lunedì 28 novembre 2022

Da leggere: Angelica Gorodischer


Angelica Gorodischer



Storie di un Impero infinito 

Angelica Gorodischer, nata nel 1928, è morta otto mesi fa a Rosario, città dove è sempre vissuta insieme al marito Sujer (architetto di origine ucraina cui la scrittrice argentina ha “rubato” il cognome per firmare la propria vastissima opera) e dove ha lavorato come bibliotecaria, cresciuto tre figli e scritto i primi racconti senza avere, almeno all’inizio, “una stanza tutta per sé”, tanto da dover riporre ogni giorno sotto il letto la macchina da scrivere. Non ha fatto in tempo, dunque, a vedere l’edizione italiana del suo romanzo Kalpa Imperial, nella bella traduzione di Giulia Zavagna per Rina Edizioni (pp. 344, e. 18), corredata dall’approfondita prefazione di Loris Tassi. E sembra quasi incredibile che questo autentico classico moderno sia stato così a lungo ignorato dalla nostra editoria, nonostante il viatico autorevole di Ursula K. Le Guin che l’ha proposto (e con notevole successo) ai lettori di lingua inglese, traducendolo lei stessa e accompagnandolo con un giudizio entusiasta.

Di Gorodischer, finora, i lettori italiani potevano leggere solo un pugno di racconti noir (Come svoltare nella vita senza farsi ammazzare, Socrates 2008) e qualche novella inserita in antologie collettive: un’omissione imperdonabile, considerata l’ampiezza e l’importanza del percorso di un’autrice che, dopo aver esordito nel 1964 con un racconto poliziesco (premiato da una giuria di cui faceva parte Rodolfo Walsh), ha continuato a produrre per oltre cinquant’anni opere di grande originalità, rinnovandosi di continuo, attraversando generi diversi e mescolandoli.

Kalpa Imperial (il termine kalpa viene dal sanscrito e si riferisce a un ciclo cosmico infinitamente lungo) è considerato da molti il suo capolavoro, pubblicato in due volumi tra il 1983 e il 1984 e scritto durante la dittatura militare: un romanzo “a cornice”, composto da undici capitoli-racconto sul «più grande Impero mai esistito», caduto e risorto innumerevoli volte e abitato da una sterminata galleria di personaggi. Un testo caleidoscopico, che grazie all’accumulazione e all’accostamento di scene, dettagli, oggetti, visioni, paesaggi e architetture, fa pensare a un Arcimboldo letterario.

Le storie che emergono da lunghe frasi piene di svolte e incisi formano comunque un insieme coerente, il cui filo conduttore, oltre al succedersi delle dinastie, è la voce di narratori orali simili a quelli descritti da Elias Canetti in Le voci di Marrakech (Adelphi, 1983), il cui tono sembra sottolineare la natura mitica e l’incommensurabile antichità dell’Impero, della quale nessun documento scritto e nessun archivio può dare conto fino in fondo.

Ogni episodio potrebbe essere letto come una storia a sé, anche se l’autrice ha più volte suggerito di seguire l’ordine dei capitoli e di considerare il testo nella sua unità, per coglierne pienamente il senso e l’atmosfera. E ognuno, tranne l’ultimo, comincia con la formula “Il narratore disse”, che inaugura vicende sempre diverse, ricchissime di aneddoti, giudizi, ammonimenti, dicerie, umorismo nero, corpi come campi di battaglia, e disposte secondo una cronologia incerta e variabile che al tempo lineare sostituisce interruzioni e vuoti, scivolando avanti e indietro lungo i millenni.

Sotto la ricca e composita superficie di Kalpa Imperial – definito da Le Guin «ferocemente immaginativo e imprevedibile» – scorrono, come una sorta di fiume nascosto, riferimenti alla Storia argentina, dalla Conquista agli anni dell’ultima dittatura, cui l’autrice allude in modo talmente sottile che non per tutti sarà semplice riconoscere una memoria critica così “travestita”. Qualsiasi lettore, però, saprà cogliere la presenza di temi universali come la natura e l’esercizio del potere, il modo in cui vengono registrati e trasmessi gli eventi del passato e l’uso che se ne fa, la funzione sociale e politica della narrazione, il nascere e il tramontare delle culture, il rapporto tra popolo ed élites, tra libertà e dovere.

Gorodischer tesse con pazienza un sontuoso arazzo politico e filosofico e, evitando di formulare teorie o fornire spiegazioni («sono qui per raccontare, non per spiegare», diceva), crea un mondo volutamente incompleto in cui, come sottolinea la penultima storia, «non tutto è detto»: la possibilità di immaginare altre condizioni di vita consente infatti di sfuggire a un presente chiuso e meschino e suggerisce la necessità di sovvertirlo.

