sabato 6 maggio 2023

Da leggere: Sara Gallardo

 


Sara Gallardo



I levrieri di Julián 

Non sono in molti, neppure nell’Argentina dove furono popolarissime, a ricordare Beatriz Guido, Silvina Bullrich e Marta Lynch, scrittrici che a metà del secolo scorso vennero chiamate las bestselleristas per l’eccezionale successo dei loro romanzi. La biografa Cristina Mucci le definisce “le dimenticate” (Las Olvidadas, Sudamericana 2022), e Leopoldo Brizuela sottolinea che il tempo non solo le ha cancellate, ma ha finito per premiare un altro terzetto letterario attivo negli stessi anni, quasi segreto e composto da Silvina Ocampo, Elvira Orphée e Sara Gallardo, autrici così singolari da risultare provocatorie e allora situate ai margini dello scenario culturale argentino. Orphée è l’unica, tra loro, ad attendere ancora una piena rivalutazione, mentre il riscatto di Ocampo è così largamente consolidato da averne fatto un indiscutibile punto di riferimento; quanto a Gallardo (scomparsa nel 1988, a cinquantasette anni), il recupero della sua opera è davvero iniziato solo 2004, con l’edizione della Narrativa breve completa curata proprio da Brizuela, che insieme a Ricardo Piglia ha attirato l’attenzione su una scrittura imprevedibile ed elegante, travasata in romanzi o in racconti brevi e affiancata da una vasta e brillante produzione giornalistica.

Sara Gallardo Drago Mitre (nata a Buenos Aires nel 1931 in una delle più illustri famiglie argentine e scomparsa prematuramente nel 1988) era finora nota ai lettori italiani solo grazie a Gennaio, romanzo d’esordio pubblicato da Solferino nel 2021 e apparso in lingua originale nel 1958, che con la sua ambientazione rurale sembrava rifarsi a un immaginario ormai considerato residuale e scartato dal sistema letterario. Nello stesso momento in cui Guido, Bullrich e Lynch si insediavano in un collaudato “canone femminile” fatto di sensibilità e intimismo, e mentre in Argentina si affacciavano le sperimentazioni di un’audace avanguardia o divampavano polemiche sul ruolo politico e sociale della letteratura, Gallardo tornava quindi a una tradizione narrativa ormai archiviata, e se ne serviva spavaldamente per comporre una sorta di trilogia.

A Gennaio, infatti, seguirono nel 1963 Pantalones azules e nel 1968 Los galgos, los galgos, che mettono in scena gli abitanti e i paesaggi delle grandi proprietà terriere, disarticolando però gli stereotipi e le convenzioni di un genere da sempre percepito come maschile e sovvertendolo per mezzo della parodia, dell’iperbole, di vistose deviazioni dalla via tracciata in passato da scrittori come Eugenio Cambaceres, Benito Lynch, Enrique Larreta o Ricardo Güiraldes, autore di quel Don Segundo Sombra che, pubblicato nel 1926, racconta un duro e trionfale apprendistato da proprietario terriero: una storia traboccante di colore locale che Gallardo capovolge simmetricamente nel suo terzo romanzo, come per mettere a nudo, reinterpretare e forse disintegrare le fondamenta della letteratura argentina.

Los galgos, los galgos, tradotto benissimo da Sara Papini, ci viene ora presentato da gran vía (I levrieri, i levrieri, pp. 504, e. 20), rispettandone il titolo, che testimonia il gusto dell’autrice per l’iterazione e per la presenza di animali veri o fantastici: un bestiario singolarmente autentico (tori mostruosi, greggi simili a un’onda lenta, lepri, formiche rosse, pipistrelli, cavalli) popola il romanzo, evocato con attenzione quasi amorosa e dotato di un’accentuata valenza lirica e simbolica. Il posto d’onore spetta ovviamente alla coppia di levrieri Corsario e Chispa che Julián, avvocato senza ambizioni, porta con sé nella tenuta ereditata dal padre, dove spera di trasformarsi in un autentico estanciero e trovare così un senso e uno scopo; da elegante accessorio del suo nuovo status, i cani si trasformano presto in compagni indispensabili e in una versione più stabile e felice della coppia formata da Julián e dalla pittrice Lisa, il cui abbandono coincide con il fallimento dell’impresa: lo spazio rurale si è rivelato un enigma di cui Julián non riesce a decifrare i codici e le regole, affrontati a partire da moventi puramente estetici o da nozioni libresche.

Finalmente consapevole della propria estraneità a un mondo cui dovrebbe appartenere per «diritto di nascita», il protagonista parte per Parigi, dove, più indolente che mai e più che mai pieno di rimpianti per l’amore perduto, finirà per attirarsi una falsa accusa di pedofilia e per decidersi al ritorno, ma solo per scoprire che Lisa è definitivamente perduta: ad attenderlo non c’è che la sopravvissuta Chispa, l’ultimo levriero destinato a morire di lì a poco, come Argo ai piedi di un desolato Odisseo.

Suddiviso in quattro parti che rappresentano altrettante tappe del percorso di Julián (l’ultima lo vedrà scivolare nel matrimonio con una donna che gli è indifferente, ma che ne sopporta con pazienza i capricci e la depressione), il romanzo ha quindi un andamento circolare e rimanda il suo eroe al punto di partenza, abbandonandolo con un breve e spiazzante brano in terza persona che proietta l’autrice verso nuove scommesse formali, condensate tre anni dopo nel suo capolavoro, lo stupefacente Eisejuaz. Attraverso il flusso sincopato dei dialoghi, la progressiva trasfigurazione del quotidiano, la spirale di descrizioni mai inutili e sempre funzionali al procedere del racconto, il romanzo annuncia nitidamente una svolta che allontana l’autrice dall’iniziale naturalismo, spingendola verso una riflessione profonda su temi quali l’identità latinoamericana, la tensione verso l’alterità, la necessità di scrivere oltre e contro i confini della propria classe sociale. Vicino alla perfezione e frutto di una raggiunta maturità, I levrieri, i levrieri si offre come un presentimento dell’imminente inoltrarsi di Gallardo in territori narrativi inesplorati e privi di filiazioni visibili.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di aprile del 2023