Juan José Saer
Il tempo e lo spazio di Glossa
Fin dal suo libro
d’esordio del 1960, l’antologia di racconti En la Zona, Juan José Saer – insieme
a Ricardo Piglia il più importante scrittore argentino dopo Borges – ha avocato
a sé un territorio preciso, quello in cui era nato nel 1937, in una famiglia di
immigrati siriani: la provincia di Santa Fe, il Delta del Paranà, la pianura, uno
spazio più metaforico che geografico dove concentrare figure ricorrenti, un gruppo
di amici – riflesso di quello cui lo scrittore rimase sempre fedele, e composto,
tra gli altri, dai poeti Juan L. Ortiz e Hugo Gola, dal giornalista Paco Urondo,
dal pittore Juan Pablo Renzi – impigliati, come tutti, nella rete di una memoria
così mutevole e inafferrabile da mettere in questione la natura, se non l’esistenza
stessa, del reale.
L’accentuata intertestualità
di ogni storia rimanda alle successive e richiama le precedenti, perfino quando
sono separate dai secoli (lo splendido L’arcano
si svolge nel XVI secolo, Le Nuvole nell’Argentina
pre-indipendenza, La ocasión a metà dell‘800), o dall’oceano (L’indagine è ambientato a Parigi, dove Saer,
professore all’Università di Rennes, visse per trentacinque anni e morì nel 2005).
E il gioco intertestuale è evidente anche in Glossa – settimo dei dodici romanzi di Saer, la cui eccellente versione
italiana di Gina Maneri è appena apparsa presso La Nuova Frontiera (pag. 248, e.
17, 50) – sin dalla prima frase, uno di quegli incipit così caratteristici della
proposta stilistica saeriana, che secondo il critico Julio Premat hanno la funzione
di annunciare una continuità e di sottolineare l’aspirazione a un “testo infinito”,
come mostrano i Papeles de trabajo. Borradores
ineditos (Seix Barral, 2012/2013), raccolta in due volumi dei quaderni sui quali
lo scrittore argentino ha progettato per anni non solo l’architettura delle singole
opere, ma il loro costituirsi in un corpus coerente e strutturato.
La costellazione
dei romanzi di Saer (lui preferiva chiamarli “narrazioni”) sembra formare un universo
in espansione, che non si stanca di raccogliere e dilatare grumi e frammenti, a
volte infinitesimali. Glossa, pubblicato
per la prima volta nel 1986 e considerato da molti il miglior romanzo dell’autore,
di questo universo rappresenta in un certo senso il fulcro, quasi una mappa della
poetica di Saer, disegnata intorno all’incontro casuale tra Angel Leto, contabile
poco più che ventenne, e il Matematico, ingegnere di buona famiglia, appena rientrato
dal suo Grand Tour.
I due non hanno
molto in comune, se non l’amico Tomatis e certe simpatie politiche di sinistra,
ma camminano insieme per un’ora intera, conversando, tra i quartieri residenziali
e il centro di una Santa Fe mai nominata e “ricostruita” per adattarsi ai loro passi:
le tre parti in cui è diviso il libro, prive di interruzioni e povere di capoversi,
corrispondono ciascuna a sette dei ventuno isolati percorsi durante la lunga passeggiata,
in cui si percepisce un’eco parodica del Simposio di Platone (anche se oziose piccolezze
sostituiscono le riflessioni filosofiche), o della conversazione tra Stephen Dedalus
e Bloom.
Camminano, il Matematico
con le sue lunghe gambe e l’immacolato completo bianco, il piccolo Leto nei suoi
abiti un po’ lisi, spiando con la coda dell’occhio le reazioni dell’altro, seguendo
il filo dei propri pensieri, e soprattutto parlando della festa avvenuta, tra l’asado
(una “cerimonia” ricorrente, in Saer) e abbondanti bevute, nella casa di campagna
di Washington Noriega, poeta e intellettuale marxista, in occasione del suo sessantacinquesimo
compleanno. Nessuno dei due vi ha assistito, ma Botón, uno degli invitati, ha raccontato
la serata al Matematico, che per tutta la vita rimpiangerà di non esserci stato.
Quella riferita a Leto, che ascolta distrattamente, è perciò la versione di Botón,
contrastante con il maligno resoconto che ne farà Tomatis, assediato dalla depressione,
quando lo incontreranno davanti al giornale dove lavora. E ci sarà, diciotto anni
dopo, una terza versione, quella di Pichón Garay, che a Parigi evocherà una festa
ancora diversa, dove secondo lui c’era anche il Matematico, che invece in quei giorni
stava visitando l’Europa. A poco a poco, il lettore si rende conto del perché l’autore
abbia scelto come titolo una parola mai citata nel testo: glossa, ovvero una nota
esplicativa o di commento, che in lingua spagnola indica anche una variazione musicale
sulle medesime note, o una composizione poetica in cui ogni strofa termina con un
verso che verrà ripreso all’inizio della seguente. Fedele al suo titolo, Glossa è appunto un romanzo fatto di versioni,
variazioni, ripetizioni, anticipazioni, che rendono impossibile comporre un’unica
e attendibile storia.
