lunedì 13 marzo 2023

Da leggere: Alejandra Pizarnik

 


Alejandra Pizarnik




Viaggiare su un foglio bianco 

L’argentina Alejandra Pizarnik, suicida a trentasei anni nel 1972, è una figura di primo piano nella letteratura di lingua spagnola del Novecento, e non solo grazie alle sei mirabili raccolte di versi, apparse tra il 1955 e il 1971, e a una singolare novella (La contessa sanguinaria), travestita da recensione di un romanzo altrui. Alla sua notorietà ha contribuito, infatti, anche la leggenda oscura, fatta di sofferenza, trasgressione, fragilità, malattia mentale e attrazione per la morte, che ancora la circonda e che ha lungamente orientato la lettura dell’opera, finché, a partire dagli anni ottanta, la pubblicazione di nuovi materiali (prose, corrispondenza, diari) ce l’ha mostrata come un mutevole universo in espansione, tanto che la più attendibile biografa di Pizarnik, Cristina Piña, ha affermato: “Ogni generazione va incontro a una Alejandra diversa”.

A reperire gran parte degli inediti sono state Olga Orozco e Ana Becciu, che subito dopo la morte dell’autrice hanno catalogato una mole considerevole di poesie, audaci prose dal tono umoristico e osceno, manoscritti affollati di eleganti scarabocchi, taccuini trasformati in objets d’art da collages e disegni, e infine i venti quaderni dei diari, migliaia di pagine scritte nell’arco di diciotto anni, tra il 1954 e il 1972, che dopo aver viaggiato tra due continenti, passando per mani diverse, sono approdate alla biblioteca della Princeton University.

A renderle pubbliche ha provveduto l’Editorial Lumen, in due versioni: quella del 2003, che ha suscitato numerose critiche per i tagli e le censure (relativi soprattutto ad aspri conflitti familiari e alla sessualità dell’autrice) operati su richiesta della famiglia, e quella “definitiva” del 2013, più che raddoppiata ma non ancora completa, perché la curatrice dichiara di aver rispettato “l’intimità̀ dell’autrice e della sua famiglia, e di alcune persone menzionate”. Una scelta che induce una volta di più alla discussione sul labile confine tra pubblico e privato, e contraddice l’opinione del grande teorico della diaristica, Maurice Blanchot, per il quale tutto ciò che è stato scritto va pubblicato. Tra quella che Becciu definisce “curiosità morbosa” e la richiesta di “sapere tutto” avanzata da lettori e studiosi, si inserisce però la decisione della stessa Pizarnik, che rese pubblica una minima parte dei quaderni (una scelta di brani relativi ai quattro anni più felici della sua vita, trascorsi a Parigi), ma solo dopo averli riscritti, trasformando in maschili i suoi amori femminili e cancellando gli spunti più intimi, per imboccare la strada del diario "da scrittore".

È alla seconda e più ampia edizione che si è attenuta La noce d’oro, piccola casa editrice nata di recente, che ha suddiviso le 1104 pagine dell’originale in due volumi e manda ora in libreria il primo, Il ponte sognato. Diari 1954-1960 (traduzione di Roberta Truscia, pp. 432, e. 20,90), con la postfazione di Ana Becciu, unica curatrice dell’opera postuma. Grazie all’audacia di un editore esordiente, arriva così ai lettori italiani un testo che, come suggerisce l’ispanista Federica Rocco, si pone come centrale e in un certo senso contiene tutti gli altri.

I diari, quanto e più della corrispondenza selezionata da Bordelois e Piña (Lumen, 2017), non hanno mancato di generare interpretazioni e domande, proiettando nuova luce su un progetto che non si esaurisce nel percorso poetico, inaugurato nel 1955 con La tierra mas ajena, sulla cui copertina l’autrice porta i nomi di Flora Alejandra: il primo ricevuto alla nascita, il secondo scelto da lei e primo segnale di un significativo sdoppiamento. Sin dalle prime pagine affiora una questione che attraversa tutta la scrittura di Pizarnik, ovvero la sensazione di non essere davvero padrona della lingua in cui si esprime: in casa dei Požarnik – immigrati a Buenos Aires nel 1933 da Rivne (ora in Ucraina), e divenuti Pizarnik per un errore di trascrizione – si parlava in russo e in yiddish, e Alejandra aveva appreso a scuola uno spagnolo povero e convenzionale.

È anche l’ossessione per la parola giusta, quindi, che la porta a tessere nei diari una vasta rete intertestuale, in un dialogo con gli autori letti, citati e commentati (tra i tanti, Proust, Kafka, Vallejo, Nerval, Rimbaud, Lautréamont, Artaud, Novalis e i romantici tedeschi) che appare funzionale all’apprendistato letterario e accompagna la sperimentazione delle forme di scrittura che Pizarnik sente più vicine, come testimoniano i numerosi cambiamenti di registro e di genere, con passaggi improvvisi (a volte in un medesimo brano) dalla narratività alla poesia, o dal dialogo al flusso di coscienza.

Forte di una lunga consuetudine con la psicoanalisi, Alejandra compone il più introspettivo dei diari, è assorta in un’esplorazione di sé che non concede spazio al mondo esterno, e non si lascia sfiorare né dai luoghi in cui vive (mai descritti, mai raccontati), né dalle turbolenze politiche e sociali. Questo continuo scrutarsi, però, più che il frutto di un narcisismo adolescenziale sembra mosso ancora una volta dall’intenzione letteraria, perché il diario mira palesemente a fondare una figura autoriale, ad affermarne la singolarità e, secondo Piña, a cercare legittimazione in “un lignaggio di maledettismo e rivolta, fondato sul dolore”.
L’autrice procede così alla costruzione del personaggio che vuole diventare, per sé e per il mondo, e lo fa tramite differenti performances, presentandosi di volta in volta come figlia incompresa, bambina malata di abbandono, creatura androgina e promiscua, intellettuale che non esita a pronunciarsi, nevrotica che si nutre di psicofarmaci ed evoca il suicidio, artista che insegue la perfezione. Identità multiple che a volte adottano la prima persona, a volte si rivolgono col “tu” a un’altra Alejandra, oppure la raccontano come fosse un’estranea, sdoppiandosi all’infinito per contemplarsi dall’esterno.
In primo luogo, però, Pizarnik è colei che afferma: “Possibilità di vivere? Sì, ce n’è una. È un foglio bianco, è lasciarmi cadere sul foglio, è uscire da me stessa e viaggiare su un foglio bianco”. Farsi scrittura, confondersi con essa: il testo diventa metafora ed espressione del corpo, tema fondante dei diari come della poesia, insieme all’infanzia, alla morte, alla solitudine, alla notte, all’amore insoddisfatto, all’ansia di essere riconosciuta e accettata. Una comunanza di temi che non è assoluta: nei versi manca il valore quasi mistico che nei diari è attribuito al sesso, e non c’è traccia del tenace desiderio di scrivere un romanzo, espresso più e più volte nel corso degli anni. Chi affronti il diario, tuttavia, non può non rendersi conto che la grande opera in prosa a lungo e inutilmente progettata è in realtà questa, e che Pizarnik, forse consapevolmente e forse no, quaderno dopo quaderno ha scritto “la novela de si misma”, il romanzo di se stessa.
 
 
Questo articolo è apparso sul quotidiano il manifesto nel febbraio del 2023