Juan Benet |
Juan Benet, un maestro senza epigoni né eredi
Quello di Juan Benet, morto a 65 anni nella Madrid dov’era nato nel 1927, è
un nome poco familiare ai lettori italiani, a meno che non abbiano frequentato intensamente
la letteratura spagnola del ’900, mai troppo popolare nel nostro paese. Eppure tra
il 1990 e il 1994 editori come Adelphi, Marcos y Marcos, Garzanti e soprattutto
Guida hanno pubblicato parte della copiosa produzione narrativa e saggistica di
un autore considerato tra i più importanti e influenti del secondo ’900, come non
si stanca di ricordare Javier Marías, che lo conobbe a diciotto anni (Benet ne aveva,
allora, più di quaranta) e che ancora oggi, benché il loro cammino letterario abbia
preso vie diverse, ne parla come del proprio maestro e mentore.
Delle traduzioni italiane pubblicate allora – tra le quali si contano le nouvelles
Numa e Una tomba, e i romanzi Un viaggio in inverno, Il
cavaliere di Sassonia, l’imponente Lance spezzate, che la morte impedì
a Benet di completare, e Nella penombra, l’unico ancora reperibile – buona
parte del pubblico e della critica italiana, come sempre distrattamente provinciali,
quasi non si accorsero. Anche nel suo paese, però, Benet è sempre stato autore per
pochi, ammirato da scrittori come Félix de Azúa, Pere Gimferrer, Vicente Molina
Foix ed Eduardo Mendoza, e venerato da molti critici quanto detestato da altri,
al punto che, secondo Marías, a tener viva la memoria dello scrittore hanno paradossalmente
contribuito anche i suoi detrattori, incapaci di perdonargli l’indifferenza al successo
di pubblico e la rigorosa fedeltà a un’estetica esigente di cui aveva posto le basi
già nel 1966, con il saggio La inspiración y el estilo, dopo aver pubblicato
solo un volume di racconti (Nunca llegarás a nada, del 1961), e mentre scriveva
e riscriveva il suo primo romanzo, Volverás a Región, uscito nel 1967. Un
testo, quest’ultimo, che tagliava i ponti con i modelli letterari spagnoli, collocandosi,
come seppe notare a suo tempo Carlo Bo, nel quadro della grande sperimentazione
europea, fuori dai canoni del costumbrismo ottocentesco o del realismo sociale
trionfante in Spagna negli anni ’50 e ’60 e che lo scrittore disprezzava, al pari
del suo quasi coetaneo Juan Goytisolo, altro autore “anomalo” e innovatore.
Oggi, finalmente, Volverás a Región ci arriva grazie alla Amos, piccola
casa editrice che lo propone nella traduzione di Sebastiano Gatto e Piero dal Bon
(Ritornerai a Región pag. 480, e. 20), con un dotto saggio finale di Elide
Pittarello: l’impresa è audace, sia per la considerevole difficoltà di rendere lo
stile e la lingua di Benet, sia per la complessità del romanzo, in cui ogni pagina
rappresenta una sfida per il lettore, alle prese con un racconto ambiguo, reticente
e sin argumento, cioè senza una trama vera e propria, che non si degna di
chiarire nessuno dei suoi molti misteri e somiglia a un rompicapo mai del tutto
risolto, o addirittura predisposto per suscitare irritazione e perplessità. Non
si può non cedere, infatti, al richiamo stregonesco di questa prosa sontuosa e barocca,
lenta ma inarrestabile, fatta di lunghe frasi e di scelte lessicali a volte enigmatiche,
che si espande in tutte le direzioni e che è quasi d’obbligo definire labirintica.
L’immagine del labirinto, del resto, è riferibile tanto alla scrittura e alla
costruzione delle narrazioni di Benet, quanto al territorio immaginario dove sono
ambientate quasi tutte le sue opere e di cui si parla per la prima volta in Baalbec,
una mancha, racconto del 1958 su una statica e primitiva anti-arcadia: Región,
che racchiude una sierra desertica, villaggi abbandonati, due corsi d’acqua
e due piccole città rivali, Región e Macerta, dominate da picchi montagnosi e dall’intricato
bosco di Mantua. Il paesaggio e la natura di Región, già disegnati nel racconto,
verranno poi illustrati all’inizio del romanzo con estrema, quasi maniacale minuzia
orografica, botanica, zoologica, passando attraverso tutte le aree del sapere, incluse
antropologia e meteorologia (nelle opere seguenti, Benet non ripeterà un simile
exploit, dando per scontato che, proprio grazie a queste pagine, il lettore sappia
ormai in quale mondo si muovono i suoi personaggi). L’autore conosceva bene certe
zone montagnose e aspre della Spagna, come la provincia di León – che secondo alcuni
ha in parte ispirato la geografia di Región –, dove progettò e seguì la costruzione
di grandi opere pubbliche, tra cui la diga del Porma, che oggi porta il suo nome:
era infatti ingegnere, proprio come Juan Rodolfo Wilcock e Carlo Emilio Gadda, ma,
contrariamente a loro, amava la sua professione, cui riconosceva una rigorosa e
razionale bellezza, e non pensò mai di lasciarla per la letteratura, riuscendo a
coltivare entrambe.
