che si sfiorano appena, il lavoro sul linguaggio, i riferimenti metaletterari, l’immagine di un’America latina satura di riferimenti alla cultura di massa nordamericana, la ridefinizione del concetto di realtà, l’indagine sui segreti di famiglie che sembrano riflettere i destini e la natura del paese), Río fugitivo, uscito per la prima volta nel 1998 e rivisto dieci anni dopo, occupa un posto del tutto peculiare. Ambientato nella Cochabamba degli anni ’80, quando l’autore aveva diciassette anni come il protagonista Roberto e come lui frequentava il liceo cattolico Don Bosco, è un romanzo di formazione in piena regola che rimanda a un antecedente illustre (La città e i cani di Vargas Llosa, nota Juan Gabriel Vásquez nella bella prefazione) apertamente citato da Paz Soldán, ma è anche un ritratto della borghesia boliviana durante la presidenza di Siles Zuazo – primo governo eletto dopo una stagione di dittature e colpi di stato –, di una classe sociale razzista ed escludente sempre in attesa del prossimo “uomo forte” e di una generazione di giovanissimi che vivono un totale distacco dalla realtà di un paese povero dove l’ingiustizia sociale è la norma, e sono invece immersi in consumi, miti, musica che vengono dagli Stati Uniti.
Ma Río fugitivo è anche una sorta di piccolo trattato di narratologia, perché il bisogno e la passione del raccontare lo attraversano dalla prima all’ultima pagina: racconta (e soprattutto si chiede come raccontare, spingendosi a plagiare gli scrittori amati) Roberto, che vuole diventare scrittore e che vende ai compagni racconti e poesie d’amore; raccontano i suoi compagni, narratori orali che favoleggiano di sesso e improbabili avventure, intessono abili bugie e anticipano l’opportunismo degli adulti futuri; raccontano i suoi genitori, ognuno dei quali fornisce una propria versione delle sventure familiari. E in questo flusso di narrazioni che si intersecano si inserisce a un tratto una morte che tocca Roberto troppo da vicino perché lui, nutrito di romanzi polizieschi, non decida di arrivare alla verità. Il che introduce un terzo elemento di spicco, e cioè la messa in scena di un’indagine, o meglio la sua costruzione, che evoca e parodizza la letteratura di genere, cui Paz Soldán ha sempre guardato con interesse.
Romanzo corale tessuto con innumerevoli fili e scritto in uno spagnolo terso
e quasi neutro – ben diverso da quello meticcio, denso di anglicismi e localismi,
che Paz Soldán adotterà in seguito, fino ad arrivare alla “neolingua” di Iris
–, fitto di personaggi, di scoperte sempre ribaltate e di tutti quei misteri la
cui decifrazione è (o forse è stata) una delle imprese più impegnative cui l’adolescenza
deve dedicarsi, Río fugitivo ci si presenta come profondamente boliviano
e latinoamericano (un’America latina neoliberale e “globale” che tuttavia non si
è liberata dalle sue più antiche contraddizioni), del tutto estraneo all’ormai remoto
canone dei maestri del boom, ma allo stesso tempo, nota Vásquez, incline a una dialettica
che reinventa la tradizione proprio mentre sembra negarla. E infine, ultimo ma non
irrilevante motivo di interesse, ci racconta con una nuova voce i turbamenti, le
allegrie, le ansie e le violenze di una adolescenza universale.
Questo articolo è apparso su Il manifesto nel febbraio 2015