venerdì 2 settembre 2022

Da leggere: José Esteban Echeverría

 


José Esteban Echeverría




La vertigine della barbarie 

Nonostante in passato non siano mancate alcune traduzioni italiane, sono in pochi a conoscere un’opera capitale della letteratura argentina, analizzata con estrema attenzione sia dalla critica novecentesca che da quella più recente: la novella El matadero di José Esteban Echeverría, scritta fra il 1838 e il 1839, alla vigilia dell’esilio cui l’autore, seguace del Partito Unitario, fu costretto in quanto oppositore di Juan Manuel de Rosas, capo dei Federali e dittatore di un’Argentina ancora in formazione, travagliata da gravi contrasti interni. Un libro da scoprire, appena riproposto da Elliot (Il mattatoio, pp. 48, e. 6) nella brillante traduzione di Carlo Alberto Montalto, autore anche della prefazione che inquadra il contesto storico e sociale del racconto e informa sulla vita breve e turbolenta del suo autore, morto a Montevideo nel 1851, a quarantacinque anni.

Considerato uno dei fondamenti della moderna narrativa argentina, come tutti i classici anche Il mattatoio offre risposte sempre nuove a sempre nuove domande, e secondo Martin Kohan continua a essere non solo letto, ma anche riscritto di continuo, come se la letteratura nazionale “o buona parte di essa, fosse solo una serie di variazioni sul testo di Echeverría”, a partire da La festa del mostro (firmato nel 1955 da Borges e Bioy Casares con lo pseudonimo di Honorio Bustos Domecq), o dal crudelissimo Il bambino proletario di Osvaldo Lamborghini, che ne dilata all’estremo l’allegorica crudezza.

Il racconto di Echeverría, dice Ricardo Piglia, “è una storia della violenza argentina attraverso la finzione, la ricostruzione di una trama dove si possono decifrare o immaginare le tracce che lasciano nella letteratura i rapporti di potere, le forme della violenza”, qui evidenti nello scontro tra i colti e liberali Unitari e l’autoritario oscurantismo del governo Federale e della Chiesa sua complice e alleata, ma visibili soprattutto nel selvaggio ritratto di una plebe sedotta dal populismo ipocrita di Rosas: due mondi inconciliabili, espressione del contrasto che qualche anno dopo verrà teorizzato da Domingo Faustino Sarmiento in un altro testo fondativo (Facundo. Civiltà o barbarie), e che, affrontato in modi diversi, affiorerà a lungo nella cultura e nella politica argentine.

La trama – racchiusa in un unico giorno di Quaresima e in solo ambiente, il mattatoio, assurto a simbolo dell’intera nazione – è apparentemente semplice e si affida tanto al sarcasmo sferzante del narratore, quanto alle descrizioni del mattatoio, sordido avamposto rurale alle soglie di Buenos Aires, tra il fango e le pozze di sangue, i corpi squartati dei manzi che Rosas ha offerto al popolo stremato da carestia e alluvioni, la brutalità dei macellai, i pezzi di carne contesi da una turba umana e animale (cani, topi, gabbiani, vecchie negre che nascondono tra i seni il grasso rubato o sbrogliano gomitoli di budella). Un bambino viene casualmente decapitato da un lazo, ma la sua morte è archiviata senza emozioni; un fierissimo toro tenta la fuga e viene inesorabilmente abbattuto. E un giovane Unitario transita nei pressi del mattatoio ed è subito catturato dai macellai, fanatici rosisti, decisi a infliggergli una tortura che è poi uno stupro – la letteratura argentina ha inizio con una violazione, scrive in proposito David Viñas –, al quale il ragazzo si sottrae con una morte improvvisa, quasi un suicidio provocato dal furore, emettendo un fiume di sangue come il toro appena ucciso (il parallelo tra uomini e animali è continuo, a sottolineare la reciproca disumanizzazione degli avversari).

Si è molto discusso sul perché l’autore non volle pubblicare un testo che ci appare perfetto, di rara intensità narrativa e ricco di immagini così potenti da aver ispirato numerosi artisti, per esempio Carlos Alonso, autore delle magnifiche illustrazioni di un’edizione del 1966, o Enrique Breccia, che nel 1984 ha realizzato per la rivista Fierro uno splendido adattamento a fumetti, pubblicato in Italia dalle Edizioni 001. Il mattatoio emerse infatti dalle carte di Echeverría solo a trent’anni dalla sua morte, grazie all’amico Juan María Gutierrez, come lui membro della Generazione del ’37, i giovani letterati illuministi che tentarono di delineare un progetto di nazione (toccò a Echeverría scriverne nel 1848 il manifesto, noto come Dogma Socialista). Secondo un’ipotesi consolidata fu proprio lui, poeta cui si deve l’introduzione in Argentina del romanticismo europeo, a “nascondere” l’opera, consapevole di quanto fosse estranea all’estetica del tempo e alla volontà di creare un immaginario radicato nella realtà americana (il racconto inizia con un ironico rifiuto della letteratura coloniale) e utile a esaltarne gli aspetti più nobili e la possibilità di un luminoso futuro.

Il mattatoio, invece, rimanda a zone marginali e oscure, mette in scena con involontaria ma palese fascinazione la barbarie di un’alterità vertiginosa, si immerge senza remore in una violenza che può sfociare solo nella morte, e restituisce infine un’oralità rozza e vigorosa, una pluralità di voci fitta di localismi, assoluta novità stilistica che lo sconcertato Gutierrez attribuisce alla “fretta” dell’autore. In poche pagine di una modernità che non manca di sorprendere, Echeverría ricostruisce così l’immagine di un paese intero e, come sottolinea Piglia, dimostra che “la letteratura ha sempre un segno utopico e annuncia il futuro”.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2022