Scomode memorie dal sottosuolo
Una giovane narratrice e un suo collega più
anziano, popolarissimo in patria e appena approdato alla notorietà internazionale,
si incontrano durante un avvenimento culturale e si scambiano battute pungenti ma
affettuose. "Sei troppo grasso, Pedro" conclude lei, cercando di avere
l’ultima parola, e l’altro, come sempre in abiti vagamente muliebri e tacchi alti,
ribatte tenendosi la pancia: “Si vede così tanto che sono incinta di Bolaño?”. A
raccontare quel breve incontro è Lina Meruane in un articolo scritto in morte di
Pedro Lemebel, scomparso nel 2015 a sessantadue anni per un cancro alla laringe,
lui che, a differenza di tanti suoi amici, era riuscito a sfuggire alle grinfie
dell’Aids.
In quella pronta risposta declinata al femminile
c’è un brandello della costante provocazione di cui sono intessute vita e opera
di un autore “che non ha bisogno di scrivere poesia per essere il miglior poeta
della mia generazione”, come disse di lui Roberto Bolaño, sostenitore autorevole
ed entusiasta del cronista cileno. Tradotto in più lingue, nel 2004 Pedro è arrivato
anche in Italia grazie a Marcos y Marcos, con Ho paura torero, il suo unico romanzo, e con due raccolte di cronache
intitolate Baciami ancora, forestiero
e Parlami d’amore; solo oggi, però, a
oltre vent’anni dalla prima edizione in lingua originale, troveremo finalmente in
libreria Di perle e cicatrici (Edicola
Edizioni, pag. 247, e. 18, traduzione di Silvia Falorni), una delle sue opere più
significative, che insieme a La esquina es mi corazón e Loco Afán. Crónicas
de Sidario, compone una trilogia di cronache urbane risalenti al periodo della
Concertación, segnato dalla rimozione del passato e dalla continuità con il neoliberismo
duro e puro ispirato alle teorie dell’economista americano Milton Friedman (un suo
allievo, José Piñera, fu ministro di Pinochet ed è il fratello dell’attuale presidente
cileno).
Nato in uno dei quartieri più poveri di Santiago,
al momento del golpe Lemebel aveva diciotto anni e, da omosessuale dichiarato, visse
nel modo più aspro l’esperienza della dittatura, sfidandola attraverso una militanza
politica e artistica venuta alla ribalta negli anni ’80, quando fondò con Francisco
Casas il collettivo Las Yeguas del Apocalipsis, che con le sue performances
mise in subbuglio una Santiago immersa nel grigiore del regime. Tanto l’arte visuale
quanto la scrittura (il giovane Lemebel aveva pubblicato, nel 1986, un libretto
di racconti intitolato Los Incontables) confluirono infine nella scelta di
farsi anche cronista, quasi un gesto di resistenza, in parte ispirato dalla delusione
per il disimpegno e la smemoratezza di molti autori della cosiddetta Nueva Narrativa
cilena.
Va detto che in tutta l’America latina la cronaca
è saldamente presente sin dall’epoca coloniale, e, prima di diventare una delle
forme preferite dei narratori contemporanei, è stata contenitore privilegiato dei
resoconti di esploratori ottocenteschi, dei “piccoli gioielli” modernisti, delle
Acqueforti di Artl e dei testi brillanti e acuti del cileno Joaquín Edwards Bello.
Un genere di frontiera, in bilico tra giornalismo e narrativa, che oggi, in un’epoca
segnata dal rapidissimo succedersi delle notizie, offre un’interessante possibilità
di approfondimento e riflessione, arricchita dalle risorse del discorso letterario.
Niente di più adatto a Lemebel, insomma, e al suo bisogno di raccontare e raccontarsi
per mezzo di uno strumento duttile e malleabile.
Le sue cronache, riunite in sette antologie,
si distinguono per lo stile inconfondibile, per una marcata esigenza etica e politica,
per l’attenzione verso tutto quanto si colloca ai margini e per l’introduzione nel
panorama culturale cileno di un elemento nuovo: la voce omosessuale, e, soprattutto,
quella derisa e criminalizzata della loca (più che una provocazione, un gesto sovversivo,
in un paese dove solo nel 1999 è stata abrogata la Ley de Estados Antisociales,
destinata a perseguire “vagabondi, mendicanti, pazzi e omosessuali”). Una voce della
cui autenticità non si può dubitare: Lemebel parla a nome della propria differenza,
ostentando con orgoglio la sua condizione di proletario, di travestito e di meticcio.