Non è facile definire il genere cui appartiene Kalpa Imperial, anche se spesso si attribuisce all’autrice il titolo di Gran Dama della fantascienza di lingua spagnola, alquanto improprio, dato che il romanzo (come altre opere di Gorodischer, a parte forse Trafalgar, sulle avventure di un viaggiatore intergalattico più simile a Gulliver che a un astronauta) non rispetta le convenzioni della science fiction e prescinde da tecnologia, mondi alieni, società future. E il testo non è così facilmente collocabile neppure nel fantasy (non prevede la magia, i poteri soprannaturali, la presenza di creature fatate), o in una tradizione rioplatense che va da Lugones a Borges e da Bioy Casares a Cortázar, in cui lo strano, il bizzarro e l’insolito si innestano sugli eventi quotidiani e, più che contribuire all’invenzione di nuovi mondi, mettono in dubbio la natura della realtà.

È vero che in esergo Gorodischer ringrazia Tolkien, Andersen e il Calvino di Le città invisibili, lasciandoci capire che intende inscriversi nel fantastico e che la sua immaginazione si nutre di miti, leggende, fiabe e utopie; bisognerebbe, tuttavia, resistere alla tentazione di imprigionare in un qualsiasi canone (non importa se “alto” o “basso”) un’autrice che con grande libertà e originalità mette in discussione ogni modello e fonda la sua pratica letteraria su una radicale ibridazione dei generi, mostrandosi capace di assorbire e metabolizzare influssi di ogni tipo, come, per esempio, quelli del neobarroco latinoamericano (la cifra di Gorodischer è l’iperbole, con lunghe enumerazioni, sovrabbondanza di dettagli e un erotismo senza censure) o dei “mondi secondari” alla Tolkien.

Nonostante i dettagli geografici, i paesaggi suggestivi e le descrizioni di città in perpetua trasformazione, simili a organismi viventi che si sviluppano, si espandono, mutano e decadono, è evidente che l’autrice rifiuta la minuziosa cartografia tipica degli universi fantasy e con essa la costruzione di identità nazionali ben definite, limitandosi alla costante distinzione tra un nord colonialista e oppressore e un sud magmatico e turbolento, la cui adesione a valori diversi da quelli imperiali può imprevedibilmente trionfare. Le è estranea, inoltre, la netta opposizione tra Bene e Male, che nei suoi racconti sono sempre pronti a rifluire l’uno nell’altro e a varcare il labile confine che li divide.

Più che con Tolkien e con i suoi emuli, Kalpa Imperial sembra avere qualcosa in comune con le complesse Storie di Nevèrÿon di Samuel R. Delany (tradotte da Roberta Rambelli nel 1978 per Armenia, e purtroppo mai riproposte), dense di riflessioni sul potere, sulla nascita del linguaggio, sulla storia della civiltà, sulle identità sessuali. E con il Delany di Nevèrÿon Gorodischer condivide senza dubbio l’ormai rarissimo dono di un sofisticato umorismo, che, insieme a una scrittura travolgente, fa di Kalpa Imperial una lettura irrinunciabile.

Una chiara intenzione utopica e antiegemonica, legata ai movimenti culturali e sociali degli anni ’60 e ’70, sembra poi collegare la narrativa dell’autrice, oltre che a Delany, all’Ursula Le Guin di La mano sinistra delle tenebre (Libra, 1971) o alla Joanna Russ di Female Man (Editrice Nord 1989), con le quali condivide l’interesse per il superamento della dicotomia maschile-femminile e un tenace femminismo che, sostengono alcune studiose, si manifesterebbe esplicitamente nella sua opera solo a partire dalla raccolta di racconti Mala noche y parir hembra (1983).

Un’attenta rilettura delle prime opere di Gorodischer, invece, ci mostra che le donne siano sempre state al centro della sua narrativa, in cui le identità di genere vengono spesso rappresentate come fluide e indefinite (nel suo primo romanzo Opus dos, del 1967, come in alcuni racconti immediatamente successivi, il sesso del personaggio protagonista e voce narrante non viene mai specificato). In Kalpa, poi, dai bassifondi dell’Impero emerge una potente figura femminile destinata a governare, superando per fama e saggezza tutti gli altri sovrani, mentre nell’ultimo racconto incontriamo una principessa en travesti in fuga dalla regale matrigna, come una sorta di Biancaneve che, però, sa difendersi da sola e non ha bisogno di protettori.

Due attenti studiosi dell’opera di Gorodischer come Michèle Soriano e Alexis Yannoupolos sostengono infine che, se l’Impero rimane simile a sé stesso e non si evolve in una società migliore, nonostante i continui rivolgimenti, il sollevarsi di popoli interi e il frequente avvento di sovrani riformatori, è perché l’autrice se ne serve come metafora di un patriarcato immutabile che tende a perpetuare all’infinito i rapporti di potere. E Kalpa Imperial, allora, oltre a raccontarci storie meravigliose ci sta dicendo che se l’ordine patriarcale non verrà messo profondamente in discussione, nessun cambiamento sarà davvero possibile, nessuna ingiustizia verrà davvero sanata.

 

 

Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul quotidiano Il manifesto nel novembre del 2022