Sia o no attendibile il rimando a un paesaggio concreto, ben più forte è quello
all’universo del mito: Mantua ricorda il bosco sacro di Nemi, di cui parla Frazer
nel Ramo d’oro, di cui Benet fu attento e appassionato lettore, e Región
è un labirinto che racchiude un singolare Minotauro, ovvero Numa, guardiano-pastore
astuto e feroce, che vede tutto “con gli occhi chiusi” e che nessuno ha mai visto,
ma che tutti hanno sentito, perché uccide con un solo colpo di fucile qualunque
estraneo si azzardi a entrare nel locus horribilis da lui custodito, tenendo
così a bada ogni possibilità di cambiamento. Questo mondo oscuro, ostile e acronico,
che richiama la Yoknapatawpha di Faulkner (l’autore più frequentemente accostato
a Benet e da lui considerato “imprescindibile”) e ancor più la Comala di Juan Rulfo,
è però affollatissimo di storie e tutt’altro che estraneo alla Storia, perché è
stata la guerra civile a confinarlo in un limbo devastato; la repubblicana Región,
con i suoi abitanti sprovveduti e armati in modo improbabile, e la rivoltosa Macerta,
guidata dallo spietato colonnello Gamallo, che ha trasferito sul campo di battaglia
la furia di una vendetta personale, si sono scontrate fino alla vittoria di Macerta
e al reciproco annichilimento.
Anche se la guerra civile e la desolazione della posguerra sono uno dei
grandi temi dello scrittore (suo padre, tra l’altro, venne fucilato nel 1936, mentre
il giovane Juan e il fratello Paco, antifranchisti, finirono in prigione nei primi
anni ’50), che gli dedicherà anche l’imponente e incompiuto Herrumbrosas lanzas,
non si può tuttavia dire che la narrativa di Benet costeggi il romanzo storico:
trauma profondo e mai sanato, la guerra è un’altra delle “zone d’ombra” inaccessibili
al pensiero razionale, in cui secondo Benet la letteratura e l’arte devono inoltrarsi
per “cogliere un lampo di luce” nell’oscurità, come diceva Faulkner, piuttosto che
per rappresentare una realtà inconoscibile.
La memoria della guerra civile (e in realtà di ogni guerra), intesa come tenebra
da sondare, che continua a trasformare il presente in passato e cancella il futuro,
torna attraverso le principali voci narranti del romanzo: quella di un narratore
la cui onniscienza Benet mette in dubbio e limita severamente, quella del dottor
Sebastián, che, apatico e disilluso, vive con un orfano reso folle dall’abbandono
della madre, e quella di Marré Gamallo, la figlia del colonnello franchista, che
torna a Región da donna matura, in cerca del suo perduto amante repubblicano. I
due condensano in ventiquattro ore di colloquio le loro e le altrui vite, distrutte
dalla guerra e dall’abbandono (Sebastian è ormai un alcolizzato, e Marré, violentata
da un gruppo di miliziani, si è prostituita nel bordello retto dalla tenutaria Muerte);
un dialogo, il loro, che in realtà non è affatto tale, immersi come sono in soliloqui
lunghissimi e incomunicanti che confondono i piani temporali, si mescolano ai pensieri
del giovane demente e frugano nel disordine che giace sotto la superficie della
realtà, fino al momento in cui entrambi si avviano verso le rispettive tragedie
finali, suggellate dal marchio inconfondibile di Región: il fallimento e la rovina.
Al lettore affascinato e travolto, che si è confrontato con la sovrabbondanza
linguistica, la densità metaforica e le provocazioni del romanzo, non resta che
interrogarsi sulla molteplicità delle interpretazioni consentite e quasi sollecitate
dal testo di Benet: Región è una messa in scena simbolica della Spagna franchista
e delle devastazioni della guerra civile, o la rappresentazione di un inconscio
del quale il bosco di Mantua è il nucleo? O, ancora, il pretesto per uno straordinario
esercizio di stile e per il tentativo di riprodurre il flusso incostante e spesso
fallace della memoria (esperimento ripetuto in seguito, più audacemente, nel romanzo
Una meditación, scritto su un unico rullo di carta contenente un paragrafo
lungo 320 pagine)? O è un annuncio della frammentazione e del disordine postmoderni?
O tutto questo allo stesso tempo, e molto altro ancora? Qualunque sia la risposta,
a ventitré anni dalla morte Benet rimane uno scrittore incredibilmente attuale,
un maestro destinato per la sua unicità a non avere né epigoni né eredi.
Questo articolo è apparso su Il manifesto nel dicembre 2015