Prima di venire raccolte in volume, queste
cronache hanno attraversato media diversi, come i giornali o la radio, e infatti,
avverte il prologo, Di perle e cicatrici
è il frutto dei dieci minuti quotidiani che per anni l’autore ha occupato nell’emittente
femminista Radio Tierra, con un programma intitolato Cancionero. Che a ospitarlo
fosse proprio quella radio non è irrilevante, in quanto segno dell’importanza
che ebbe per lui l’alleanza con il femminile, simboleggiata dalla sostituzione del
cognome paterno, Mardones, con quello materno, e basata su una rete di rapporti
con studiose, scrittrici e artiste come Pia Barros, Diamela Eltit, Nelly Richard,
Paz Errazuriz, e con la segretaria del Partito Comunista Gladys Marín, che lo accolsero
e lo appoggiarono sin dagli anni ’80, stringendo con lui legami saldissimi, tanto
che quando Roberto Bolaño suggerì a Lemebel di “disfarsi delle vecchie femministe”,
l’amicizia tra i due si incrinò.
I testi sono suddivisi in otto sezioni (nell’edizione
italiana manca quella intitolata Relicario, composta da foto di personaggi,
oggetti e spazi citati nel libro) per un totale di settantadue cronache cui il passaggio
dalla voce alla carta stampata non toglie musicalità e ritmo, accentuati, anzi,
dai titoli e dalle epigrafi e dall’amalgama tra lingua letteraria e oralità popolare,
ricca di fioriture, localismi ed espressioni gergali. A questo proposito, molti
critici ricollegano la scrittura di Lemebel al neobarroco di Lezama Lima,
Sarduy, Perlongher, anche se in lui l’intenzionalità barocca e sperimentale è meno
marcata, e se attribuirgli una simile genealogia impedisce almeno in parte di constatare
che la ricchezza della sua prosa rimanda non tanto alla cultura alta, quanto all’uso
consapevole di un kitsch melodrammatico come il testo di un bolero e, forse, alla
luccicante estetica delle locas e al loro sapiente ricorso all’artificio.
Racchiuse nello scrigno di un linguaggio denso
di metafore e immagini, di indignazione, di acido umorismo, le cronache evocano
il passato accostando frammenti e residui, e i ricordi – ben più vivi di quelli
imposti per decreto e sepolti sotto ipocriti monumenti – si accompagnano alla denuncia
dei complici della dittatura come Mariana Callejas (protagonista di un testo che
ispirò a Roberto Bolaño il suo Notturno cileno),
a piccole storie che mettono a nudo la violenza del regime e all’esplorazione di
una cultura di massa che produceva consenso attraverso i quiz a premi, i predicatori
televisivi, le telenovelas, la stampa a sensazione, i trionfi delle reginette di
bellezza. Lemebel si fa portavoce di memorie sotterranee, riscatta corpi e destini
ignorati, si incarica di ricostruire le vicende nascoste dietro un nome, un’oggetto,
un’immagine: la foto di Claudia Victoria, desaparecida a otto mesi; il video in
cui Karina Eitel, prigioniera politica, recita un testo scritto dai suoi carcerieri,
stordita dagli psicofarmaci e imbellettata per nascondere i segni della tortura;
il volto-maschera di Carmen Gloria Quintana, cui i militari diedero fuoco dopo una
manifestazione. L’affiorare del passato, però, si sottrae al rito e alla celebrazione,
propone un altro modo di vivere la memoria, implica una critica serrata al presente
e la necessità di cambiarlo: è un invito a ricordare, certo, ma soprattutto a prendere
coscienza e ad agire. Le scomode cronache di Lemebel – collocate in un paesaggio
urbano in movimento, dove il contrasto tra quartieri alti e poblaciones evoca le
cesure e le frontiere di una società fondata su diseguaglianze sempre più profonde
– sono ancora oggi la mappa di ciò che il Cile desidera dimenticare, e proprio per
questo libri come Di perle e cicatrici
reggono alla prova del tempo. L’autore ha detto spesso che la rabbia è l’inchiostro
di una scrittura che non intende sorvolare né perdonare, e che scruta da vicino
perle e cicatrici, segni incancellabili sul corpo degli individui, della collettività,
della metropoli dove proliferano i non-luoghi consacrati alla merce. Un aperto richiamo
a quella che Benjamin definisce “la tradizione degli oppressi”, che a tanti anni
di distanza ci permette di leggere queste cronache come fossero scritte oggi, e
in qualche modo ci riguardassero.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il
manifesto nel luglio del 2019