La festa, con i
suoi incidenti, le discussioni sulla possibilità che un certo cavallo abbia o no
inciampato, il racconto di Washington sulle tre zanzare che hanno disturbato la
laboriosa stesura delle sue quattro conferenze sugli indios Colastiné, le notizie
contrastanti su un evento in fondo irrilevante, si rivelano così il pretesto per
evocare l’accumularsi di voci che si influenzano e smentiscono a vicenda. Le diverse
interpretazioni, le differenti glosse si disputano la realtà, facendola a brandelli,
giustiziando il concetto di verità e sostituendolo con quello di versione, come
del resto preannuncia, nella dedica, una breve citazione da L’urlo e il furore (Faulkner era uno degli
scrittori che Saer più ammirava, insieme a Joyce e Onetti), in cui tre persone raccontano
in modi opposti la decadenza della loro famiglia.
Ai resoconti della
festa si incrociano digressioni e aneddoti sugli assenti, mentre sia il Matematico,
assorto nella profonda avversione per la sua classe sociale e per il fratello reazionario
e conformista, sia Leto, che convive col ricordo del padre morto (“un suicida insolente”),
con le furie melodrammatiche della madre, con le immagini dell’ infanzia, deviano
interiormente verso considerazioni intime e private, così da venire rappresentati
non a partire da quel che fanno o dicono, ma dalle loro impressioni e riflessioni.
Una continua intersezione di piani temporali, inoltre, accompagna la passeggiata,
mentre il narratore infila con destrezza nel presente rapide istantanee del passato
e del futuro, e nessuno dei due protagonisti si rende conto di avanzare nel tempo
”man mano che avanzano nello spazio, come se ogni passo li portasse in direzioni
opposte, a meno che tempo e spazio non siano inseparabili e l’uno sia inconcepibile
senza l’altro, ed entrambi inconcepibili senza loro due, Leto e il Matematico, così
che camminatori, strada e mattina, formino un getto denso che sgorga placido dalla
fontana dell’accadere”.
La complessità
del reale e della sua percezione, l’impossibilità di raccoglierne tutti i fili,
la difficoltà di raccontarlo e il problema del “come” raccontarlo, sono il tema
di fondo dell’opera di Saer, che in Glossa trova compiuta espressione: in un romanzo
quasi privo di dialoghi, un narratore che esibisce una sovrabbondante onniscienza
(e che si definisce “il sottoscritto” o “il servitore” di chi legge) fa di continuo
presente la propria e altrui incertezza e mette a nudo i meccanismi della narrazione,
ancorandosi a una difficile scommessa formale e a un raffinatissimo lavoro sul linguaggio,
che ricrea il ritmo dell’oralità. Ricca di modulazioni, sfumature poetiche e infinite
ripetizioni, la prosa di Saer è disseminata di formule colloquiali (“come dicevamo”,
“se vogliamo”, “insomma”, “no?”) quando vengono descritti con dovizia iperrealista
i movimenti dei personaggi e lo scenario cittadino, ma diventa a un tratto essenziale,
quasi impersonale, nelle poche, succinte pagine in cui il lettore viene informato
su quello che accadrà ai personaggi: Leto, entrato nella clandestinità della lotta
armata, si avvelenerà con una pastiglia di cianuro per sfuggire a un’imboscata poliziesca;
al Matematico uccideranno la moglie, militante trozkista, mentre lui andrà in esilio
“nell’inverno nero e terribile” di Stoccolma e suo fratello diventerà ministro del
regime; Pichón Garay fuggirà a Parigi, mentre il gemello Gato e la sua compagna
Elisa finiranno tra i desaparecidos.
Dietro quella lunga
camminata senza meta, dietro le versioni contrastanti della festa, dietro i ricordi
e le sensazioni dei personaggi, si annida dunque il tragico destino di un’intera
generazione. Giustamente, lo scrittore Martín Kohan ha definito questo libro “uno
dei più notevoli romanzi politici che ci abbia dato la letteratura argentina. Così
si scrive la politica in Glossa: queste
sono le condizioni per la scrittura politica di Juan José Saer. Non ci si aspetta,
non si pretende, che la letteratura catturi una realtà, che la afferri, che la plasmi,
che la dispieghi, che la indichi, e con tutto questo elabori uno slogan o una conclusione.
L’elemento politico in Glossa prende la
forma dell’incrostazione, o dell’irruzione…”.
Saer non ha scelto
il canone della testimonianza o della denuncia: ha optato piuttosto per la perfezione
del linguaggio e della forma, conferendo al romanzo una potenza che si esprime per
intero nella visione finale: uccelli mai visti prima che volano freneticamente,
lanciando strida impazzite, sopra e intorno a un oggetto che non sanno riconoscere,
un pallone giallo da spiaggia, cullato a riva dalle onde del lago, mentre in Leto
si insinua la consapevolezza “di quanto smarrimento, terrore e confusione hanno
ancora bisogno le specie perdute per erigere, nella casa della coincidenza, il santuario,
superfluo, in più di un senso, dei propri, come sembra che li chiamino, dèi”.
Questo articolo
è apparso sul quotidiano Il manifesto nell'ottobre del 2018